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 2014  novembre 09 Domenica calendario

DIETRO LE QUINTE DEL WATERG ATE

Quattro decenni fa Ben Bradlee ci illustrò la teoria generale che applicava tanto ai giornali quanto alla vita: “Testa bassa, muovi il culo e poi dritti a passo deciso verso il futuro”.
Capiva il passato, ne coglieva l’importanza ma se n’era anche completamente liberato. Il passato era la Storia da cui trarre insegnamenti, ma non le permetteva di agire su di lui come una zavorra emotiva, né si lasciava scoraggiare dai suoi alti e bassi.
Nel suo caso l’analogia con la gerarchia militare, che tanto spesso suona come un cliché, calza a pennello: era come un grande generale che mantiene la calma durante la battaglia; ed era amato e ammirato dai suoi uomini, verso i quali aveva un atteggiamento protettivo ma anche, al momento di mandarli in missione, assolutamente determinato.
Era un tipo originale che s’era inventato da sé, diverso da qualsiasi altra persona della redazione: diverso per temperamento, per atteggiamento e persino per presenza fisica e linguaggio (parlava un inglese aulico-clericale misto a un gergo da marinaio navigato). Ha trasformato non solo il Washington Post ma anche la natura e le priorità stesse del giornalismo.
Non era il tipo da avere rimpianti — sembrava non averne mai avuti. Non era mai cinico, ma persistentemente scettico. E il tema che ha segnato la sua vita — in un modo singolarmente privo di arroganza — è stato quello della totale riverenza nei confronti della verità.
L’autorevolezza di Bradlee la si notava ad esempio nel modo che aveva di affrontare gli errori. Una cosa che per un giornalista rappresenta forse la responsabilità più scomoda: è una vera prova di forza, di competenza e di dedizione alla verità.
Insieme a lui abbiamo vissuto in trincea la vicenda del Watergate.
Sono trascorsi quasi quarantadue anni da quando commettemmo un errore epico: scrivemmo in un articolo di prima pagina che, da una testimonianza segreta resa di fronte al Gran Giurì, era emerso che Bob Haldeman, capo di gabinetto della Casa Bianca di Nixon, aveva tenuto sotto controllo un fondo segreto impiegato poi per finanziare l’irruzione all’interno del Watergate e altre attività illegali. La notizia, a quattro mesi dal giorno in cui la Casa Bianca aveva definito l’affaire “un furto di terz’ordine”, rappresentava un enorme passo avanti nel collegare allo Studio Ovale i reati commessi al Watergate. Peccato che quella testimonianza non ci fosse mai stata — anche se in seguito scoprimmo di aver avuto ragione: Haldeman aveva davvero avuto controllo del fondo e di molto altro ancora.
«Che è successo?», ci domandò Bradlee. La Casa Bianca e i sostenitori del presidente stavano rispondendo con raffiche di denunce e smentite che avevano tutta l’aria di essere credibili. Quanto a noi non eravamo neppure sicuri di quale fosse stato il nostro errore, e quel giorno di ottobre del 1972 su quel terreno così traballante ci ritrovammo ad agitarci goffamente in uno stato di evidente difficoltà. «Non sapete dove vi trovate», disse Bradlee. «Non conoscete con certezza i fatti. Fermatevi un momento. E vediamo cosa salta fuori». Girò sulla sedia, infilò un foglio nella sua vecchia macchina da scrivere e dopo qualche falsa partenza la sua dichiarazione fu pronta: «Confermiamo la nostra versione dei fatti».
Non c’era rancore o rabbia nei nostri confronti, anche se in seguito avrebbe detto che quello era stato uno dei momenti più bui durante i ventitré anni in cui aveva diretto il Post.
Avevamo compiuto un errore stupido, da dilettanti, e la posta in gioco era enorme. La nostra fonte principale, il tesoriere della campagna di Nixon, era certo che Haldeman avesse controllato il fondo, e aveva effettivamente reso testimonianza di fronte al Gran Giurì. Ma non gli era stata fatta alcuna domanda riguardo ad Haldeman, mentre noi avevamo dato per scontato di sì — contravvenendo in questo modo a una delle regole cardinali di Bradlee: «Mai dare nulla per scontato».
Avere il suo sostegno in un momento così difficile fu per noi più che un sollievo e un voto di fiducia. Sapevamo che pensava stessimo seguendo la pista giusta, e che eravamo inciampati — anche se con esiti quasi fatali. Lui era come un’ancora di salvezza che offriva un senso di calma rassicurazione (sua moglie, Sally Quinn, ha detto di non aver mai visto Ben depresso, nemmeno per un attimo).
Per lui era tutta una questione di fatti. Quali erano i fatti? Ed erano stati verificati? Chi affermava qualcosa di diverso?
Non potevi dire di essere un reporter se Bradlee non ti aveva mai sottoposto a un interrogatorio. A un certo punto, durante quella straziante vicenda, gli riassumemmo ciò che ci era stato detto da una delle nostre fonti. «No», insistette Ben, «voglio sentire esattamente cosa gli avete domandato e che cosa vi ha risposto». Qualche giorno più tardi, quando finalmente avevamo chiarito il nostro errore riguardo ad Haldeman e raccolto ulteriori prove sul fatto che avesse davvero tenuto sotto controllo un fondo segreto, Ben era già passato oltre. Ci chiese: «Cosa avete per domani?». In altre parole: avanti tutta, testa bassa e muovi il culo.
Quando il regista Alan Pakula era alla ricerca di un attore cui affidare il ruolo di Bradlee nella versione cinematografica di Tutti gli uomini del presidente , Jason Robards Jr. gli sembrò una scelta ovvia. In seguito Pakula ci raccontò che all’inizio Robards era parso entusiasta e si era portato il copione a casa, ma che dopo averlo letto era tornato da lui perplesso.
«Non posso interpretare Ben Bradlee» gli disse.
«E perché?» gli domandò Pakula.
«Non fa altro che andare in giro a chiedere ai reporter: “Dove c... o sta la notizia?”».
«Ma è proprio questo che fa il direttore del Washington Post », spiegò Pakula. «È il suo lavoro. E quanto al tuo non devi fare altro che trovare quindici modi diversi di dire “Dove c... osta la notizia?”».
«Aaah!» rispose Robards, che accettò la parte e interpretò quel ruolo come se avesse vissuto tutta la vita nei panni di Bradlee, tanto da vincere l’Oscar come miglior attore non protagonista.
Al sentire questo racconto Ben era scoppiato in una fragorosa risata. È vero, disse, lui aveva il compito di essere il motivatore supremo. Bradlee possedeva una straordinaria irrequietezza, caratteristica già notata quando era ancora giovane. Alla fine degli anni Trenta, durate il suo primo anno ad Harvard, era stato scelto per prendere parte al famoso Grant Study, che prevedeva che 268 individui (da lui definiti «porcellini d’india», ovvero cavie, nella sua autobiografia) venissero valutati periodicamente e per tutta la vita da assistenti sociali e psicologi. Uno dei primi ricercatori prese nota della sua «irrequietezza», aggiungendo che «ci sono state volte in cui ha bevuto troppo alcol ma questo non lo ha soddisfatto». Come dire che nulla lo soddisfaceva del tutto. Le sue aspettative, nei confronti degli altri e di se stesso, erano sempre maggiori. Dal giorno in cui aveva assunto l’incarico di direttore del giornale negli anni Sessanta, aveva preso ad aggirarsi furtivamente per la redazione, al quinto piano, in cerca di storie, di qualche notizia interessante o dell’ultimo pettegolezzo. La presenza fisica e la vitalità di Bradlee — che da sole sarebbero bastate a conferirgli autorevolezza — erano riconosciute e assiduamente imitate (sin troppi accoliti iniziarono a indossare con un effetto orrendo le camicie Turnbull & Asser, al punto da rendere talvolta l’intera redazione simile a un negozio di Savile Row). Spesso, quando passava a trovare i reporter, con il petto ben in fuori e un’espressione di curiosità mista a piacere impressa sul volto, tutti smettevano di lavorare, e da un centinaio o più di scrivanie gli occhi dell’intera redazione rimanevano incollati su di lui, pronti a cogliere qualsiasi segnale. Se due o tre dei suoi reporter stavano facendo capannello, Bradlee si avvicinava a loro. Forse avevano per le mani qualcosa, e lui voleva sapere di cosa si trattava. Siate aggressivi, ripeteva. «Mi piacciono i reporter che non mollano », ci disse in un’intervista registrata nel 1973 per il libro che stavamo scrivendo sul Watergate — Tutti gli uomini del presidente. «È una cosa che mi fa sentire enormemente a mio agio, dal momento che sono a mia volta un direttore che non molla mai».
Non dirigeva il giornale per i suoi amici o per le persone di potere.
Mentre lavoravamo a un articolo sul ruolo avuto da Henry Kissinger, consigliere per la Sicurezza nazionale di Nixon, nella scelta di diciassette tra assistenti della Casa Bianca e reporter che avrebbero dovuto essere intercettati per individuare la fonte delle fughe di notizie, informammo Kissinger del fatto che i suoi commenti sarebbero stati pubblicati sul giornale. Lui esplose. «Cosa?!». Evidentemente con gli altri reporter aveva stabilito regole diverse. Di lì a poco fummo convocati nell’ufficio di Howard Simons, il vice di Bradlee. Il direttore non era al giornale, chiamò da fuori, e ostentando un forte accento tedesco per imitare la voce di Kissinger ci disse: «Ho appena ricevuto una telefonata da Henry. È incavolato nero. Decidete voi cosa fare. Io mi limito a riferirvi da buon reporter ciò che mi ha detto. Vi leggo le sue frasi. Se pensiate che possano esservi di aiuto servitevene pure». Il dibattito proseguì, l’articolo fu rimandato e noi fummo battuti sul tempo da Seymour Hersh del New York Times — non era la prima volta e non sarebbe stata nemmeno l’ultima. Ma le affermazioni che Kissinger ci aveva rilasciato apparvero di lì a breve sul Post e furono poi riprese in diversi libri.
Bradlee trovava esaltante il fatto che alcuni fondamentali articoli pubblicati dal Times sul caso Watergate portassero la firma di Hersh. «Non eravamo più gli unici a seguire quella storia», ci disse nell’intervista del ‘73. Pur di proteggere i suoi giornalisti era disposto a ricorrere anche a stratagemmi teatrali. Quando, nell’ambito di una causa civile, il comitato per la rielezione di Nixon ci chiese di consegnare i nostri appunti sul caso Watergate, insieme a quelli di altri colleghi del Post, Bradlee e l’editrice Katharine Graham decisero di dichiarare che fosse lei — e non i reporter — la detentrice legale di tutti i materiali, e che qualsiasi iniziativa del tribunale avrebbe dovuto essere rivolta contro di lei. «Se il giudice vuole spedire qualcuno in prigione dovrà prendersela con la signora Graham», ci disse Ben con palpabile soddisfazione. «E lei, Dio mio, dice che ci andrà! Il giudice l’avrà sulla coscienza. Vi immaginate le foto della sua limousine che si ferma davanti al carcere femminile, con lei che scende dall’auto e va in prigione per difendere il Primo Emendamento? La pubblicherebbero tutti i giornali del mondo».
Fu solo quando intervistammo Bradlee in quell’estate del 1973, nel mezzo delle udienze in Senato sul caso Watergate, trasmesse in diretta tv in tutta la nazione, che comprendemmo tutta la portata e la natura delle pressioni a cui lui e la signora Graham erano stati sottoposti, e da cui ci aveva tenuto fuori. Non aveva nemmeno detto a Howard Simons degli insistenti tentativi con cui si era cercato di obbligare il Post ad ammorbidire la linea sul caso Watergate. «Stavo iniziando a capire quanto il mio stesso culo fosse a rischio», ci disse.
A chiamarlo erano anche i direttori di altri quotidiani — colleghi di cui aveva una grande stima — che gli chiedevano se per caso il Post non fosse «impazzito». Anche Katharine Graham veniva bombardata: dal governo, in particolare da Kissinger; dai suoi amici più stretti, tra cui gli influenti editorialisti Joseph Alsop e James Reston; e dai membri del suo consiglio di amministrazione. «A un certo punto Katharine mi disse che avremmo dovuto fare due chiacchiere perché la situazione era molto, molto seria», ci raccontò Bradlee. «Le stavano rendendo la vita impossibile; amici a lei vicini come Alsop e Reston le dicevano che il Post stava davvero rischiando grosso: il suo giornale stava praticamente aggredendo il governo, non si chiedeva come mai nessun altro stesse facendo altrettanto? Lei veniva da me e mi raccontava tutto. E io la rassicuravo, punto per punto» che i nostri articoli avevano un fondamento solido. «In un paio di occasioni ha avuto paura» disse Bradlee. «Era andata a Wall Street e alcuni amici che lavoravano lì le avevano detto che gli uomini di Nixon avevano preso di mira il Post e che la stavano pedinando e che intercettavano i suoi telefoni — e che pedinavano anche me e che intercettavano il mio telefono e che non scherzavano. E lei venne a riferirmelo ». Tra le altre cose, aggiunse Ben, era preoccupata che gli uomini di Nixon potessero diffondere informazioni — vere o false — riguardo alla sua vita privata. (Durante le indagini sul Watergate non è emersa alcuna prova riguardo al fatto che Graham, Bradlee o altri del Post fossero stati intercettati o pedinati).
Una svolta si ebbe con un articolo pubblicato nel settembre del 1972, tre mesi dopo l’irruzione nel complesso del Watergate, ci disse Bradlee, quando nel corso di una conversazione telefonica John N. Mitchell, ex direttore della campagna elettorale di Nixon e suo ministro della giustizia, ci rispose che, se avessimo pubblicato un qualunque articolo che lo avesse implicato, «Katie Graham si troverà con le tette strizzate in una gigantesca morsa». Mitchell aggiunse che in un futuro non lontano avrebbero scritto loro «un articolo su tutti voi», e riagganciò il telefono.
«Le persone mi dicono “sai che se avessi avuto torto avresti dovuto dimetterti?”, ed è proprio così», ci disse Bradlee. Aggiungendo: «Non voglio esagerare ma le pressioni c’erano, ed erano ogni giorno più pesanti… Certo che avevo paura». A un certo punto il Washington Post Co. ebbe l’occasione di acquistare una stazione televisiva ad Hartford, nel Connecticut. Il direttore aveva incontrato i membri del consiglio di amministrazione del giornale, che si preoccupavano del fatto che gli articoli sul Watergate avrebbero potuto influenzare una possibile trattativa. «I nostri articoli avrebbero reso i proprietari della stazione più o meno inclini a vendere? Io ero perfettamente a conoscenza di quel dibattito, ma non ne avrei mai parlato né con voi né con Simons (il caporedattore, ndr)».
«Non bisogna mai avere torto», ci disse. «Quando il gioco è così duro, la posta in gioco si triplica, si quadruplica in modo esponenziale».
«Era ovvio che avevamo per le mani una bomba e che era sul punto di esplodere. Ma ancora non avevo capito se avrebbe distrutto noi o il presidente o entrambi».
A Bradlee, in qualità di direttore, spettava l’ultima parola sulla pubblicazione di decine di articoli che avrebbero potuto rivelare segreti di importanza scottante sulla sicurezza nazionale. Nel 1977, durante il primo mese della presidenza di Jimmy Carter, fu convocato nello Studio Ovale mentre il Post si preparava a pubblicare un articolo in cui si affermava che re Hussein di Giordania era sul libro paga della Cia. Carter confermò che la Cia aveva effettuato dei pagamenti, ma implorò personalmente Bradlee di non pubblicare l’articolo. Tuttavia, quando Carter riconobbe che la pubblicazione non avrebbe messo a rischio la sicurezza nazionale, il direttore decise di pubblicare la storia, suscitando l’ira del presidente che inviò a Ben un messaggio in cui lo rimproverava per quell’articolo «irresponsabile». Bradlee era portato per propria natura a sospettare quando qualcuno diceva che alcuni articoli non dovevano essere pubblicati per «motivi di sicurezza nazionale». Soprattutto quando quel qualcuno era un presidente. I fatti, Pentagon Papers inclusi, gli davano ragione. Ma non sempre si comportava così.
Nel 1988 un agente di grado inferiore dell’intelligence Usa si presentò al Post con delle informazioni relative a dei programmi top-secret. L’Occidente non aveva ancora vinto la Guerra fredda. Come ricordato da Bradlee nella sua autobiografia, A Good Life, scritta nel 1995, l’agente gli fornì «dettagli relativi a tre diverse operazioni intorno ai sistemi che permettevano ai sovietici di controllare diverse unità delle loro forze nucleari, e descrivevano in che modo gli Stati Uniti fossero riusciti a penetrare in questi sistemi in tempo reale». Bradlee incontrò l’agente di persona e giunse alla conclusione che quelle informazioni, se divulgate, «avrebbero sicuramente messo a rischio la sicurezza del nostro paese». Si rifiutò di pubblicarle, ma la possibilità che l’agente si rivolgesse ad altre testate fin quando non avrebbe trovato un direttore pronto a pubblicarle lo preoccupava. Non per motivi di concorrenza, ma perché aveva a cuore la sicurezza dell’America. Ben era un patriota vecchio stampo: durante la Seconda guerra mondiale aveva trascorso tre anni nel Pacifico a bordo del cacciatorpediniere USS Philip, e aveva avuto modo di partecipare a parecchie azioni. «Volevamo fermarlo» scrive Bradlee nella sua autobiografia, e insieme al direttore della Cia William Webster trovò il modo di neutralizzarlo: l’agente avrebbe ricevuto una promozione dalla Cia e sarebbe stato messo in guardia sul fatto che, se avesse mai divulgato o discusso dei programmi top secret, sarebbe stato perseguito e sarebbe finito in carcere. L’uomo non divulgò mai quelle informazioni a nessun altro giornalista, e i dettagli delle operazioni, che ebbero grande successo, a oggi rimangono talmente delicati che l’intelligence ancora non ritiene possano essere rivelati.
Ben Bradlee era l’essenza stessa del giornalismo. Nel 2008 tornò a sedersi tra noi per parlare del Watergate, della sua vita e del Post in un’altra conversazione registrata. In quell’occasione fece anche delle riflessioni sulla repentina trasformazione dei mezzi di comunicazione, riconducibile tra l’altro al declino economico dei giornali, all’avvento di internet e — cosa che lo preoccupava particolarmente — all’impazienza e alla velocità del flusso delle notizie. Secondo lui ci si preoccupava troppo del fatto che i quotidiani sarebbero potuti scomparire. «Sono davvero sconcertato. Non posso immaginare un mondo senza giornali. Non ci riesco. Posso immaginare un mondo con meno giornali. Posso immaginare un mondo in cui i giornali si stampano e si distribuiscono in maniera diversa, ma la professione dei giornalisti continuerà a esistere, e il loro scopo continuerà a essere quello di riferire ciò che ritengono essere la verità. Questo non cambierà».
Quando scrivemmo Tutti gli uomini del presidente avevamo solo trent’anni, e dire che provavamo soggezione — di Bradlee e del suo modo di fare — è dire poco. Tuttavia, mentre la nostra collaborazione andava avanti negli anni e poi nei decenni, e l’amicizia e il legame nati da quell’esperienza unica diventavano indistruttibili, abbiamo continuato a guardarlo con immutato stupore senza mai smettere di meravigliarci della sua saggezza e dell’inimitabile limpidezza del suo esempio, ancora increduli, proprio come la prima volta che lo avevamo incontrato, di fronte al senso di allegria e determinazione che riusciva a trasmettere nella vita di ogni giorno. Nei quarant’anni successivi abbiamo avuto molte conferme di tutto ciò.
«Come ti piacerebbe essere ricordato?» gli domandò un paio d’anni fa sua moglie Sally, sposata con lui da trentasei anni, in un’intervista per il Post. La sua risposta è l’essenza stessa di Ben Bradlee: «Vorrei lasciare una testimonianza di onestà e vivere una vita quanto più mi sia possibile vicina alla verità».
© Washington Post/ Distribuzione Adnkronos (Traduzione di Marzia Porta)
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Carl Bernstein e Bob Woodward, la Repubblica 9/11/2014