Claudio Magris, Corriere della Sera 09/11/2014, 9 novembre 2014
UN PASTROCIO NON È UN PASTICCIO: DENTRO LA VITA SEGRETA DEL VOCABOLARIO
Dunque sono nella bibbia. Addirittura come un suo autore, sia pure solo di poche righe. Considero la mia inclusione nello Zingarelli un vero premio, che rischia di indurmi alla vanità ben più di altri riconoscimenti. Il vocabolario — e tanto più un principe, il principe dei vocabolari come lo Zingarelli — è il libro dei libri, una vera bibbia che racchiude il tutto e il suo significato. È la vera biblioteca di Babele, perché contiene potenzialmente, con le innumerevoli combinazioni possibili delle sue 144 mila voci, tutti i libri immaginabili. Trovarsi nel vocabolario è dunque trovarsi nel cratere di un’inesauribile creatività e mi sento un po’ come uno di quegli astronauti scelti, in tanti film, per viaggi nello spazio-tempo.
Al vocabolario si ricorre, ovviamente, per conoscere il significato dell’una o dell’altra parola o espressione. È geniale l’idea di offrire, per alcuni lemmi — 55 se non sbaglio — non solo il significato letterale, denotativo di una parola (quello che ci insegna, ad esempio, che ipochilia vuol dire ridotta secrezione dei succhi gastrici), ma anche le potenzialità latenti in una parola, il significato irripetibile che essa può assumere in una vita e in un’esperienza, la sua universalità espressa, a differenza che negli altri casi, nell’unicità, nell’individualità della creazione artistica. Il lemma «padre» ha un significato uguale per tutti, ma ha anche una pluralità di significati, che non ne dissolvono il significato generico, ma lo rendono concreto nella sua vita unica e irripetibile nel cuore e nella mente di un uomo, come appare con forza nella voce scritta da Valerio Magrelli.
Così la morte ha un senso uguale per tutti ma è diversa per ognuno e questo può farlo sentire solo l’arte, la letteratura. Perciò sono così lieto che alcune mie righe siano state scelte per mostrare, per far toccare con mano come la parola, nella scrittura, possa diventare altra cosa — tante altre cose, quante sono le penne che la scrivono — rispetto alla sua definizione lessicale, non per smentire quest’ultima, bensì per rivelare quante potenzialità, quanti germi di creatività essa contiene, quante diversità sono latenti nella sua formulazione. Non sta a me giudicare se, nel caso mio, la scelta della redazione sia stata felice o meno, ma comunque ormai, per mia fortuna, è fatta.
Il vocabolario è un compendio della vita, delle sue regole e delle sue eccezioni, della sua logica e delle sue insensatezze, non sempre le stesse nei diversi vocabolari. Alcune lingue — e i vocabolari che cercano di afferrarle — hanno più termini di altre per esprimere diverse sfumature di rosso o di verde e dunque chi le parla distingue più o meno variazioni di rosso o di verde. Tutto è comune e niente è identico nelle diverse lingue e dialetti; pastrocio non è la stesa cosa di pasticcio. Parecchi anni fa ho scritto sul «Corriere» una grottesca pagina in cui immaginavo l’impossibile compilazione di un D.U.D. (Dizionario universale definitivo), che fermasse per sempre lo scorrere e la metamorfosi della vita e delle parole.
Leggo molto i vocabolari, molti vocabolari, come esortava Baudelaire. Dalle parole nascono altre parole, altre cose, altri volti del mondo. Vocabolari monolingui e vocabolari che mettono a contatto lingue diverse. In questo momento, per un’idea narrativa che ho in testa, un vocabolario che ho spesso fra le mani è quello francese-creolo e creolo-francese. Nei vocabolari si coglie il trasformarsi della vita, della società, della Storia; il nascere e il morire di cose, professioni, condizioni di vita. Il vocabolario italiano-tedesco e tedesco-italiano Rigutini-Bulle del 1900 — forse il più grande nel suo campo, nonostante il tempo passato — elenca all’inizio i diversi linguaggi specifici. Quelli delle scienze vengono raggruppati in poche categorie generali, fisica, matematica, meccanica, tecnica, mentre a quasi ogni gergo artigiano viene riconosciuta la dignità di una classe autonoma: i doratori, i bottaj, i calzettaj, i cappellaj, i carbonaj, i carrozzieri, i cartaj, i conciatori, i fabbri, i fornaj, i fochisti, i gettatori, i gioiellieri, gli incisori, i libraj, i magnani, i muratori, i mugnaj, gli orefici, gli scalpellini, i sarti, i setaiuoli, i tappezzieri, i tornitori, i valigiaj, i verniciatori, i vinaj hanno tutti la loro menzione particolare, al pari degli «scienziati» e dei «tecnici».
Il vocabolario è un’enciclopedia della conoscenza ma anche della sua impossibilità, del nulla su cui si affaccia ogni cosa e ogni parola. Il significato di ogni temine, di ogni parola viene spiegato ovviamente con il ricorso ad altre parole, ognuna delle quali, per essere capita, ha bisogno di altre parole e così via, magari alla fine pure di quella alla ricerca del cui significato si era partiti. Il vocabolario è dunque una parabola della vita, edificio che poggia su se stesso ovvero sul nulla, come il barone di Münchhausen che si solleva tirandosi su per i propri capelli. Nel Rigutini-Bulle l’ultimo vocabolo, che chiude a pagina 1040 l’appendice della parte tedesco-italiana, è Zungentatterich , che gli autori traducono «balbettio dal troppo bevere»: il catalogo delle parole del mondo, classificate con rigorosa precisione, finisce con questo farfugliare di una lingua piacevolmente grossa e impastata.