Tino Oldani, ItaliaOggi 8/11/2014, 8 novembre 2014
«LICENZIARE È DI SINISTRA» DICEVA IL SINDACO DI ROMA, MARINO, MA ORA SUI 180 LICENZIAMENTI ALL’OPERA DI ROMA FA DIETROFRONT
Ciò che sta accadendo all’Opera di Roma è illuminante sul malgoverno della capitale. Ieri il Corriere della sera ha messo a segno uno scoop, rivelando che, entro fine mese, l’Opera di Roma ritirerà il licenziamento dei 180 dipendenti (orchestra e coro) decisi all’inizio di ottobre per porre fine a uno stillicidio di scioperi pretestuosi, che avevano provocato l’abbandono del teatro da parte del maestro Riccardo Muti. Una decisione clamorosa, quella di un paio di mesi fa, a cui ora segue una altrettanto clamorosa retromarcia, frutto di una trattativa tra il sovrintendente Carlo Fuortes e i sindacati del teatro. Il Corsera, nel precisare che la decisione finale spetterà al consiglio d’amministrazione del teatro del 23 novembre , la dà tuttavia per scontata e parla di «lieto fine». Giudizio per nulla condivisibile. In realtà, si tratta dell’ennesima pagliacciata politica, la cui responsabilità va ascritta in primo luogo al sindaco di Roma, Ignazio Marino, che del Cda del Teatro dell’Opera è il presidente.
Il 2 ottobre, nel dare l’annuncio dei licenziamenti, il sindaco Marino disse: «L’unica azione di sinistra era proprio questa: rifondare l’Opera. Non liquidare il Teatro e neanche chiamare una star come rattoppo. Una decisione a prima vista shoccante, ma che potrà far rinascere il Teatro». Il licenziamento in blocco di orchestrali e coristi era arrivato dopo mesi di agitazioni e scioperi. Tanto che il 14 settembre il maestro Muti aveva rinunciato a dirigere l’Aida e gli altri appuntamenti previsti per la stagione lirica. Un abbandono eclatante, visto che Muti era stato nominato «direttore onorario» a vita nel 2011 proprio per rilanciare il Teatro dell’Opera. La proprietà del teatro, dal Duemila, fa capo a una Fondazione, di cui sono soci lo Stato, il Comune di Roma e la Regione Lazio. Il Comune, unico in Italia, versa ogni anno al Teatro di Roma ben 16,5 milioni di euro. Se si divide tale somma per il numero annuale delle recite d’opera (71) e di balletto (43), si scopre che il costo medio per ogni serata è di 144 mila euro. Un ticket salato, che i contribuenti romani pagano a loro insaputa. Nonostante il generoso contributo del Comune, l’Opera di Roma ha un bilancio in deficit cronico: era di 28,8 milioni di euro fino a pochi mesi fa, ma le recenti agitazioni sindacali hanno allargato il buco di altri 4,2 milioni.
Un violinista appena licenziato, ha rivelato che il suo stipendio annuo era di 40 mila euro, comprensivo di 12 scatti di anzianità e di varie indennità, compresa quella per l’umidità, ottenuta dai sindacati per chi suona all’aperto. Per i 180 tra orchestrali e coristi, un simile trattamento di favore rischiava però di subire qualche taglio: la cosiddetta «legge Bray» (dal nome dell’ex ministro Massimo Bray), ha messo a disposizione delle Fondazioni liriche in crisi un fondo di 75 milioni, a patto che presentino un piano di risanamento. Per poterne fruire, il sovrintendente Fuortes aveva presentato un piano che prevedeva un taglio di 50 dipendenti su 430 e una maggiore flessibilità di orari e prestazioni. Piano bocciato dai sindacati, in testa la Cgil di Susanna Camusso, che, con le loro agitazioni portate avanti per mesi, hanno spinto il maestro Muti alla fuga.
La dura risposta del sindaco Marino fu salutata come un gesto coraggioso. Lui stesso se ne vantò, dicendo che, in quel caso, «licenziare era una cosa di sinistra», parole che sulla stampa gli guadagnarono un coro di elogi. Il sovrintendente Fuortes, quasi per ammorbidire il colpo, spiegò che i dipendenti licenziati avrebbero potuto tornare a lavorare per il teatro da gennaio, purché costituissero una cooperativa o un’associazione, con cui il teatro avrebbe stipulato nuovi contratti di lavoro legati all’efficienza, senza più indennità fantasiose, come quelle per l’umidità, il frac o le trasferte a Caracalla, teatro all’aperto che si trova nel centro di Roma, e non in capo al mondo. A conti fatti, visto che coro e orchestra costano 12,5 milioni l’anno, Fuortes contava di risparmiare almeno 3,4 milioni.
Anche il Corriere della sera si profuse in elogi. E Valerio Cappelli, lo stesso che ora definisce «lieto fine» il ritiro dei licenziamenti, allora scrisse: «Se la privatizzazione funziona, e si dimostra che le masse artistiche esternalizzate costano meno e producono di più, il ministero, il principale erogatore di denaro, potrà bussare agli altri teatri indebitati (sono otto su 13). L’indebitamento complessivo delle Fondazioni liriche ha raggiunto 392 milioni 766 mila euro. Il nodo vero è la spesa del personale, che ammonta a 324 milioni. Nel 2014 lo Stato ha assegnato ai teatri lirici 190 milioni. La coperta è corta».
Sembrava tutto vero. Sembrava che gli orchestrali e i coristi di Roma fossero diventati come i minatori inglesi all’epoca di Margareth Thatcher, la cui sconfitta cambiò in meglio la storia della Gran Bretagna. Già, sembrava. Ma Marino non è la Thatcher. È solo un sindaco che non paga le multe, e in virtù della carica ricoperta, rivelano le cronache, se le fa pure togliere dai burocrati del Comune. A Roma, purtroppo per i romani, «i pagliacci» non sono solo il titolo di un’opera famosa.
Tino Oldani, ItaliaOggi 8/11/2014