Vittorio Sabadin, La Stampa 9/11/2014, 9 novembre 2014
NELLA CITTÀ DELLE 100 MILA SPIE LE VITE ERANO SEMPRE DEGLI ALTRI
Chi è appassionato di storie di spie non può non amare Berlino. La città ha conservato memoria del suo passato, trasformando in musei tutti i luoghi più evocativi della Guerra Fredda. Non ci sono solo quelli più famosi, come il Checkpoint Charlie o il ponte di Glienicke, dove si scambiavano prigionieri e spie catturate. Ora si può visitare anche il Tranenpalast, il «palazzo delle lacrime» alla stazione di Frederichstrasse, nel quale gli abitanti di Berlino Est salutavano parenti e amici che tornavano a Berlino Ovest dopo una visita. C’è il museo della Berlino sotterranea, quella scavata per passare da una parte all’altra del muro, ma anche da inglesi e americani che crearono nel 1953, con l’Operazione Gold, un tunnel lungo 500 metri per intercettare i cavi telefonici dei sovietici.
Nel museo della Stasi, il «palazzo dai mille occhi» della polizia segreta della Germania Est, al 103 di Ruschestrasse, causa ancora sinistre emozioni la visita all’ufficio del capo delle spie, Erich Mielke, un uomo così meticoloso che aveva disegnato il modo nel quale doveva essere disposta ogni mattina nel vassoio la sua colazione. Nelle sale sono esposti gli strumenti di spionaggio che ci avevano fatto ridere quando li avevamo visti nei film di James Bond, ma che esistevano davvero: macchine fotografiche nascoste dietro a un bottone, microfoni celati in una cravatta, penne collegate a una radio trasmittente.
La Stasi aveva 100 mila informatori in ogni caffè, ogni scuola, ogni fabbrica, ogni condominio della Germania Est. Aveva anche circa 6 mila agenti nella Germania Ovest, le «vedette della pace», quasi tutti professionisti molto in gamba. I tedeschi occidentali e gli americani erano invece aiutati da 10mila cittadini di Berlino Est, gente comune reclutata tra le casalinghe, gli studenti e i professori universitari, che agivano perché spinti dall’anticomunismo, da legami familiari o dall’apertura di un conto in banca a Ovest. Dovevano riferire ogni cosa sospetta, soprattutto gli spostamenti dei 400mila soldati dell’Armata rossa stanziati nel Paese.
Prima della costruzione del muro scambiarsi informazioni era facile, perché i contatti tra Est e Ovest erano complessi, ma non impossibili. Dopo, i parenti salutati al Tranenpalast diventarono latori di messaggi verbali da portare a Ovest, si usarono radio nascoste nelle case e nuovi espedienti ingegnosi. I professionisti di Kgb e Cia arrivarono incredibilmente alla stessa soluzione, ordinando ai loro agenti di trasmettere oltre il muro con impulsi di raggi infrarossi, che venivano reciprocamente intercettati.
I libri che raccontano i 40 anni che hanno fatto di Berlino la capitale delle spie sono infatti tutti concordi nel dire che la più grande, capillare attività di intelligence mai condotta non ha prodotto grandi risultati. Tutti sapevano tutto di tutti e la maggiore attività degli uffici consisteva nel distinguere le operazioni di disinformazione dalla verità. I russi vennero ad esempio subito a sapere del tunnel dell’Operazione Gold, e sui cavi intercettati trasmisero solo informazioni fasulle.
David Murphy, ex capo della Cia a Berlino e Sergei Kondraschev, ex capo del Kgb in Germania Est, hanno scritto insieme «Battleground Berlin», il più analitico saggio su quel campo di battaglia. Entrambi affermano che il loro maggiore problema era riuscire a fare capire ai governi l’importanza delle informazioni che raccoglievano. Un agente era stato informato che nel giro di poche ore sarebbe stato costruito un muro di divisione nella città, ma a Bonn nessuno volle crederci, perché la cosa sembrava assurda. Kgb e Stasi si danneggiavano a vicenda a causa della loro rivalità, e Stalin preferiva fidarsi più del suo istinto che dei rapporti dei servizi segreti che si accumulavano polverosi sulle scrivanie, a Mosca come a Washington. Gli agenti della Stasi, ammette Murphy, erano più bravi di quelli occidentali, perché erano capaci di inserirsi nei centri di potere, come fece Gunter Guillaume, uno degli aiutanti del Cancelliere Willy Brandt, smascherato solo nel 1974.
L’ultimo museo che non si può perdere è stato aperto nel 2006, per iniziativa di un privato. È quello della «Ostalgie», la nostalgia della Germania Est e del suo modo di vivere: ci sono bottiglie di cattivo vino ungherese e di Vita-Cola, detersivi e asciugacapelli autarchici, telefoni di bachelite e l’immancabile Trabant, l’auto a due pistoni con carrozzeria di plastica oggi diventata un’icona del collezionismo. C’è anche un salotto con i divani, dove i visitatori possono sedersi a chiacchierare. E per rivivere fino in fondo il clima di quegli anni, oltre la parete, altri visitatori possono indossare una cuffia e ascoltare di nascosto la conversazione.
Vittorio Sabadin, La Stampa 9/11/2014