Carlo Tecce, il Fatto Quotidiano 8/11/2014, 8 novembre 2014
LA SCALATA DI UN POLIZIOTTO IN CARRIERA
Non poteva che presiedere un tavolo dedicato ai “pagamenti digitali” durante il pensatoio renziano, la Leopolda numero 5, il deputato dem Marco Di Stefano, accusato di aver intascato una mazzetta da 1,8 milioni di euro, scorporata di 300.000 euro per un collaboratore che risulta irrintracciabile. È pratico con le ordinazioni dei posti, il politico romano, che ha indossato più casacche per breve tempo e ricoperto più poltrone per tanto tempo. Accolto senza troppi indugi dai renziani, assieme a un bagaglio di preferenze sempre disponibili. E così per la cena di finanziamento di Matteo Renzi, servita ieri sera a Roma, Di Stefano ha contattato gli organizzatori: “Marco più cinque”, che poi sarebbero imprenditori con quota di 1.000 euro cadauno. Viene respinto dopo un dramma al Nazareno: niente tavolo, stavolta. Ai dem non fa difetto l’inchiesta per corruzione, i rapporti con i costruttori Pulcini che, nei propri palazzi, per oltre 7 milioni ospitarono in affitto una società regionale laziale, la “Lazio Service”, mentre il referente Marco era assessore al Demanio durante la giunta di Piero Marrazzo. E finì nel dimenticatoio pure l’esposto alla Corte dei Conti del centrodestra subentrato a Marrazzo, chissà dove riposa quel documento che bollava come eccessivo il canone versato con denaro pubblico ai signori Pulcini. Con la stessa sicumera, la stessa pretesa che non tollera diniego, Di Stefano ha risposto a una solerte Maria Elena Boschi che chiedeva ai parlamentari dem un’adesione per la Leopolda . E ancora: “Prego, Marco più qualcuno”, di contorno, a ragionare di riforme, progetti, modernità. Per poi ammettere su Twitter: “Non conosco Renzi”. Ne ha consumati di sampietrini quest’ex poliziotto che voleva inaugurare la carriera politica al Municipio XVIII di Roma, dove era dislocato, ma fu bloccato perché considerato inadeguato dai vertici di Alleanza Nazionale.
All’epoca, Di Stefano pendeva a destra. Poi ha smesso di pendere non di oscillare; è diventato democristiano. Senza l’originale Dc e l’adorato Vittorio Sbardella, non gli restò che Mario Baccini (oggi compaiono assieme nell’inchiesta di Roma, ma Baccini non è indagato). Il primo maestro, però, fu Nicola Stampete, esponente di An, zona Casalotti-Boccea, che suona familiare anche per la parodia di Corrado Guzzanti sul raccordo anulare che circonda la Capitale. Nicola Stampete, conosciuto col soprannome di “er pipistrello” per via di un paio di orecchie appuntite, era un serbatoio di voti. Il figlio Antonio, amico di Di Stefano, è presidente di commissione (Urbanistica) al Comune di Roma. Ma ritorniamo a metà degli anni Novanta, quando Di Stefano esordisce in politica, consigliere comunale per il Centro Cristiano Democratico e poi segretario provinciale romano per l’Udc, galassia Pier Ferdinando Casini e senz’altro Baccini, esuli Dc. Quando pare scontata la vittoria in Regione di Piero Marrazzo, lo scaltro Di Stefano, convinto dal sindaco Walter Veltroni come raccontano le cronache di quei mesi del 2005, fa un salto a sinistra, però in una lista civica. E da lì sale a velocità più sostenuta: assessore con tre deleghe, Risorse Umane, Patrimonio e Demanio. Campo libero per gestire con disinvoltura un potere enorme e anche per aiutare la futura “convivente” - questa è la dicitura degli inquirenti – Claudia Ariano, direttore della logistica proprio di “Lazio Service”. Le denunce contro Di Stefano provengono anche da Gilda Renzi, l’ex moglie. Ai tratti da telenovela, però, si aggiungono coincidenze molto più fosche. Dopo una rimpasto, a febbraio 2009, Di Stefano fu estromesso dalla squadra di Marrazzo. La “vendetta” fu a caldo, rapida, per mezzo di una conferenza stampa. Disse: “Ho ricevuto pizzini da importanti esponenti della Giunta. Quei pizzini erano relativi ai concorsi interni per lo scorrimento delle posizioni dei dipendenti. Li ho rispediti al mittente”. A settembre 2009, un paio di mesi prima di rassegnare le dimissioni per lo scandalo che lo coinvolse, Marrazzo reintegra Di Stefano, che è promosso assessore all’Istruzione. In questo periodo, abbandonata l’Udeur di Clemente Mastella, scialuppa utile per attraversare il governo di Romano Prodi, Di Stefano aderisce al Partito democratico, lo fa in quota ex popolari, soprattutto di Giuseppe Fioroni. Ma non ridimensiona gli interessi per “Lazio Service”: si batte per far sostituire il presidente Massimiliano Marcucci, nonostante il contratto in scadenza nel 2016.
Tra il 2012 e il 2013, da consigliere regionale, unico di minoranza a capo di una commissione, Di Stefano prepara il gran salto in Parlamento e organizza manifestazioni a Santa Marinella, d’estate, perché i romani vanno a fare il bagno a Santa Marinella. Il 10 giugno 2012, in un istituto religioso, accorre pure Enrico Letta, vicesegretario dem. C’era la governatrice Polverini e il presidente della Provincia di Rieti, Fabio Melilli, oggi segretario regionale del Pd, industriali e cacicchi laziali. Osservò Di Stefano: “Vogliamo promuovere finalmente il dialogo e lo scambio di idee tra la politica e il mondo delle imprese”. Le parlamentarie di dicembre 2012 non sono un successo, soltanto 2.573 preferenze, la metà di Marianna Madia. Viene inserito al sesto posto nella circoscrizione Lazio 1, non eletto a Montecitorio, ma viene ripescato perché Marino chiama in Campidoglio la quinta in classifica, Marta Leonori. Il Nazareno lo recupera. L’ex poliziotto non è mai stato lettiano, appena ha potuto s’è trasformato in renziano. Già un anno fa, mentre il governo di Letta scricchiolava, era tra i referenti del sindaco di Firenze in Commissione Finanze. E ai renziani va bene così.
Carlo Tecce, il Fatto Quotidiano 8/11/2014