Ian Bremmer, Corriere della Sera 08/11/2014, 8 novembre 2014
IL PROSSIMO PRESIDENTE SARÀ POCO INTERVENTISTA COME IL PRUDENTE OBAMA
Gli americani hanno votato a favore del cambiamento e a Washington l’opposizione repubblicana ha espugnato entrambe le Camere del Congresso. Ma se l’attenzione si sposta inesorabilmente verso la sfida elettorale del 2016, è opportuno riflettere su come questi cambiamenti incideranno sul ruolo degli Stati Uniti nel mondo.
In politica estera, Barack Obama si è dimostrato un presidente cauto, poco incline a lanciarsi in avventure rischiose. Alcuni hanno elogiato la sua moderazione come saggio correttivo agli eccessi del governo Bush e alla sua «guerra globale al terrore». Altri ipotizzano invece che la riluttanza di Obama a lasciarsi coinvolgere nelle problematiche mondiali abbia fatto innalzare il livello di pericolo su scala planetaria. Dopo quasi sei anni alla Casa Bianca, Obama sa benissimo che, a prescindere dalle sue azioni, ci sarà sempre qualcuno pronto a prendersela con il presidente degli Stati Uniti. Non si può affermare, tuttavia, che Obama abbia evitato i conflitti. È stato lui a rafforzare la presenza militare americana in Afghanistan prima dell’inizio del ritiro finale. Ha dato il suo appoggio alla coalizione multinazionale che ha rovesciato Muammar Gheddafi, si è espresso con risolutezza contro gli interventi russi in Ucraina, ha imposto sanzioni su banche, produttori di gas e fabbricanti di armi in Russia. Ha ordinato il bombardamento dei miliziani islamisti in Iraq e in Siria. Durante il suo mandato, i servizi di sicurezza americani hanno spiato indistintamente nemici e alleati, e — si dice — persino i deputati del Congresso. Ancora oggi, i droni americani continuano a sganciare bombe su Paesi stranieri. Eppure, Obama è ben più noto per la riluttanza ad accollarsi nuovi rischi e nuove spese all’estero. Aveva già dichiarato, ancor prima della sua elezione alla presidenza, che mirava non solo a metter fine alle guerre in Iraq e Afghanistan, ma anche ad evitare di lasciarsi invischiare in nuovi conflitti. Pertanto, niente attacchi contro Bashar al-Assad in Siria, niente truppe in Ucraina, basta nuovi invii di militari in Iraq. Obama non è un «falco» e non ha nessuna intenzione di diventarlo.
In questi giorni, mentre si rimette in moto la lunga marcia verso le presidenziali americane del 2016, il mondo farebbe bene a chiedersi: quale sarà la politica estera del nuovo presidente? Già primo segretario di Stato sotto Obama, Hillary Clinton seguirà la sua linea cauta qualora dovesse decidere di scendere in lizza per la presidenza? Un Jeb Bush presidente vorrà riportare in auge le grandiose ambizioni neocon del fratello? E un altro candidato potrebbe introdurre direttive politiche completamente nuove?
Il prossimo presidente americano, democratico o repubblicano che sia, con ogni probabilità non si discosterà di molto dal cammino seguito finora. E le ragioni sono due.
Innanzitutto, malgrado gli inevitabili discorsi muscolari dei candidati presidenziali per impressionare gli elettori, l’attenzione del pubblico americano resta focalizzata sui problemi di politica interna e sul rilancio dell’economia. Secondo un sondaggio Pew, realizzato a fine 2013, per la prima volta in 50 anni la maggioranza degli intervistati si è detta convinta che gli Stati Uniti debbano «pensare ai propri affari, sul piano internazionale, e lasciare che gli altri Paesi facciano come meglio credono». Nessun presidente può portare avanti una politica estera ambiziosa e costosa senza il sostegno deciso dei cittadini. In America, quel sostegno non esiste più, e a meno che non si verifichi un altro, grave attentato terroristico sul suolo americano, non è più immaginabile nemmeno in un futuro prossimo.
Secondo, quali siano le affermazioni dei candidati, entrambi i partiti ammettono che non esistono soluzioni facili ai problemi più spinosi del pianeta. La Russia non potrà costringere l’Ucraina a restare per sempre nell’orbita di Mosca. Ma nessuna potenza, neppure l’unica superpotenza mondiale, può costringere i russi a desistere. Le sanzioni possono penalizzare il Paese a lungo termine, ma non bastano a far cambiare idea a Vladimir Putin. L’attuale conflitto è destinato allo stallo, e nessun presidente americano sarà disposto a rischiare la presidenza scommettendo sulla riuscita di Washington.
L’avanzata dell’Isis continuerà a seminare morte e distruzione in Iraq e in Siria, sebbene non sia in grado di minacciare seriamente i governi centrali dei due Paesi, né di far sloggiare i curdi dal loro territorio nel Nord dell’Iraq. Eppure, Washington non potrà sconfiggere una volta per tutte l’Isis senza l’intervento di truppe di terra. A meno che l’Isis non compia un attacco su vasta scala sul territorio americano, il prossimo presidente, democratico o repubblicano, si guarderà bene dal chiedere al popolo americano di affrontare una nuova guerra in Iraq.
Nessun presidente si illuderà mai che scatenare un conflitto politico-economico con la Cina, intervenendo a sostegno dei manifestanti pro-democrazia di Hong Kong, possa recare vantaggi all’America. Al massimo, l’America potrebbe infastidire Pechino appoggiando la Trans-Pacific Partnership, un gigantesco accordo commerciale che intensificherà i rapporti economici tra gli Usa e molti Paesi confinanti con la Cina. Man mano che i prossimi candidati presidenziali americani saliranno alla ribalta, ci sarà da aspettarsi la solita retorica aggressiva in politica estera, ma non lasciamoci impressionare. Per i prossimi anni, stiamo sicuri che Washington manterrà le dovute distanze dai conflitti internazionali più costosi e rischiosi.
(Traduzione di Rita Baldassarre)