Stefano Salis, Domenicale – Il Sole 24 Ore 9/11/2014, 9 novembre 2014
L’IMPORTANZA DI ESSERE «SNOB»
«Un’amarena dal gusto rusticàn / bevi, sirena, che offre il capitàn». Questi versi irrompono nel bel mezzo di una delle canzoni del nuovo album di Paolo Conte: la canzone si intitola Maracas, il disco Snob. Rileggiamoli con calma. Sì, possiamo anche sorridere: è proprio la "tipica" espressione che si può trovare in una canzone di Paolo Conte, forse è esattamente quello che da Paolo Conte ci si attende e bastano appunto anche due soli versi per ritrovare, tutto, il suo universo: profumo d’esotismo, ricercatezza delle parole, un altrove immaginato da provincialotti, le figure dei protagonisti in un rapido bozzetto esistenziale, il sapore di qualcosa che magari è passato ma non è tuttavia immobile, anzi, l’intuizione di una storia possibile che sta per iniziare; ma c’è, anche, la tenacia del recupero di quel passato, il sapere che è grazie a questi artifici che «la classe, lo stile, il sorriso, l’onor» – elenco che viene poco dopo nella canzone – emergono, sono riconoscibili e danno traccia visibile a chi è pronto a decodificare la mappa musicale approntata per l’ascoltatore. Paolo Conte è un giocoliere della parola scritta e detta (ancora poco avanti, stessa canzone, versi con eccezionali rime in -age riferite a una città di Cuba, «mezza barocca e tutto un collage / un poco Alhambra e tanto garage, / maracas... clesidras... del ritmo mirage...»), che della crittografia ha fatto un’arte, un tessitore di armonie e tappeti sonori che pochi sanno intrecciare, un musicista dal profilo unico, dotato di un’ironia schiva e di una sapienza poetica inconfondibili. Inconfondibile: infatti – e questo è quello che cerco di dire fin dall’inizio – Paolo Conte, insomma qui e là... «paoloconteggia». E, però, lui, può ben permetterselo.
Ho seguito Conte in decine di esibizioni dal vivo, dalle afose piazze aperte della Sardegna alle sontuose arene veronesi, dalle barocche bomboniere da concerto, che so, cremonesi, ai lussi un po’ délabré e molto art-deco di Parigi; ho sentito per migliaia di ore le sue canzoni, sono stato immerso così tanto tempo nelle "atmosfere" contiane e le ho così tanto amate e le amo tuttora, da poter godere, credo, nella giusta misura anche della geniale imitazione e parodia che ne fa Stefano Bollani (nell’irresistibile Copacabana; recuperatela su youtube) e da non abbattermi troppo nelle evidenti cadute di ispirazione di dischi – in particolare Elegia e Psiche – non all’altezza, a mio parere, della sua riconosciuta qualità. Ed è vero: ascoltare Paolo Conte, oggi, può essere, in qualche modo, persino scontato, se non faticoso. Per quel fenomeno che Borges descrive alla perfezione nel racconto su Pierre Menard, «autore del Chisciotte»: Conte è talmente unico – e consapevole del proprio stile – che può addirittura sembrare auto-parodistico, come nei versi che ho citato all’inizio. Ma c’è un motivo: Conte si è impadronito a tal punto di un intero repertorio emozionale (dico dal punto di vista della musica) e semantico (dal punto di vista linguistico) da sottrarlo praticamente a qualunque altro collega e, persino, spingendo all’eccesso il ragionamento, anche a sé stesso. Faccio un esempio: se in una canzone italiana sento, o metto, una parola come, che so, «tamarindo», «esitazione», «azzardo» o un sintagma come «in un sorpreso stupore» o «dimenticavo di dire che la mazurka...» o, appunto, «un’amarena dal gusto rusticàn» sono irrimediabilmente in una canzone di Paolo Conte. Penso alla pena di un collega che deve ridursi a rime scolastiche per non naufragare sul «tentativo di imitazione» ( (e il nostro (ne vanta di innumerevoli, come la sua rivista preferita) ma anche alla difficoltà che Conte (si è (crea to ( da s é ( medesimo (: non ripetersi, ma non cambiare ; ( essere s é ( stesso ma non sempre nello stesso modo.
Inconfondibile e inimitabile, dunque, (Conte, rischia davvero di dover strappare un sorriso di tregua (per sé e l’ascoltatore) (a ogni accordo di una nuova canzone. Non solo: i suoi ammiratori, poi, ci mettono del loro, (fa nno ( confronti (l’ho fatto anch’io, qualche riga fa) (. Il Paolo Conte di oggi non è – ( non può essere –, tolti i mugolii sottovoce, le labbra che fanno il verso all’aeroplano e l’uso sapiente del kazoo, tutte specialità della casa, (quello dei gelati al limon e delle cravatte sbagliate sotto le stelle del jazz (. Eppure è Conte ; ( e in questo Snob è pure un Conte doc: (siamo di front e ( a uno smagliante 77enne, tornato ai livelli di ispirazione, di qualità, sonora e poetica (va (ripetuta, nel suo caso, l’endiadi) che forse era un po’ in calo (, almeno in disco, dai tempi, appunto, di Aguaplano, uno dei vertici altissimi (della sua carriera (nei concerti è diverso: eccellente musicista, ha rinverdito i fasti di sue canzoni, resuscitandole a nuova vita , ( diverse volte , (in questi anni (). C’è del gigioneggiamento in Snob (, di sicuro, o forse è solo gran "mestiere", altissimo (artigianato musicale, esperienza da vendere, ( che consente sbagli da professionisti e certezze da giganti della musica, non solo italiana, visto l’imperterrito successo che gli viene tributato nei teatri di mezza Europa.
Ma questo Snob è un disco che infila una collana di canzoni-perla che non sfigura davanti alle più celebri (detto di passata: uno come Conte ha al suo attivo una quantità di capolavori imbarazzante che a molti inibirebbe la prosecuzione; e chissà quanti avrebbero tirato su una carriera intera solo per avere scritto, per dire, Via con me; lui ci ha aggiunto Impermeabili, Mocambi, Milonghe, Diavoli Rossi e rêverie varie...). Giocando, anzi, con lo stile degli anni d’oro: un brano come Tutti a casa, di struggente bellezza, potrebbe essere benissimo degli anni 70; Ballerina echeggia davvero accordi del suo successo più noto, cibum-cibum-bum. Ma c’è ancora qualcosa di più, che forse è la cosa più importante: Snob "costringe" a un esercizio di ascolto. Bisogna sentire e ri-sentire questo disco, prima di coglierne tutti i baluginii che manda. I toni di un pianoforte più scuro e meditato di altre volte, le allegrie perplesse di alcuni brani, i tocchi elettrici e vellutati che sottolineano ritmi da scoprire pian piano. Conte sembra voler ribadire che – fatta la tara degli inevitabili esotismi, cliché, afriche in giardino, malinconie argentine e caffè bevuti all’impronta – è solo l’ascolto slow ad avere valore. È un disco contro il tritacarne della istantaneità contemporanea, che non si abitua alla vacua luminescenza di un tweet, che non si rassegna alla superficialità (che pure è un valore, quando sia debitamente considerato) di chi richiede prodotti cotti e mangiati, ivi comprese le recensioni sbrigative all’insegna del «sì, già visto, già sentito, archiviato, passiamo ad altro». No. Bisogna, qui, dare tempo al tempo e tempo alla musica: essere snob non significa solo rifiutare le mode, significa essere in grado di dettarle; significa essere capaci di giocare su tempi lunghi e orizzonti ampi, significa non allinearsi con quel che passa il convento culturale, significa lasciar passare la mediocrità, significa puntare al bello e all’effetto che fa. Questo disco, alla fine, è una continuazione di ciò che Paolo Conte ha insegnato in 40 anni di onorata carriera: inutile rincorrere l’effimero per stare ben piantati sui propri piedi, percorrere, magari in splendida solitudine, la strada che ci si è prefissi, tracciandola passo dopo passo, costruendo mondi e geografie immaginarie che sono sì esclusive eppure capaci di arrivare a tutti, rifiutarsi di credere nelle epoche o nelle date, non considerare nulla troppo esoterico per non trarne ispirazione e restituirlo sotto forma di sogno realizzato. E Conte è esattamente questo: non si può essere diversi da quel che si è, a costo di sfiorare la maniera. Ma c’è maniera solo se c’è stata (e tanta!) sostanza. L’arcobaleno di colori che ha disegnato Conte, oggi, è arricchito di una sfumatura e noi siamo fortunati ad aver potuto contemplare il suo quadro, nei toni accesi e nelle pennellate grigie. Aggiungiamo perciò volentieri un’amarena rusticana alla nostra acqua al tamarindo o all’aranciata che beviamo, da anni, alla salute del Maestro di Asti mentre, controluce, tutto il tempo se ne va. Dopo tutto, il jazz, la musica, la sua musica, Monsieur Paolo Conte, è sempre stato «un sogno fortissimo».
Stefano Salis, Domenicale – Il Sole 24 Ore 9/11/2014