Ettore Livini, la Repubblica 9/11/2014, 9 novembre 2014
ENAV SENZA VERTICI E ASSEGNO AL TESORO LA PRIVATIZZAZIONE FINISCE NEL CAOS
MILANO.
Azzoppata, spremuta e poi (forse) privatizzata. La telenovela dell’Enav è già entrata di diritto nella ricca storia dei “pasticciacci” delle dismissioni di stato tricolori. Alla voce harakiri, visto che alla fine – more solito – l’Italia rischia di fare del male a se stessa. I fatti: il 16 maggio scorso il Tesoro annuncia la decisione di vendere il 49% della società che gestisce il controllo del traffico aereo del nostro paese. Collocandola in Borsa o girando la quota direttamente ai privati. La cessione non dovrebbe essere un problema. La società, dimenticati un po’ di scandali del passato, è diventata un piccolo gioiello ad alto contenuto tecnologico. Fattura 800 milioni circa, ha chiuso il 2013 con 50 milioni di utile (un record, di cui 31 girati come dividendo al Tesoro). Sotto la guida dell’ad Massimo Garbini ha iniziato a diversificare e ad espandersi all’estero vincendo le gare per gestire l’aviazione civile nel nuovo aeroporto di Kuala Lumpur, per ridisegnare lo spazio aereo del Dubai e per mettere a punto con Telespazio il Gps made in Europe.
I pretendenti, come ovvio quando la merce sugli scaffali è buona, non mancano. F2i fa sapere di aver già acceso un faro sul dossier, in via XX settembre bussano un po’ di fondi Usa. E gli analisti calcolano in 2 miliardi circa il valore dell’Enav. Come dire che con un’operazione gestita bene lo Stato potrebbe portarsi a casa un miliardo di cui le casse pubbliche hanno bisogno come il pane.
Tutto bene? Mica tanto. L’ufficio complicazioni affari semplici – che in Italia non chiude mai – ha deciso di metterci lo zampino. Iniziando dalla nomina del nuovo cda che spetta di diritto al Tesoro che ha il 100% delle azioni. La prima assemblea per dare il nuovo consiglio al gruppo, un passo necessario per stabilizzarne il controllo in vista della vendita, è stata convocata il 26 di maggio. Ma è stata subito fumata nera. E da lì, per motivi inspiegabili, è partito il cinema: la seconda convocazione dei soci (uno solo) del 12 giugno è andata deserta, come quella del 26 dello stesso mese, dell’8 e del 22 luglio. Il 5 agosto per obbligo di legge è stato approvato il bilancio senza nominare il nuovo consiglio. Il 18 settembre l’ennesima assemblea si chiude con un rinvio finché qualcuno, stando alle indiscrezioni, fa presente che senza un abbozzo di nuovo consiglio – causa le norme del codice civile – si rischia di spedire il gioiello di stato in mano a un Commissario. Detto fatto. Il giorno dopo per miracolo il Tesoro nomina un consiglio dimezzato (tre membri, due tecnici dei ministeri e un legale) mentre Garbini, senza la conferma, fa le valigie e lascia l’azienda acefala.
I potenziali acquirenti assistono esterrefatti a questo balletto, mentre la vendita, intanto, inizia a slittare verso il 2015. C’è però un ulteriore problema: i conti della legge di Stabilità faticano a tornare. Il governo ha bisogno di soldi. E dal cilindro esce il coniglio del dividendo straordinario dell’Enav. Il Tesoro vuole abbattere il capitale della società di 300 milioni (il gruppo, sano, ha debiti per solo 80 milioni e un patrimonio di 1,2 miliardi) per poi farsi girare il cedolone. L’emendamento appiccicato in fretta e furia allo Sblocca-Italia viene bocciato. Ma pochi giorni fa ai vertici del gruppo è arrivata una letterina del socio che chiede di dare il via libera lo stesso all’operazione.
Niente di male, per carità. In fondo in passato diverse aziende pubbliche (Adr e Autostrade, per fare un esempio) sono state spremute delle riserve nel capitale dai soci privati dopo la privatizzazione. Resta il fatto che la vendita dell’Enav è ancora al palo, la società – che opera in un settore delicato e strategico – è senza guida da mesi («Auspico che il governo le dia una guida stabile», ha ribadito Garbini) e l’idea dell’abbattimento di capitale sa tanto di espediente per recuperare un po’ di spiccioli per lo Stato. Non proprio il viatico ideale per facilitare la privatizzazione della società e per far rialzare le quotazioni dell’Italia sul fronte della dismissione dei beni di Stato.
Ettore Livini, la Repubblica 9/11/2014