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 2014  novembre 09 Domenica calendario

TOMÁS MALDONADO

[Intervista] –
Tomás Maldonado è nato a Buenos Aires. Ha girato il mondo. Negli anni Settanta ha preso la nazionalità italiana. È un signore elegante: alto (supera il metro e novanta); agile (non dimostra i suoi 93 anni); autorevole (anche nel modo in cui la lingua italiana — ne conosce cinque — riverbera echi sudamericani). Parliamo a lungo nella sua casa milanese. Noto la sicurezza dei gesti. L’assenza di fatica. La curiosità razionalista che lo invade ogni qualvolta deve fornire o chiedere una spiegazione. Alla fine mi fa vedere una foto. Si tratta di un ricevimento nell’allora nascente università di Ulm. Con Maldonado trentenne c’è un ometto di spalle in abito da sera: Martin Heidegger. Sembra che i due conversino. «Chiesi che fosse presente all’inaugurazione. Mi risposero che non era ammissibile che un professore compromesso con il nazismo fosse ospite, anche per una sola sera. Alla fine la spuntai». Mi sembra un uomo che reagisce ai conformismi. Ho anche l’impressione che a volte si difenda dalle domande. Le aggiri con abilità. Il gioco è non restare spiazzato. O non farlo vedere.
Da argentino non ha niente del vecchio “gaucho”.
«Allude a una figura mitologica che il folklore ha ricoperto di una patina banale. Il gaucho è depositario della libertà e dell’idea stessa di spazio senza confini».
Lei è nato a Buenos Aires. Perché ha preso la nazionalità italiana?
«Non perché i miei avessero origini italiane. Diciamo che l’Italia era un eccellente compromesso tra le ragioni dell’Europa e il Sud America».
I suoi da dove provenivano?
«Mio padre, di professione chimico, aveva origini spagnole. Mia madre era irlandese. Mio fratello, più grande, quando decise di fare il poeta si firmò con il cognome della mamma: Bayley. Il nome era Edgar. È stato un poeta famoso. Mentre il piccolo sarebbe diventato un importante scienziato nel campo della biologia».
E lei a metà strada?
«Ho sempre pensato ai risvolti umanistici della scienza. Ho fatto l’accademia delle belle arti. Divenni un membro attivo delle avanguardie artistiche. Difendevo l’astrattismo. Erano gli anni quaranta».
Lo difendeva da chi?
«Dai movimenti più tradizionali».
In quegli anni era forte la presenza di Lucio Fontana.
Che rapporti aveva?
«Fontana era argentino come me. Non colsi immediatamente il suo genio. A Buenos Aires era stato una specie di scultore ufficiale, un accademico e non l’artista che avremmo conosciuto in seguito».
Si intuiva la sua grandezza?
«Io non la capii. I suoi lavori mi sembravano pesante- mente condizionati dallo stile di Medardo Rosso. Poi si inventò lo spazialismo. Finì che polemizzammo. Del resto, noi astrattisti eravamo duri e poco concilianti».
Sul piano più strettamente letterario come viveva la presenza di un personaggio come Borges?
«Borges, che ho conosciuto abbastanza bene, incarnava l’establishment letterario. Era la letteratura con un tocco di aristocrazia sarcastica. Collaborava alla rivista Sur di Victoria Ocampo. Firmavano anche Cortázar, Sábato, Bioy Casares. Forte era la matrice borghese e conservatrice. Per noi inammissibile. Finimmo anche lì col polemizzare».
Visti oggi, quei personaggi, cosa pensa?
«Sono stati importanti. Molto più di quanto allora eravamo disposti ad ammettere».
Diceva di Borges e che lo ha conosciuto.
«Piuttosto bene. Ma cosa si può dire di un uomo su cui è stato detto tutto? L’unica volta in cui lo vidi imbarazzato fu a Princeton».
All’università?
«Ero lì per studio. Il corpo accademico pensò di invitare il grande scrittore per il giorno di Natale. Borges arrivò con la moglie. Si presentarono il 24 sera vestiti elegantissimi. Noi indossavamo abiti normalissimi. In un primo momento non capimmo la moglie ingioiellata e lui come se andasse a ricevere il Nobel».
Che tra l’altro non gli avrebbero mai dato.
«Fa parte dei misteri dolorosi di Stoccolma. Ad ogni modo si presentarono e capirono che c’era qualcosa di stonato. Nessuno gli dava retta. La moglie si infuriò. Capimmo la gaffe ma era troppo tardi. Se ne andarono. In realtà c’era stato un equivoco. Il ricevimento era per il pranzo del 25. Lei, offesa, disse che sarebbero ripartiti la mattina stessa. In quanto argentino fui spedito a portare le scuse dell’università e a cercare di recuperare la situazione».
Cosa accadde?
«La moglie, che credo si chiamasse Elsa, fu inamovibile. Lui fu decisamente più tollerante. Ma anche smarrito. Gli ricordai gli incontri argentini. Parlammo di letteratura. Alla fine si sottomise al gran rifiuto della donna».
Lei cosa faceva esattamente a Princeton?
«Insegnavo. Dovevo semplicemente decidermi se continuare a farlo lì o preferire l’Italia».
La conosceva?
«C’ero stato alla fine della guerra. La mia prima tappa fu Milano. Era il 1946-47. La città mi apparve distrutta. Ma anche con un gran desiderio di rinascita. Strinsi rapporti con vari intellettuali. Il solo che mi parve in sintonia con la mia storia fu Elio Vittorini. Era un uomo che stimavo. Trovai interessanti le riviste che aveva fondato. E coraggiosa la polemica con Togliatti. Da Milano mi trasferii a Parigi. Dove frequentai Eluard e Aragon».
Le piacevano proprio gli intellettuali comunisti.
«Erano i soli in grado di rompere un certo ron ron borghese. C’era in vista una grande normalizzazione. Ricordo la curiosità che provai per un intellettuale come Ernst Bloch che aveva dedicato la sua riflessione ai temi dell’utopia e della speranza».
Lo ha conosciuto?
«Oh sì, lo invitai nel mio periodo tedesco a tenere una lezione. Viveva a Lipsia, nella Germania dell’Est, non fu facile farlo arrivare ad Ovest».
Perché è finito in Germania?
«Fu attraverso il mio amico Max Bill, uno degli ultimi allievi di Walter Gropius. Andai a trovarlo a Zurigo. Mi presentò Inge Scholl. Una donna incredibile cui i nazisti avevano a Monaco impiccato due fratelli. Erano tutti e tre membri della Rosa bianca, una parte della resistenza tedesca. Inge arrivò a Zurigo con il compagno, un grafico. Sembravano due sopravvissuti. Per me fu un incontro
commovente. Volevano persuadere Max Bill a far rinascere il Bauhaus in Germania. Brutalmente interrotto dai nazisti. Sembrava una follia viste le condizioni miserabili di quel paese e la fama sinistra che lo circondava. Inge disse che i finanziamenti in larga parte sarebbero arrivati dagli Stati Uniti».
«Dopo un primo no deciso, Max Bill ci ripensò. Nel frattempo ero tornato in Argentina. Ci incontrammo in Brasile. Mi disse che aveva ripensato alla questione e mi invitò ad associarmi a lui per dei corsi che avrebbe tenuto a Ulm. Fu lì, nella Baviera, che fondammo la nuova università ».
Che genere di università?
«Un po’ speciale. Dedicata prevalentemente al design. Autonoma nella gestione. Arrivai con la mia moglie tedesca. Le promisi che saremmo stati solo un anno. Rimanemmo in Germania per 14 anni. Conobbi un paese distrutto, affamato, disperato. Mi colpì l’alto numero di nazisti che ancora circolavano liberamente».
Che impressione ricavò dal popolo tedesco?
«Non reagiva. Era prostrato dalla vergogna. Si era diffuso anche una specie di opportunismo. Quasi nessuno voleva che si parlasse più di ciò che era accaduto. Era solo il 1954».
Ma come pensavate di far rinascere il movimento del Bauhaus, di fatto un’esperienza conclusa?
«Questo fu un problema tra chi, come Max Bill, pensava che il Bauhaus potesse diventare una sorta di esempio educativo per il popolo tedesco, e altri, tra cui io, che vedevano la questione sotto un altro profilo. Scrissi, mi ricordo, a Gropius nel 1963 manifestandogli tutti i miei
dubbi».
E cosa si aspettava dal fondatore del Bauhaus?
«Mi schieravo contro la tendenza canonizzatrice del movimento. E sapevo di pensarla come Gropius, da sempre critico verso chi “santificava” uno stile. Ad ogni modo furono anni bellissimi, ricchi di incontri».
Chi conobbe?
«Inge Scholl era legata al Gruppo 47. Vennero spesso Grass ed Enzensberger. Ma anche Arno Schmidt. Uomo geniale e complicato del quale divenni amico. Si stabilì un rapporto fecondo con la scuola di Francoforte».
Con chi in particolare?
«Ovviamente Adorno. Era tornato dagli Stati Uniti. Si interessò alla nostra esperienza. Lo invitammo a tenere delle lezioni. Fu uno spettacolo di intelligenza attiva. Completamente diverso da Horkheimer, talmente rigido da apparirmi cupo».
In tutto questo lei cosa faceva?
«Ero considerato il selvaggio sudamericano che partecipava alla ricostruzione di un paese. Ero libero. Non avevo condizionamenti mentali né ideologici. Fu ciò che mi permise di invitare Heidegger, del quale avevo letto, in traduzione spagnola, Essere e tempo, un’opera complessa e profonda».
Perché Heidegger accettò di venire? In fondo voi eravate su tutt’altro versante culturale.
«Aveva da poco subito un processo e penso volesse in qualche modo rompere l’isolamento che lo circondava. Conobbi un uomo sulla difensiva. Oltretutto, c’era una difficoltà ulteriore: in quel momento non parlavo un buon tedesco. Comunque conversammo. Notai la superbia del pensiero e dell’uomo. Il lupo perde il pelo ma non il vizio».
Lei come si definirebbe?
«Da quale punto di vista?».
Diciamo culturale.
«Una persona poliedrica. Mi sono occupato di arte, disegno industriale, architettura. Ho scritto libri dedicati al “virtuale”, al sapere informatico e perfino al destino degli intellettuali. Ho insegnato in tante università. Dopo Ulm, a Londra, a Princeton, al Dams di Bologna con il mio amico Umberto Eco, al Politecnico di Milano: 45 anni di carriera universitaria».
Si assolve, vista la fine che ha fatto l’università?
«Non credo di aver fatto mai porcate accademiche. Ci possono essere stati errori di valutazione, a volte. Credo che se uno fa il proprio mestiere in profonda buona fede, gli vada riconosciuto. Altra gente ha solo raccontato storie ideologiche. Ho cercato di trasmettere saperi concreti ».
Se dovessi catalogarla...
«La parola è orribile».
Lo capisco. Ma se dovessi darle un volto, la metterei tra quegli intellettuali che nel dopoguerra hanno molto creduto alle virtù della modernità, della crescita, della ragione.
«Continuo a credervi».
Non si sente superato dagli eventi?
«Il superamento è un concetto hegeliano. Implica conservare quello che si è superato. Non ho l’impressione che questo mondo conservi qualcosa. Vista l’età credo di avere oggi un’autorevolezza diversa rispetto al passato. E se mi guardo indietro, cosa che faccio di rado, devo riconoscere di avere avuto una vita fortunata».
Quanto fortunata?
«Abbastanza, poi conta molto la determinazione, l’impegno, la coerenza. Non una vita fortunata in senso piccolo borghese. Ma, come dico spesso a Inge, nell’aver fatto sempre le cose che mi piaceva fare».
Inge sarebbe Inge Feltrinelli?
«Sì, la mia compagna da tantissimi anni. Entrai nella sua vita in un momento per lei difficile. Era morto, in circostanze tragiche, Giangiacomo, bisognava prendere decisioni gravi per la casa editrice e c’era Carlo, il figlio, allora piccolo. L’ho accompagnata nel percorso più difficile e credo di avere anche avuto una qualche importanza nell’educazione del figlio».
Si definirebbe un padre?
«Non ho scelto un ruolo che, peraltro, non mi si addice. Ho assunto la funzione paterna. Ma un padre è un’altra cosa. Preferisco immaginarmi come un fratello più grande o, al limite, uno zio. Mi risparmierei la retorica del vecchio che parla dei giovani, che li consiglia o li guida».
Non ci crede?
«No, non ci credo. Aggiungo che se qualche volta ho illuso qualcuno con le mie parole è stato perché ho sempre pensato in termini di libertà. Che ho sempre difeso anche nei rapporti personali».
Posso chiederle com’è la sua vita con Inge Feltrinelli?
«Niente di speciale. Viviamo in case diverse. Siamo insieme, ma separati. È bello poter far visita all’altro quando entrambi ne abbiamo voglia. C’è stato un tempo in cui, con la prima moglie, ho condotto una vita molto tradizionale. Ma con l’età crescono le idiosincrasie. Sarebbe terribile per me aprire gli occhi la mattina e vedere sempre la persona che amo accanto».
Forse non l’ama a sufficienza?
«Al contrario. Trovo bellissimo ogni volta che ci incontriamo. È come se si rinnovasse un’intesa profonda, un legame autentico».
Cosa le manca del suo Paese, l’Argentina?
«Mi mancano gli spazi».
Solo quelli?
«Lo spazio è fondamentale. Non in senso topologico, ma per le sensazioni che crea. Lo spazio al quale penso, l’immensità che a volte ritrovavo da bambino, è quello che mi ha fatto pensare in grande, generosamente, senza pregiudizi. È una sensazione bellissima che ancora oggi rivivo con una certa emozione».
Antonio Gnoli, la Repubblica 9/11/2014