Guido Plutino, Il Sole 24 Ore 10/11/2014, 10 novembre 2014
LIQUIDITA’ DELLE IMPRESE A LIVELLI RECORD
Dead money sleeping: denaro sotto il materasso, improduttivo. Che sia tanto, tantissimo, si sa. Meno noto invece è che non appartenga solo alle famiglie. Non sono solo gli investimenti della casalinga di Voghera a essere immobilizzati dall’incertezza e dalla paura del futuro. Analoghi comportamenti attendisti sembrano essere stati adottati da fior di multinazionali, governate da fior di manager.
Lo chiarisce un accurato studio Deloitte (“The cash paradox”, realizzato da Iain Macmillan, Sriram Prakash e Russell Shoult), che ha preso in considerazione le società non finanziarie appartenenti all’indice S&P Global 1.200. I risultati sono inattesi: su scala mondiale, le riserve liquide delle società non finanziarie erano stimate in 1.200 miliardi di dollari nel 2000. Nel 2008 venne superata la barriera dei 2mila miliardi di dollari, per poi accelerare ulteriormente negli anni successivi e fino a tutto il 2013, a un ritmo annuo del 12 per cento. Risultato finale, a dicembre 2013: oltre 3.500 miliardi di dollari di riserve liquide (circa 2.800 miliardi di euro).
La diffusione del fenomeno è tale da essere giudicata corresponsabile della scarsa efficacia delle politiche monetarie fin qui adottate per combattere la crisi. «Inoltre - commenta Silvano Carletti, analista dell’Ufficio studi Bnl, Gruppo Bnp Paribas - la sua dimensione globale e forse anche la dinamica sono quasi certamente superiori. Lo prova il caso delle società canadesi, che deterrebbero riserve liquide per 630 miliardi di dollari, o quello della Corea del Sud, Paese in cui le riserve liquide dei gruppi maggiori si aggirerebbero intorno ai 400 miliardi di dollari. In entrambi i casi si tratta di importi ben più rilevanti di quanto evidenziato dalla ricerca della Deloitte. Nell’insieme, negli anni post-crisi ben 2 trilioni di dollari, e forse più, sarebbero affluiti alle tesorerie delle grandi imprese piuttosto che impiegati per finanziare attività».
Appurata la diffusione mondiale del trend, è però necessario entrare, per quanto possibile, nel suo dettaglio geografico e settoriale. Si scopre così che questo fenomeno risulta piuttosto concentrato. Alle aziende statunitensi fa capo il 45% delle consistenze di dead money. Le imprese giapponesi pesano per il 14%, mentre i gruppi europei di Germania, Francia e Gran Bretagna contribuiscono complessivamente (e in misura quasi equivalente) per il 18 per cento.
L’Italia non viene presa in considerazione singolarmente dall’indagine Deloitte, segno che qui la tendenza è decisamente meno diffusa e rilevante. È la conferma che in Italia – in tema di liquidità – il vero nodo da sciogliere resta quello del credit crunch bancario. Non solo: proprio la scarsità di risorse, contrapposta all’accumulo riscontrato altrove, sembra inchiodarci al ruolo di preda nel grande processo di accentramento mondiale dei business.
La concentrazione di dead money viene confermata anche quando si considerano i comparti di attività. Il settore di gran lunga più importante è il Tmt (technology, media & telecommunication): il suo peso (31%) risulta addirittura superiore a quello dell’intero comparto manifatturiero (29%). Considerando il periodo 2008-2013, il ritmo di crescita annua delle riserve liquide delle imprese Tmt ha raggiunto il 16 per cento. Seguono sanità, energia e prodotti di largo consumo con ritmi compresi tra il 10 e il 16 per cento.
L’accuratezza dell’indagine Deloitte è fuori discussione. Peccato che, considerato a quale velocità evolva la situazione, la fine del 2013 sembri molto lontana. Da allora, infatti, le cose potrebbero essere molto cambiate. Lo sottolinea Bnl, richiamando due temi segnalati dal Fondo monetario internazionale. Pur in uno scenario economico che si mantiene fragile, esistono alcuni indicatori che mostrano un andamento positivo. Due in particolare, che sono inoltre legati alla propensione delle imprese (specie grandi) a possedere liquidità. Sono la ripresa degli investimenti non residenziali negli Usa e l’intensificazione delle operazioni straordinarie, fusioni e acquisizioni in testa. Nel primo caso la dinamica è da tempo in accelerazione: il ritmo è del 6,8% in termini reali, nella media degli ultimi quattro trimestri. Le voci “impianti” e “macchinari” sono le più dinamiche dell’aggregato. Nel secondo caso, le operazioni mondiali di merger & acquisition avviate o completate nei primi nove mesi del 2014 hanno raggiunto il valore record di 2.700 miliardi di dollari, il 60% in più rispetto al 2013 e la cifra più elevata degli ultimi sei anni. Riguardano gli Stati Uniti, ma anche l’Europa e l’Asia. Inoltre il 40% di queste operazioni è di tipo cross-border: nei primi nove mesi dell’anno le M&A transfrontaliere hanno superato i mille miliardi di dollari, un livello mai raggiunto dal 2008.
«Al di là del loro rilievo specifico - conclude Carletti -, i due fenomeni sono importanti, perché offrono il possibile indizio di un rallentamento della crescita, se non addirittura di un ridimensionamento della consistenza, delle ingenti riserve di liquidità evidenziate dai bilanci delle imprese, soprattutto quelle di grande dimensione».
Verrebbe, quindi, da concludere che nel 2014 i comportamenti di famiglie e imprese siano diventati meno simili di quanto avvenuto nel recente passato. Ancora sfiduciate e incerte nelle scelte di asset allocation le prime; pronte a cogliere, con il denaro in tasca, le migliori occasioni finanziarie le seconde.