Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2014  novembre 08 Sabato calendario

PAROLA D’ORDINE: «NOI»

[Intervista a Antonio Conte] –

Antonio Conte, il 5 novembre, è stato il 25° anniversario di un piccolo evento, se lo ricorda?
«È il giorno in cui ho segnato il primo gol in serie A. Giocavo con il Lecce e marcavo Maradona. Vinse il Napoli 3-2, però sono riuscito a trovare il guizzo... Me lo ricordo bene perché di gol ne ho fatti pochi».
Dopo 25 anni che cosa prova voltandosi indietro?
«Orgoglio ed emozione. E penso alla fatica che ho fatto, tanta. Quello che ho ottenuto me lo sono sempre conquistato con il lavoro duro».
Nel suo libro ricorda l’acquisto di una gomma da masticare quando era ragazzino come una conquista: i giovani calciatori erano più disposti al sacrificio?
«C’è una differenza sostanziale e si chiama fame. Noi crescevamo in mezzo alla strada, dove si giocava a pallone e si imparava a difenderci per non morire. Adesso si sta davanti al computer e i ragazzi ottengono quasi tutto e subito. Anche i genitori, a volte, fanno danni forse pensando di avere un figlio come Messi o Ronaldo. Mio padre, in tutta la sua vita, sarà venuto si e no dieci volte a vedermi giocare. Serve il sacro fuoco. E se non ce l’hai è un guaio».
E il talento?
«Da solo non basta. Ecco perché in Nazionale la parola d’ordine è: noi. Chi pensa con l’io può restare a casa».
In tre mesi come è cambiata la sua vita?
«Non ho ancora avuto una settimana libera. Giriamo per ritiri, guardiamo allenamenti e partite, parliamo con gli allenatori. E poi c’è il settore giovanile. Una vita intensa...».
Però...
«Però manca il lavoro di tutti i giorni e il contatto quotidiano con i giocatori. Intendo la Nazionale come un club e per riuscirci devo fare in una settimana ciò che alla Juve facevo in un mese».
La sensazione è che il Conte azzurro sia più tranquillo. Senza tensioni e senza nemici. È così?
«Conte è Conte. Alla Juve, come all’Arezzo. Ora rappresento il Paese, sono l’allenatore di tutti. Ma se ci sarà bisogno di andare in guerra non mi tirerò indietro. Difendo sempre il mio gruppo».
Da juventino lei divideva l’Italia. E adesso?
«Mi piace quando i tifosi bianconeri mi fermano per strada e mi ringraziano per quello che ho fatto. Ma succede anche a Siena e a Bari, dove ho vinto. E mi piace che intorno alla Nazionale ci sia nuovamente entusiasmo. Spero che sia contagioso e che serva a riempire San Siro contro la Croazia perché sarà dura».
Il 3-5-2 che ha fatto la fortuna della sua Juve nasce nella trasferta di Napoli dopo qualche mese. In Nazionale, invece, è partito subito con un’idea precisa. Andrà avanti così?
«È un sistema che conoscono tutti. E l’obiettivo, adesso, è dare certezze ai giocatori per arrivare a qualificarci all’Europeo. Dopo valuteremo pro e contro. Avremo un mese di tempo per lavorare e creare una macchina da guerra. Magari, a quel punto, cercheremo un’evoluzione tattica. E poi i numeri sono fine a se stessi».
Ovvero?
«Sono freddi, aridi. Ciò che conta è l’interpretazione del modulo, la voglia di evolversi».
Che cosa risponde a chi sostiene che il 3-5-2 è difensivo e non funziona in Europa?
«Sono luoghi comuni. La risposta è il Bayern: giocano a tre dietro ma qualcuno può sostenere che sia una squadra votata a difendersi? È un piacere per gli occhi, così come il Real Madrid. Carlo (Ancelotti) è riuscito a convincere 11 campioni a fare le due fasi e propone delle ripartenze entusiasmanti».
La crisi del nostro calcio è fotografata dalla classifica del Pallone d’oro senza italiani. Che ne pensa?
«Il livello si è abbassato e si sta abbassando ancora. Dobbiamo farcene una ragione. Pensiamo di essere ancora i campioni del mondo, ma non è più così».
Che cosa ci penalizza in campo internazionale?
«Guardo tanto calcio straniero e dico che a livello tattico siamo i più bravi. Ma bisogna migliorare l’intensità negli allenamenti. Perché se un giocatore si allena piano, va piano anche la domenica».
Si è già accorto che la Nazionale per molti è un peso?
«Con i tecnici sto cercando di costruire un rapporto trasparente, che vada oltre gli interessi personali. Mi fido di loro, sperando che loro si fidino di me. Osvaldo è un esempio: l’Inter, dopo l’infortunio, vuole farlo allenare per consentirgli di ritrovare la condizione. E io non lo chiamerò».
Riuscirà a ottenere di cominciare prima il prossimo campionato, che ci porterà dritto agli Europei?
«Sarà fondamentale riuscirci. Perché i giocatori hanno bisogno di staccare una settimana e a me ne servono 4 per la preparazione».
Lei parla di meritocrazia, ma non crede che oggi si arrivi troppo in fretta alla maglia azzurra?
«È vero, a volte basta segnare un gol e c’è subito chi spinge per la convocazione. Io credo che l’Italia debba essere una conquista. Solo così la puoi apprezzare e lottare per difendere il posto. Certo, adesso è difficile perché i giocatori eleggibili sono sempre meno...».
La forza della Juve erano gli interni di qualità. In Nazionale, però, non c’è un Vidal...
«Qualcosa si può inventare. Candreva quel ruolo l’ha già fatto e lo può fare. E poi nella prossima convocazione vedrete qualche giocatore nuovo».
Contro la Croazia avrà a disposizione sia Pirlo sia De Rossi. Uno è di troppo?
«In mezzo al campo c’è la coda. Serve un regista basso che sappia dettare i tempi del gioco, con due incursori bravi a giocare ad alta intensità. De Rossi negli anni si è specializzato a giocare davanti alla difesa, tanto che nella Roma entra spesso nella linea a quattro. Può fare anche il difensore centrale a tre, ma bisogna lavorarci sopra».
È preoccupato dalla lunga assenza di Barzagli?
«È un ragazzo generoso, lo aspetto a marzo».
Che ne pensa degli allenatori, come Inzaghi, lanciati senza aver fatto la gavetta?
«Lo dicevano anche del sottoscritto quando sono arrivato alla Juve, dimenticandosi del mio passato. Ad Arezzo, per esempio, ho fatto di tutto, mi hanno esonerato e richiamato. E abbiamo sfiorato la salvezza. Credo di aver lavorato bene, però l’estate sono rimasto senza squadra. Perché a volte i dirigenti sono ciechi e hanno bisogno di cambiare il cane lupo».
Pensa mai al Mondiale?
«No. Ora sono concentrato sull’Europeo e anche se tutti dicono che ci qualificheremo, non siamo in una situazione di serenità. Guardare oltre l’Europeo per me è impossibile».
Ma come è nata l’idea di allenare la Nazionale?
«Non era nei miei pensieri. Ero in vacanza in Croazia con le infradito e alla prima telefonata con Tavecchio ho risposto di no. Il presidente, però, è stato bravo a convincermi. Così sono dovuto andare in un negozio e in tutta fretta mi sono fatto fare il vestito per la presentazione...».
In salotto a casa c’è ancora la panchina che le aveva regalato sua moglie durante la squalifica?
«No, ora c’è un divano, ma lo uso come una panchina...».
In famiglia con due donne comanda lei?
«Figuriamoci, prima di me c’è anche il gatto...».
Prandelli aveva il codice etico. Il suo, di codice, qual è?
«Io sono diverso da Cesare. Le mie regole sono chiare e non c’è bisogno di codificarle. Quanto a Twitter, credo che sia lecito aspettarsi buonsenso da parte di tutti».
Ma è vero che suo fratello Gianluca, l’analist match, capisce di calcio più di lei?
Ride. «Impossibile. Però è molto bravo, un vero studioso, persino troppo a volte. Lavora con me dai tempi di Bari e sa perfettamente cosa voglio e cosa deve guardare».
Dalla vacanza in Croazia alla Croazia come avversario. È un primo spartiacque?
«È la rivale più forte del girone e ci servirà a capire, dopo 4 vittorie, dove siamo. L’importante è la continuità, perché vincere aiuta a vincere».