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 2014  novembre 09 Domenica calendario

SE GERMANIA E EUROPA NON PARLANO PIÙ LA MEDESIMA LINGUA

È straordinario come muta il giudizio sulla caduta del Muro di Berlino venticinque anni dopo. Dell’emozione suscitata da quell’evento e della sua immensa risonanza mondiale rimane soltanto una enfatica reiterazione mediatica.
E le memorie rivisitate dei protagonisti che raccontano la storia come se avessero saputo come sarebbe andata a finire. Invece nessuno lo sapeva. Alle speranze per l’inizio di una nuova età di democrazia e benessere generalizzato in Europa ha fatto seguito la disillusione, non per la riunificazione tedesca in sé, le cui conseguenze immediate sono state presto metabolizzate, ma per gli effetti inattesi che si sono rivelati sulla - relativamente - lunga distanza. La congiuntura politica oggi è radicalmente cambiata. L’Europa è cambiata.
Il nesso tra riunificazione tedesca e trattati costitutivi dell’Unione Europea ha cambiato di segno la situazione. Nel nuovo contesto la Germania è diventata protagonista sollevando sentimenti controversi e ambivalenti: potenza egemone o nazione di riferimento? La Germania invece di europeizzarsi definitivamente tenta di imporre una Europa germanizzata? È sensato ritirare fuori, come fa certa pubblicistica, lo spauracchio del Quarto Reich che venne evocato proprio nel 1989-90 (anche da parte di celebrati studiosi e letterati), salvo poi scomparire tacitamente negli anni successivi?
Dopo la caduta del Muro e la riunificazione in meno di un decennio i tedeschi – contrariamente ai loro timori e lamenti iniziali per presunte minacce alla loro sovranità e soprattutto per l’enorme sacrificio di abbandonare il forte, stabile, rassicurante marco a favore di un incerto euro – hanno intrapreso una doppia integrazione. Integrazione interna con il sostanziale ricupero e rilancio economico delle regioni ex Ddr e integrazione europea, culminante nei trattati che si sono succeduti e perfezionati dopo Maastricht. La prima è riuscita, la seconda no. O quanto meno è riuscita solo in parte, creando nuovi problemi.
Cominciamo dall’integrazione interna. Accanto a una importante storiografia sulla «rivoluzione democratica», sui movimenti per i diritti, a una analisi del capillare penetrante sistema spionistico-repressivo (Stasi), c’è stata una sterminata pubblicistica sulla ex Ddr, quasi una saga sulla Ostalgie, sulle diatribe tra Wessis e Ossis, ma anche una letteratura giovane e una cinematografia originale. È un modo tutto tedesco di continuare la Bewältigung dell’«altro passato che non passa».
Ma ci sono altri segnali ancora più significativi. Chi poteva immaginare nel 1989 che avremmo visto oggi ai vertici dello Stato tedesco due personalità formatesi nella Ddr? Mi riferisco alla cancelliera Angela Merkel e al presidente della Repubblica Joachim Gauck. Due personalità diversissime eppur rappresentative. Da un lato una singolare figura di donna, vissuta nel sistema Ddr senza intima adesione ma anche senza aperta opposizione, concentrata sulla propria attività professionale tecnica. Poi nel 1989-90 ha un sorprendente risveglio politico che, con un sicuro istinto nello scegliere le nuove parti politiche, le fa compiere una fulminante carriera nella Cdu mostrando competenza e straordinario talento tattico. Oggi è la cancelliera più popolare in Germania e temuta dai governi, non solo europei. Completamente diverso è il passato del presidente Gauck: pastore protestante, attivista dei diritti civili, tenace combattente per la libertà, responsabile della Commissione per il controllo dello scioglimento della Stasi e della documentazione spionistica lasciata. Merkel e Gauck sono due facce diverse dell’esperienza Ddr: quanto questa loro esperienza si riflette nel ruolo che svolgono ora ai vertici della nazione tedesca?
Ma qui vorrei ricordare anche l’oscura figura di un ufficiale russo dei servizi segreti sovietici che sino al 1991 operava nella Germania orientale, a Dresda, presso la Stasi e ora è il potente e indiscusso presidente della Russia e temibile antagonista dell’Occidente, Vladimir Putin. Dal cuore della Germania Putin ha colto in prima persona il nesso tra la caduta del Muro e la politica fallimentare di Mikhail Gorbaciov, preludio al tracollo dell’intero sistema sovietico. Oggi in troppe ricostruzioni storiografiche della riunificazione tedesca e delle sue immediate conseguenze si sottovaluta il ruolo (spesso inconsapevole) di Gorbaciov. Ma l’allora oscuro colonnello Putin ha capito meglio di altri il senso di quello che stava accadendo e ne ha tratto le conseguenze oggi nella sua politica di confronto con l’Occidente. Con il dopo-Muro infatti l’Occidente ha goduto di un’espansione verso l’Oriente europeo (con l’estensione dell’Ue e della Nato) che fatalmente ha urtato contro il suo limite/confine ultimo. Questo spiega il comportamento di Putin nella crisi russo-ucraina. Ma non è paradossale che due tra i politici più importanti in Europa e interlocutori della più recente grave crisi sul continente europeo, Angela Merkel e Vladimir Putin, abbiano potuto osservare da una posizione defilata eppure interna gli accadimenti del 1989-90?
Torniamo alla Germania degli Anni Novanta che ha affrontato passaggi molto impegnativi, dalla ricostruzione economica delle regioni orientali all’assestamento nel nuovo contesto internazionale. Soprattutto ha investito con lungimiranza sulla costruzione dell’Unione Europea, dai trattati di Maastricht alle altre iniziative comuni, tra cui decisiva è stata l’introduzione della moneta comune. Quello che i competitori della Germania consideravano un modo legittimo ed efficace di tenere sotto controllo la virtuale potenza tedesca si è trasformato in strumento altrettanto legittimo ed efficace per una nuova fase espansiva economica della Germania.
È una fase in via di chiusura? La crisi che dal 2008 attanaglia ancora l’Europa ha imposto alla Germania la prova più impegnativa. Si trova sotto la pressione di partner europei perché vengano rivisitate alcune regole e accordi sorti proprio da quel complesso di eventi (sintetizzati nella parola «Maastricht») che sino a ieri si pensava fosse l’asse saldo e portante attorno al quale costruire e rafforzare l’identità politica, economica, culturale dell’Europa e della Germania stessa. Ma l’impresa si rivela difficile e soprattutto divisiva.
L’euro, che doveva essere un «bene comune», si è trasformato in strumento di sperequazione che rischia di essere distruttivo non solo per i popoli con economie deboli e inadempienti ma per gli stessi tedeschi. L’introduzione dell’euro avrebbe dovuto anticipare l’unione politica avendo come stella polare la federazione europea come superamento delle dimensioni nazionali verso una sovranità condivisa. Invece l’andamento della moneta ha esaltato le sovranità nazionali, alterando il concetto stesso di sovranità.
«Se fallisce l’euro, fallisce l’Europa» è stato il Leitmotiv della cancelliera Merkel nei momenti critici degli scorsi anni – con il sottinteso che l’euro, per non fallire, deve essere governato secondo i criteri definiti da Berlino. In questo senso la Germania sta mettendo in gioco tutta la sua influenza affinché gli interventi correttivi e le «riforme» dichiarate necessarie non mettano a repentaglio quella che essa ritiene l’irrinunciabile struttura economico-finanziaria dell’Unione.
Il punto è che all’interno dell’apparato istituzionale complessivo che costituisce l’Unione Europea non sono all’ordine del giorno piani alternativi alla linea di Berlino, che di fatto è accolta anche dai responsabili dell’Unione nonostante reticenze e verbosità. Il problema quindi è come governare l’interdipendenza tra una Germania apparentemente solida, sicura di sé e in grado di condizionare la direzione di marcia dell’Ue e una parte consistente di membri della stessa Unione in forte sofferenza.
È un errore storico, logico e psicologico mettere sotto accusa la forza di condizionamento della Germania in Europa come espressione di una presunta volontà egemonica del suo gruppo dirigente. Certo: in Europa non si può decidere nulla senza la Germania, tanto meno contro di essa. Questa affermazione suona antipatica, ma contiene implicitamente la sostanza stessa della democrazia nell’Unione: discutere, dibattere, convincere, contestare, al limite minacciare, persino ricattare, senza arrivare alla rottura. È lo stile incarnato con successo dalla cancelliera Angela Merkel.
L’espressione «egemonia», del resto, usata nella pubblicistica internazionale è accompagnata frequentemente da qualificativi che la limitano: egemonia riluttante, controvoglia, o anche incapace/inadeguata. Quando invece è usata in senso positivo, diventa egemonia pedagogica, pragmatica, quasi etica. Una lettura alternativa è quella che parla della Germania come «nazione di orientamento» o di riferimento.
La Germania non è responsabile della crisi che ci attanaglia. Molti commentatori tuttavia affermano che essa è responsabile di una mancata uscita dalla crisi stessa, certamente di una uscita rapida e più efficace più di quella che viene ora cautamente annunciata. Soprattutto è opinione condivisa da molti analisti che la Germania ha tratto vantaggi dalla crisi, anzi proprio dai «difetti di costruzione» dell’Unione per quanto riguarda la moneta.
Ma proprio su questo punto si delinea una frattura tra il governo tedesco e gli altri governi europei. I tedeschi hanno la sgradevole sensazione che i partner europei chiedano qualcosa che contraddice non solo la lettura ma lo spirito stesso dei Trattati dell’Unione consensualmente sottoscritti, mettendo in seria difficoltà la Germania. Invece per chi vuol modificare alcune regole si tratta di correggere quel «deficit di democrazia» dell’Ue di cui si parla da tempo e che genera in molti la sensazione di una impropria «egemonia» tedesca. Come si vede, le differenze di vedute non sono di poco peso. Spesso europei e tedeschi sembrano non parlare più lo stesso linguaggio. Anzi peggio, in qualche caso il medesimo linguaggio nasconde visioni molto diverse. La perfetta integrazione sognata da tutti gli europei, tedeschi e non, sembra ora rovesciarsi minacciosamente in disintegrazione.
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Gian Enrico Rusconi, La Stampa 9/11/2014