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 2014  novembre 09 Domenica calendario

CECHOV RISATE A DENTI STRETTI

Piotr Sharoff, grande regista russo che, giovanissimo, era stato prima allievo poi assistente di Stanislavskij e di Nemirovic-Dancenko al Teatro d’Arte, più volte ebbe modo di raccontarmi come Checov, al termine delle prove generali dei suoi spettacoli, spesso non si mostrasse pienamente soddisfatto delle regie di Stanislavskij. A dirla così, sembra addirittura una bestemmia. Ma come?! La consacrata e celebrata coppia autore-regista, tramandata come esempio più unico che raro di collaborazione assoluta tra creatore e interprete, aveva delle crepe segrete? Mi diceva Sharoff che a queste prove Checov assisteva standosene seduto da solo in platea, mentre gli altri componenti della compagnia, che non partecipavano allo spettacolo, venivano relegati nel loggione. E da lì gli occhi di tutti puntavano non sul palcoscenico, ma sul solitario spettatore in platea che spesso si agitava sulla poltrona, sbuffava infastidito o faceva ripetuti cenni d’assenso con la testa o muoveva le mani in un silenzioso applauso.
E quando Stanislavskij, senza nemmeno levarsi l’abito di scena, si precipitava in sala per sentire il parere di Cechov, questi prima gli diceva i motivi di soddisfazione, che erano tanti, e poi i motivi di insoddisfazione, che erano sempre due e sempre gli stessi.
Il primo era per l’eccesso di realismo nella messinscena, per esempio quando seppe che le foglie che cadevano dagli alberi del Giardino dei ciliegi erano vere, andò letteralmente in bestia.
Una spia del suo ideale scenico può intravvedersi nell’entusiasmo che invece dimostrò per la soluzione trovata per rendere una didascalia fondamentale che si trova sempre nel Giardino. La didascalia dice suppergiù: “si sente il rumore della corda del pozzo che si spezza”. Ho detto che si tratta di una didascalia fondamentale perché da quel momento in poi la commedia svolta decisamente verso la sua conclusione. Ma attenzione: la scena rappresenta il salone della villa, oltre la vetrata del quale si vede il giardino col pozzo. Quindi quel rumore, realisticamente, non può essere udito dall’interno della villa. Di fronte a questo problema, dopo una serie di vani tentativi, Stanislavskij si arrese.
Fu Nemirovic-Dancenko a trovare la soluzione che tanto piacque a Cechov e che non aveva niente a che fare col realismo. Nemirovic-Dancenko fece ben tirare da un muro all’altro del retropalco otto corde di pianoforte, su quattro delle quali attaccò dei campanellini cinesi. Poi, al momento dovuto, le quattro corde coi campanellini furono fatte vibrare con uno strappo secco e deciso di mano mentre le altre quattro venivano contemporaneamente suonate con un arco da contrabbasso. Ne venne fuori un suono basso, cupo, percorso da un tintinnio, un suono profondo e misterioso.
Il secondo, e certo più grave, motivo di dissenso, riguardava l’interpretazione registica del testo che si può semplificare così: Cechov considerava come “commedie” le sue opere teatrali, mentre Stanislavskij le metteva in scena come fossero “drammi”. Cechov rimproverava al regista di costringere lo spettatore all’impossibilità di ridere o di sorridere in qualche momento della rappresentazione.
Confesso che, quando sentivo Sharoff ripetere che Cechov pensava che nelle sue maggiori opere teatrali ci fosse un qualcosa di divertente, rimanevo assai perplesso. Assistendo alle belle messinscene cechoviane di Visconti, Costa e Strehler non avevo mai sorriso, anzi. E, da regista, anche volendolo cercare col lumicino, non avrei saputo individuare uno spunto che muovesse al sorriso.
Che Cechov fosse capace di straordinari, irresistibili exploits comici era pacifico, sugli otto atti unici che scrisse prima delle grandi opere, la maggioranza rappresenta altissimi esempi di comicità pura e di tragicomicità.
Ma non mi pareva che l’autore avesse, come dire, travasato nelle opere maggiori l’ironia, se non la comicità, che anima i suoi lavori in un atto.
Così un giorno chiesi a Sharoff da che parte stesse lui: erano commedie o drammi? Non ebbe un attimo d’esitazione: “Sono commedie”. E lo dimostrò splendidamente quando, ultraottantenne, mise in scena al romano Teatro della Cometa Zio Vanja. I maggiori critici di allora, Radice, Prosperi, De Feo, scrissero di essersi trovati di fronte a un “nuovo” Cechov. In realtà non c’era niente di nuovo se non il fatto che la lettura registica era in chiave di commedia.
Momenti di alta tensione emotiva a causa di un dettaglio come un’intonazione, un gesto, una pausa, si scioglievano in una risata liberatoria.
Ma, badate bene che tutto era già nel testo, non si trattava di aggiunte esterne, registiche. Un fiume carsico che bastava poco per farlo tornare a scorrere all’aperto.
Da allora mi sono sempre domandato dove fosse situata la fonte originaria di quel fiume.
Non certo nella sua stessa narrativa conosciuta, costituita da racconti di altissimo, eccezionale livello stilistico e di straordinaria modernità che però nella quasi totalità dei casi sono improntati a un più o meno cupo pessimismo.
La risposta a quella mia vecchia e irrisolta domanda credo d’averla finalmente ricevuta.
Si trova tra le pagine di questa raccolta di scritti cechoviani, finora inedita in Italia, e che si intitola Umoresche.
Che cosa siano queste umoresche lo spiega molto bene la traduttrice, la quale racconta anche le fatiche sostenute dagli studiosi russi per portare a termine la raccolta, trattandosi di composizioni brevi o brevissime (addirittura alcune sono didascalie a disegni del fratello o di altri) apparse su giornali umoristici e firmati dal giovane studente in medicina con diversi pseudonimi.
Lo trovo un libro di divertentissima lettura e nello stesso tempo un fondamentale contributo per una migliore comprensione della complessità creativa di Cechov.
Ci sono qua dentro soluzioni narrative di fulminea sinteticità che cortocircuitano la risata, come per esempio, Agenzia di annunci di Antosa C., o scritti decisamente comici come In stile americano , ma quello che più mi ha colpito, proprio per la domanda che mi portavo appresso, è la rivelazione della tecnica che l’autore mette in atto per ottenere un effetto umoristico.
Si tratta di inserire, all’interno di una certa situazione, un dettaglio minimo, uno scarto, uno sfaglio che mandi all’aria la situazione stessa virandola al ridicolo.
Porto un esempio, grossolano ma efficace, per chiarire quanto ho scritto. Nel componimento intitolato Del più e del meno ( che è possibile leggere qui a fianco, ndr) una coppietta è seduta su una panchina del parco. Il giovane sta dichiarando il suo amore alla ragazza che arrossisce ma non gli risponde. Il che porta il giovane a espressioni sopra le righe come “o una vita con voi o il non essere assoluto” oppure “rispondete, altrimenti muoio!”.
E quando la ragazza finalmente si decide a dirgli che anche lei l’ama e apre la rosea boccuccia, le scappa un improvviso e inatteso “ah!” di disgusto. Che ha visto? Lascio la parola a Cechov: “Sui nivei colletti del ragazzo, inseguendosi, corrono due enormi cimici”… Questa è la chiave dell’umorismo cechoviano.
E allora si capisce che il sorriso che Cechov voleva venisse fuori nelle sue opere maggiori non poteva essere provocato né da una battuta spiritosa né da una situazione comica che del resto sarebbero state introvabili, ma appunto da un dettaglio, un particolare non consonante con l’insieme e con la situazione. E Sharoff, col suo indimenticabile Zio Vanja, quelle note dissonanti le trovò e le mise in luce, dimostrando praticamente che tra Stanislavskij e Cechov aveva ragione l’autore.
Andrea Camilleri, la Repubblica 9/11/2014