Angelo Carotenuto, la Repubblica 8/11/2014, 8 novembre 2014
MARSIGLIA PAZZA DEL LOCO IL CALCIO SECONDO BIELSA “LA MIA SFIDA DI PASSIONE”
MARSIGLIA
Arriva dal retro, la folla è altrove. Poi con due dita si sistema sul naso la montatura in osso degli occhiali, non per vederci meglio, anzi, solo perché diventi una piccola barriera in più fra il suo mondo e il mondo degli altri. Uno schermo. Una protezione aggiunta. Come si vive dentro una bolla facendo impazzire una città. Manuale di Marcelo Bielsa, l’uomo che domani accompagna il Marsiglia e la sua gente a giocarsi un pezzo di campionato francese sul campo del Paris Saint Germain. «È la sfida tra la nostra passione e la loro ricchezza». Questa è la storia di un uomo che quando parla tiene lo sguardo basso, o di lato, burbero, scontroso, chiamatelo come volete, anche “loco”, il matto, come del resto da un pezzo lo chiama il calcio, che proprio non riesce a ingabbiarlo, definirlo, inghiottirlo. Matta adesso è Marsiglia, proprio tutta, per questo argentino in perenne cammino lungo la sottile linea che separa la genialità dalla sociofobia. Tre mesi di convivenza, quattro punti di vantaggio sugli sceicchi che spendono 480 milioni di euro l’anno, mentre Bielsa ha fatto con il poco che ha trovato. Dategli in mano un luogo comune e lui lo ridurrà carta straccia. Per esempio. «La formazione, eccola, giocano questi». Ma dice davvero? Dice davvero. Dall’uno all’undici, da Mandanda a Thauvin. Qui Commanderie, il centro sportivo dell’Olympique. Dove alzano il sopracciglio ma si sono già arresi all’idea di non poter gestire l’allenatore che ha scoperto Batistuta e ispira Guardiola. «E le sostituzioni?». C’è uno che prova a sfotterlo. Lui manco lo guarda. «Ti ho dato la mano, non chiedermi il braccio».
C’è una discreta collezione di aneddoti su Bielsa, raccolta negli anni. I 26 modi di battere un fallo laterale. Le arrampicate sugli alberi per prendere appunti. O quella volta che svegliò la moglie in piena notte per portarla sul campo di calcio che si era fatto costruire, perché gli era venuto in mente uno schema e voleva provarlo. A Marsiglia raccontano che sia possibile incrociarlo al Carrefour, in spiaggia a La Ciotat e che si rifugi all’hotel Intercontinental, sur le Vieux-Port, per vedere le partite in tv. Solo perché pure a Bilbao faceva così. Si è fatto dare le chiavi del cancello del centro sportivo, dorme lì, anche se ha preso una casa per quando moglie e figlie lo raggiungono. Di precis o non si sa dove. Non si deve. È la sua bolla.
Intorno a una figura così, trasparente, autentica, coerente, bene si esercita tutta la macchina culturale che celebra la diversità marsigliese, questa città che fra le due guerre chiamavano la Chicago francese, o la gemella di Napoli, e che da allora si sente perseguitata dalla “mauvaise réputation”, gli stereotipi e i cliché. La città del multiculturalismo che ha partorito Zidane, ha riqualificato la zona del porto ma rimane fra le più povere di Francia. Il suo sentimento di ingiustizia e la sua coscienza di essere il monsieur Malaussène della nazione si sposano in un matrimonio perfetto con il calcio, il terreno ideale del desiderio di rivincita. Specialmente verso Parigi la chic.
Ludovic Lestrelin, docente di sociologia all’Università di Caen, ha definito Bielsa «l’incarnazione dell’immagine di Marsiglia. Non c’era dai tempi di Bernard Tapie». Il quale è di nuovo ben presente sulla scena pubblica, è proprietario del giornale locale e dice che se fosse stato per lui Bielsa lo avrebbe già cacciato, per via della sfrontatezza con cui parlò due mesi fa del presidente Vincent Labrune. Anche questo è successo, fra le pieghe del miracolo Marsiglia. Il conflitto interno. Bielsa attaccò il presidente a fine mercato, per avergli preso calciatori che non voleva. Infatti non li fa giocare. Labrune ha incassato, fa finta di niente. Definisce Bielsa «un elettroshock che ha spezzato il tran-tran degli ultimi anni ». E ti credo. L’uomo è diffidente. Nessuno del Marsiglia gli ha parlato per più di 10 minuti. Bielsa ha un traduttore personale, non gli andava bene quello del club. Si chiama Fabrice, un francese conosciuto in Cile, e ritrovato nel famoso supermercato. Bielsa guarda solo lui. «Fatti ripetere la domanda». Nulla gli deve sfuggire. E poi risponde: «Ibra? Se gioca lo marchiamo a zona. Su di lui non sono previste persecuzioni». Ha reso protagonista finanche una ghiacciaia, la borsa frigo su cui va a sedersi durante la partita. Felicissimi quelli di Powerade, lo sponsor, costretti a chiarire che però è un modello vecchio, insomma inutile cercarla, in vendita non c’è. Ovviamente la Loca La Glacière ha già un account twitter, dove dice la sua in 140 caratteri. «Se mi fa piacere o no, non conta. A me importa che non sia offuscato il lavoro dei giocatori». Il difensore Nkoulou lo chiama «il boss». Il sindaco Gaudin dice di non temerne la popolarità perché «per fortuna non parla francese», scherzando ma non troppo. Gli ultrà dei South Winners, gruppo fra i più antichi di Francia, lo venerano come l’icona che hanno sulla bandiera, Che Guevara, rosarino come Bielsa. «Ho troppo rispetto della parola rivoluzione», parole di ieri, «per credere che a Marsiglia io ne stia facendo una. Ma l’identificazione con il pubblico è importante. Il nostro lavoro ha un grande peso sull’autostima della gente. Ci sono persone che si sentono migliori se la loro squadra va bene. Approfittarne non è nobile. In casa o fuori si va per vincere. Anche a Parigi. Pure loro amano il possesso palla, significa che se ce la toglieranno andremo a riprendercela». In genere entro 5-6 secondi. Con un centravanti, Gignac, che corre 12 chilometri a partita. «Attacchiamo. Dite che ci esponiamo a dei rischi? Lo so. Vuol dire che li correremo». E poi lo chiamano matto.
Angelo Carotenuto, la Repubblica 8/11/2014