Luca Gualtieri, MilanoFinanza 8/11/2014, 8 novembre 2014
C’ERAVAMO TANTO AMATI
Il nuovo giro di aumenti di capitale che attende al varco il Monte dei Paschi e Banca Carige pone di nuovo al centro del dibattito il ruolo delle Fondazioni nella governance delle banche italiane. Soprattutto di quelle banche che negli ultimi anni hanno costretto i propri azionisti ad autentici tour de force tra svalutazioni, aumenti di capitale e sistematica carestia di dividendi. In alcuni rari casi il legame tra l’ente e la conferitaria si è progressivamente allentato, come per l’appunto sta accadendo in questi mesi a Siena e Genova, riducendo così il rischio determinato dalla concentrazione del patrimonio in un unico investimento. Questo trend però rappresenta ancora l’eccezione e, soprattutto in provincia, logiche di campanile mantengono in vita un legame sempre meno profittevole e talvolta foriero di dissesti.
Nel capitale di una grande malata del credito italiano, cioè Banca delle Marche, ci sono proprio quattro Fondazioni che detengono ancora la maggioranza del capitale, impegnando nell’istituto gran parte del proprio patrimonio. La Fondazione Cassa di Risparmio di Macerata, ad esempio, investe in Banca Marche il 53,1% del proprio attivo, mentre la sua cugina CariPesaro arriva al 60%. La strategia non ha pagato, visto che la conferitaria non stacca dividendi dal 2012 (prima per le Fondazioni Macerata e Pesaro si viaggiava su una media di nove milioni l’anno) ed è per giunta finita in amministrazione straordinaria per gravi irregolarità. Così nel bilancio 2013 i grandi azionisti hanno dovuto correre ai ripari, svalutando fino al 52% (come accaduto nel caso della Fondazione CariFano) la partecipazione e intaccando così il patrimonio. Il valore di libro delle azioni risulta comunque ancora al di sopra dei prezzi ufficiali e non si possono escludere nuove rettifiche di valore alla fine di quest’anno. Il legame tra gli enti e la banca potrebbe comunque interrompersi molto presto. Con appena 20 milioni di disponibilità liquide in cassa le Fondazioni non saranno in grado di sottoscrivere pro quota l’aumento di capitale da quasi un miliardo di euro previsto per il 2015 e dovranno gioco forza diluirsi nel capitale della banca. Non si ripeterà insomma quanto accaduto nel 2011, quando gli enti misero sul tavolo un centinaio di milioni per partecipare alla ricapitalizzazione della conferitaria e difendere la propria quota di controllo.
Altrettanto complessa è la situazione della Fondazione Carife, azionista di riferimento di un altro istituto di credito finito in amministrazione straordinaria, la Cassa di Risparmio di Ferrara. L’ente è arrivato a impegnare ben l’82% del proprio attivo nella conferitaria. Per difendere la partecipazione nel 2008 erano stati investiti 48 milioni, ma già nell’aumento di capitale del 2011 la Fondazione aveva dovuto passare la mano perché impossibilitata ad aderire. Il flusso cedolare si era infatti interrotto già dal 2009 e l’assottigliarsi della liquidità è stato inizialmente tamponato con un mutuo ipotecario ventennale stipulato proprio con la conferitaria. Se insomma per Ferrara la crisi parte da lontano, solo quest’anno il valore di libro della partecipazione in Carife è stato rettificato con una svalutazione del 55% che ha dimezzato il patrimonio.
Per la vicina Fondazione Cassa di Risparmio di Rimini (Carim) invece il valore di libro della conferitaria è cresciuto ininterrottamente dai 105 milioni del 2009 ai quasi 130 milioni del 2013. E ciò malgrado il fatto che la banca sia stata in amministrazione straordinaria dal 2010 al 2012 e non abbia distribuito dividendi per tre anni (la cedola è tornata soltanto nel 2014). Di certo l’ente riminese ha molto caro il legame con la banca come dimostra l’investimento da 23 milioni nell’aumento di capitale del 2011, che ha richiesto un ricorso al debito bancario per 10 milioni. Quell’operazione di finanziamento, tra l’altro, prevedeva anche costituzione di pegno sulle azioni di nuova emissione sottoscritte dall’ente, secondo una modalità simile a quella seguita dalla Fondazione Mps nel 2011. Oggi il ritorno al dividendo è un segnale confortante per Rimini anche se, con il 79% dell’attivo impegnato nelle azioni della cassa di risparmio, il destino dell’ente e della banca restano legati a doppio filo.
A guardare i bilanci della Fondazione CariChieti invece non si direbbe che l’azionista abbia mai dubitato delle performance della conferitaria, che negli ultimi anni non è stata svalutata. Del resto la cassa di risparmio non ha mai fatto mancare al socio di maggioranza dividendi e neppure sostegno finanziario, come si apprende dal bilancio 2013 dove risulta un’apertura di credito in conto corrente da 3,68 milioni utilizzata per finanziare alcuni lavori di restauro. Eppure a metà settembre CariChieti è stata commissariata dalla Banca d’Italia e affidata alle cure di Riccardo Sora e adesso si tratterà di capire quali saranno le strategie della Fondazione che nella banca impegna il 77,4% del proprio attivo.
Per trovare uno dei legami più stretti tra una fondazione e la sua conferitaria bisogna andare di nuovo in Romagna, dove la Fondazione CariCesena investe ben l’83% dell’attivo nell’omonima cassa di risparmio. Fino a oggi la partecipazione non ha creato problemi all’azionista di maggioranza che, negli ultimi anni, ha incassato regolarmente dividendi, anche se di taglia differente. Eppure qualcuno potrebbe obiettare che in tempi di tassi bassi, scarsa domanda di finanziamenti e cattiva qualità del credito puntare tutto su una banca non è una scelta prudentissima. Il messaggio è stato recepito dalla Fondazione Cr San Miniato (Carismi) che nella piccola cassa toscana guidata da Divo Gronchi investe appena il 21,2% dell’attivo. E, forse proprio grazie a questa accurata asset allocation, nel bilancio 2013 registrava disponibilità liquide per 24,4 milioni, di questi tempi quasi un record tra gli enti di medie dimensioni. Forse, potrebbe concludere qualcuno, la vicinanza di Siena è servita da monito alla prudente San Miniato.
Luca Gualtieri, MilanoFinanza 8/11/2014