Timothy Garton Ash, la Repubblica 8/11/2014, 8 novembre 2014
“SCUSI, DA DOVE SI ESCE?” QUELLE VOCI NEL MIO TACCUINO COSÌ BERLINO VISSE IL SUO D-DAY
Lanciamo cioccolata ai soldati dell’Est, dai volti privi di espressione, a guardia di non si sa cosa, su un muro che, da ieri, non serve più a nulla. Scalciano via i cioccolatini con gli anfibi. Un berlinese dell’ovest, accanto a me, non si arrende: «Volete una sigaretta delle nostre?». Rifiuto imbarazzato. Poi io chiedo: «Perché siete qui?». Stavolta la risposta arriva: «Per le interviste bisogna inoltrare richiesta in anticipo, sia da questa parte che dalla sua». Appunti scribacchiati sul mio taccuino. Attimi surreali dell’evento più decisivo del nostro tempo. In tedesco tutti i sostantivi hanno l’iniziale maiuscola, quindi ogni parete, anche quella di un bungalow, è una “Mauer”, con la M maiuscola.
In altre lingue il Muro è uno solo, quello che “cadde” la notte di giovedì 9 novembre 1989, cambiando la storia.
Certi episodi in seguito li ho pubblicati, li ho quindi sempre in mente: la coppia di provinciali con i giubbotti di jeans che mi chiese «scusi, da dove si esce?»; l’uomo che risaliva la Friedrichstrasse scandendo «28 anni e 91 giorni»(ossia il tempo in cui era rimasto bloccato al di là del muro); il manifesto improvvisato con su scritto «solo oggi la guerra è finita davvero».
Ma il taccuino contiene altri appunti che avevo completamente dimenticato, alcuni dei quali non sono esattamente consoni a quella che è diventata la favola bella della liberazione. Ad esempio durante un dibattito sul palcoscenico di un famoso teatro di Berlino Est, tre giorni dopo la caduta del Muro, ascoltai Markus ‘Mischa’ Wolf esprimersi in difesa della Stasi. Lui, che dopo essere stato a lungo a capo dell’intelligence della Germania Est, qualche anno prima, ormai in pensione, era diventato un riformista, sostenitore di Gorbaciov.
«Stasi in maggior parte non torturatori né bestie», annotò indignata la mia matita, ma «gente per bene, pulita — anständige, saubere Menschen» . Wolf ribadiva di non aver avuto responsabilità nella persecuzione dei dissidenti (acqua sulle mani di Ponzio Pilato) e che in ogni caso «deve necessariamente esistere un apparato per la sicurezza dello stato e dei singoli cittadini, come in tutti i paesi sviluppati ». Poi, esprimendo l’evidente sorpresa di chi la impugnava, la mia matita aggiunse «fragoroso applauso!!» Alcuni di coloro che applaudirono fragorosamente allora nel Deutsches Theater, avranno ormai ri-ricordato quella che fu la loro reazione. Cito Nietzsche: «Io l’ho fatto», dice la mia memoria. «Non posso averlo fatto», dice il mio orgoglio e resta irremovibile. Infine, la memoria cede.
E poi c’è la conversazione, ascoltata in aeroporto, tra due giornalisti televisivi americani in procinto di rientrare in patria: «Bella storia», «sì, l’audience è un po’ calata tra ieri e oggi», «già, il pubblico ha perso interesse», «sì…». Scommetto che oggi non la raccontano così. Che ricordi.
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Mio padre sbarcò con la prima ondata delle forze alleate il 6 giugno 1944, il D-Day. A volte tornava sulle spiagge della Normandia in occasione di qualche commemorazione e si metteva sull’attenti, in abito scuro, sul petto le medaglie al valor militare e la croce di guerra. Il venticinquesimo anniversario degli sbarchi cadde nel 1969 — oggi quindi, per me, ricordare la caduta del muro è un po’ come fu per mio padre ricordare il D-day nell’anno in cui uscì Abbey Road dei Beatles e Neil Amstrong mise piede sulla luna. Non pretendo di paragonare le due esperienze. Mio padre rischiò la vita per la libertà del suo popolo e di altri popoli europei; io portavo solo un taccuino. Ma il calendario mi dice che agli occhi dei nati dopo la caduta del Muro devo sembrare un reduce, che ripete triti racconti di tempi andati, come sarà sembrato mio padre nel 1969. «I vecchi dimenticano; e lui dimenticherà tutto il resto, eppure ricorderà, con qualche dettaglio di troppo, le sue prodezze di quel giorno» eccetera eccetera, mentre gli alunni annoiati digitano coi pollici sugli smartphone.
Perché allora non affidare il compito a una nuova generazione di storici, pieni di entusiasmo, esperti di tutte le carte, armati delle dichiarazioni dei superstiti, al corrente di tutte le conseguenze, dotati del senno del poi? Lasciamo che siano loro a dirci «come è realmente accaduto», per citare il padre della storiografia moderna, Leopold von Ranke (che insegnò alla più prestigiosa università di Berlino, la Humboldt di oggi, sopravvissuta per decenni al di là del Muro).
Di ritorno in aereo da Varsavia, qualche tempo fa, ho finito di leggere il nuovo libro della storica Mary Elise Sarotte. Si intitola The Collapse: The Accidental Opening of the Berlin Wall. (Il collasso: l’apertura fortuita del Muro di Berlino). A sorpresa l’autrice dedica le due pagine iniziali alla telecronaca che Tom Brokaw della Nbc tenne nell’imminenza dell’apertura del muro da Belino Ovest. «Brokaw? Mai sentito, cos’è, una città polacca? », avrebbe detto un berlinese dell’est.
Quella telecronaca può forse essere di interesse per qualche lettore americano, ma per i tedeschi dell’Est a contare erano i conduttori dei principali canali televisivi della Germania Ovest, quelli che seguivano regolarmente in tv (i programmi dell’Ovest si vedevano in gran parte dell’Est, fatta eccezione per una zona sperduta, chiamata «la Valle degli ignari »). Erano personaggi autorevoli, come Hanns-Joachim Friedrichs, della Ard, con la sua chioma argentea e l’aria di famiglia — che alle 22.40 circa dichiarò: «Questo nove novembre è una giornata storica. La Germania Est ha annunciato che i suoi confini sono aperti, da subito, per tutti». A certi varchi c’era già la coda, ma questo notiziario della Germania Ovest, soffocando i comunicati dell’emittente di Stato dell’est che ribadivano la necessità di richiedere un permesso per uscire, portò folle sempre più grandi di berlinesi a sciamare verso la barriera di cemento che li aveva tenuti prigionieri dal 1961.
A parte questo incipit opinabile, Sarotte fornisce una ricostruzione sapiente, scrupolosamente documentata, della serie di errori commessi da politici e funzionari della Germania Est — e delle iniziative personali di comandanti dei varchi di confine come Harald Jäger, in servizio quella notte al varco della Bornholmer Strasse — che trasformarono il previsto iter di aperture controllate attentamente gestite («richiedere in anticipo i permessi di viaggio») nella festa di liberazione popolare più celebre del mondo. In questi fatali passi falsi rientra la dicitura di un documento ufficiale sulla liberalizzazione dei viaggi che tra le mete includeva Berlino nonché il resto della frontiera tra le due Germanie e il famoso momento in cui Günter Schabowski, membro del Politburo, nel corso di una decisiva conferenza stampa la stessa sera del 9 novembre disse che era possibile viaggiare «da subito». È sulla base di questi equivoci, imprevisti e iniziative individuali, dice Sarotte, che la storia cambia.
Definire “fortuita” l’apertura del Muro, come dice il sottotitolo del libro, è corretto e scorretto al tempo stesso. Scorretto nel senso che il vecchio regime di Berlino Est, sigillato dal Muro, non avrebbe potuto andare avanti come prima, visto che Mikhail Gorbaciov era pronto a incoraggiare ampie riforme e, cosa ancor più importante, ad accettare un rivoluzione negoziata e pacifica, come quelle già in atto in Polonia e Ungheria. Corretto nel senso che il carattere “fortuito” dell’evento, dalle reazioni della gente in Germania Est alle affermazioni improvvide dei funzionari del loro governo diffuse dai notiziari tv dell’Ovest, fino all’atmosfera da Pentecoste di quella notte dei miracoli, ha cambiato tutto per sempre: a Berlino, in Germania, in Europa, nel mondo.
Come osserva Sarotte, il “perché” è inscindibile dal “come”. In questo caso il “come” è diventato sia l’essenza dell’evento che un fattore decisivo delle sue conseguenze. Non solo ha prodotto immagini indimenticabili, che in un senso importante sono l’evento (sotto questo aspetto paragonabili, seppure in sfumature di luce e non di buio, al crollo delle torri gemelle a New York l’11 settembre 2001). Ha segnato il momento del passaggio del potere da chi tradizionalmente lo deteneva, i cosiddetti Machthaber, alla gente. Il muro era aperto perché tutti dicevano che era aperto. Tutto era cambiato perché tutti dicevano che era cambiato.
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Questo può dirlo lo storico. C’è qualcosa che i presenti all’epoca sanno e chi è venuto dopo, invece, non sa? Chiaramente noi che c’eravamo conosciamo le sensazioni di allora. Nel caso dell’apertura del muro non sono affatto semplici da spiegare, come si potrebbe credere. Tutti possono immaginare, o quanto meno pensano di poter immaginare, cosa si provi a sbarcare su una spiaggia della Normandia sotto il fuoco delle mitragliatrici della Wehrmacht, evitando le mine, sapendo che ogni momento potrebbe essere l’ultimo. Da questo quadro mentale può venir fuori Tom Hanks più che la realtà storica — una realtà che anche mio padre, quando lo intervistai verso la fine della sua vita, trovava difficile evocare, o forse non riusciva a descrivere — ma palesemente drammatica. Da qui la serie infinita di film e videogame ambientati nella seconda guerra mondiale.
La reale drammaticità del 9 novembre 1989 è più difficile da cogliere a distanza di tempo. Intanto non è insita nella grande maggioranza delle foto e dei video che mostrano il lato del muro coperto da graffiti multicolori. Perché quello era il lato ovest, dalla parte libera, quella che già godeva di libertà di espressione — perciò i graffiti colorati. Ovviamente fu un momento molto importante per i berlinesi e per tutti i tedeschi dell’Ovest, ma non era il giorno della riunificazione. Quello arrivò a quasi un anno di distanza, il 3 ottobre 1990, dopo che la maggioranza dei tedeschi dell’est aveva votato a favore dell’unione con la Germania Ovest, abilmente negoziata con Gorbaciov da Helmut Kohl e George H. W. Bush. La caduta del Muro fu il giorno della liberazione per quelli che erano dietro il Muro, non il giorno dell’unificazione per chi gli stava davanti. Era quindi l’altro lato della barriera di cemento grezzo che contava, quello che la gente non spruzzava con le bombolette di vernice colorata, piuttosto aveva rischiato la vita per scavalcarlo. L’impatto emotivo di questa liberazione può essere colto solo riuscendo a immaginare cosa volesse dire vivere tutta la vita dietro quel «bastione protettivo antifascista» (questa la mendace denominazione ufficiale), senza mai metter piede nella metà occidentale della propria città e con la prospettiva che tutto sarebbe andato avanti così per anni e anni a venire.
L’altro elemento, che persino i migliori storici stentano a recuperare, è la percezione di ciò che la gente all’epoca non sapeva. Per quelli che vivevano dall’altra parte il Muro era diventato qualcosa di simile alle Alpi, una realtà della geografia fisica apparentemente immutabile. Anche quando le cose iniziarono a cambiare drasticamente in Polonia e Ungheria, la maggior parte delle persone semplicemente non credeva che le Alpi potessero sbriciolarsi. Dopotutto a tenerle su c’era un impero dotato di armi nucleari. Nell’estate del 1989, di ritorno da Varsavia e Budapest, avendo finalmente ottenuto il visto per la Ddr che mi era stato a lungo negato, passai a trovare una piccolo cerchia di amici dissidenti a Berlino Est. «Sarà forse possibile in Polonia e in Ungheria, ma non qui», mi dissero mogi.
Per quanto lo storico metta in guardia contro le insidie del senno del poi, non si può disconoscere il proprio né trascurare il fatto che i lettori sanno cosa accadde dopo. Così, pur evitando di cadere nella trappola di scrivere la storia come se ciò che è effettivamente accaduto fosse inevitabile — Henri Bergson le definiva «le illusioni del determinismo retrospettivo» — è quasi impossibile ricreare l’intensità emotiva del momento della liberazione. Perché quell’intensità veniva dall’aver vissuto gran parte, se non tutta la vita, con la dolorosa certezza che una cosa del genere fosse, appunto, impossibile.
Il mio amico tedesco dell’Est, Werner Krätschell, ha saputo cogliere meglio di altri questo aspetto. Ricevuta la «strana notizia» da un giornalista francese, prese la figlia Konstanze, 20 anni, e l’amica di lei Astrid, 21, che non era mai stata all’Ovest. Saltarono sulla sua Wartburg e arrivarono fino al varco della Bornholmer Strasse. Successivamente scrisse in un articolo per la rivista Granta: «Sogno e realtà si confondevano. Le guardie ci fecero passare: le ragazze strillavano. Si stringevano sul sedile posteriore come se aspettassero un raid aereo». I berlinesi dell’Ovest li salutavano con la mano, esultanti, urlanti. «Astrid all’improvviso mi dice di fermare la macchina all’incrocio successivo. Vuole solo posare il piede sulla strada, solo una volta. Toccare il suolo. Armstrong dopo l’allunaggio».
I tedeschi dicono im Nachhinein sind alle klüger , col senno del poi son tutti più saggi. Ed è così. La moltitudine di quelli che ricordano di aver in qualche modo predetto gli eventi è cresciuta come le reliquie della vera croce. Ma non l’hanno fatto: né le spie, né gli esperti, né i politici, né i diplomatici, né i politologi — e neppure io. Certo, alcuni ripetevano che il Muro sarebbe caduto e la Germania si sarebbe riunificata, ma nessuno prevedeva quando e, soprattutto, come; e il come era tutto. Un ex agente dell’M16 mi raccontò che la sera stessa del 9 novembre si era incontrato con i suoi colleghi del servizio di intelligence della Germania Ovest, il Bundesnachrichtendienst (Bnd). Mentre le spie della Germania Ovest comunicavano alle spie britanniche, chiaramente sulla base delle loro ottime fonti in loco, che in Germania Est il cambiamento sarebbe avvenuto solo molto lentamente, nell’arco di anni, qualcuno si affacciò alla porta e disse: «Accendete la tv, il Muro è aperto!».
Ma c’è una persona che conosco che ha effettivamente previsto gli eventi proprio per come sono poi avvenuti. Quando andai a vivere a Berlino Ovest per la prima volta, nel 1978, piantai le tende nell’appartamento un po’ fatiscente di una deliziosa anziana signora dai capelli candidi, di nome Ursula von Krosigk. Il polveroso divano accanto al quale avevo steso il mio sacco a pelo era puntellato da una guida Baedeker prebellica di Dresda e, appisolandomi, pensai che una guida del genere ormai poteva avere solo quella funzione, dato che Dresda era stata devastata dai bombardamenti alleati. (Oggi, a seguito di un meraviglioso lavoro di ricostruzione la vecchia guida probabilmente sarebbe riutilizzabile come lo è la mappa del centro di Berlino della mia Baedeker del 1923, allora a sua volta una curiosità storica).
Ursula aveva visto molta storia tedesca. Suo zio era il ministro delle finanze di Hitler e lei ricordava di essere andata nella sua tenuta in campagna la mattina dopo l’altro 9 novembre, quello della Kristallnacht (la notte dei cristalli) del 1938. Passarono in auto accanto a marciapiedi ricoperti dalle schegge delle vetrine in frantumi dei negozi ebrei saccheggiati. «Cosa dissero le persone nella macchina?», le chiesi. «Nessuno disse una parola».
Nobildonna prussiana sin nel midollo ma anche bohémien, cordiale, anticonformista, Ursula in tempo di guerra era amica, tra gli altri, di alcuni dei capi resistenza che tentarono di assassinare Hitler. La tenuta della sua famiglia era stata espropriata e si trovava allora in Germania Est. Ursula aveva un modo particolare di scuotere la testa quando stava per dire qualcosa che considerava azzardato o insolito. Un giorno a colazione — Leonid Breznev era ancora al Cremlino e l’invasione sovietica della Cecoslovacchia era un ricordo recente — scosse la testa nella sua maniera e, dopo una lieve esitazione, timidamente mi confidò: «Sai, ho fatto un sogno l’altra notte». Aveva sognato che, per caso, solo per una notte, il Muro di Berlino si era aperto. E in quella notte furono così tante le persone a fare avanti e indietro, abbracciandosi, con le lacrime agli occhi, che il Muro non poté più essere chiuso. Un sogno, capite, un sogno.
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Cinque anni fa ho partecipato ai festeggiamenti intensivi per il ventennale delle rivoluzioni di velluto del 1989 — ieri Monaco, oggi Praga, domani Varsavia — e, una volta finito, ho tirato un sospiro di sollievo. Pensavo: bene, se ne riparla tra dieci anni, posso mettere tutto da parte fino al trentennale del 2019 e tornare al mio libro sulla libertà di parola. Quanto mi sbagliavo. Appena tre o quattro anni dopo sono spuntate le prime email. Richieste di una conferenza qui, un articolo là. Le celebrazioni — e il marketing — della caduta del Muro non avranno apparentemente fine. L’entità della commemorazione rispecchia e amplifica la portata dell’evento.
Il 1989 è diventato il nuovo 1789: contemporaneamente un punto di svolta e di riferimento. Venticinque anni fa ci ha dato, sotto il profilo politico, la miglior Germania di sempre. (Sotto quello culturale sono state più interessanti altre Germanie, ma dovendo scegliere tra Wagner e la democrazia, scelgo la democrazia). Il 1989 ha reso possibile l’Europa di oggi, con tutte le sue libertà e le sue pecche. Non c’è angolo di mondo che non ne abbia subito le ripercussioni, che sono poi di due generi, ossia gli esiti diretti di ciò che è realmente accaduto e i modi in cui la realtà è stata interpretata e malinterpretata, con le relative involontarie conseguenze.
La caduta del Muro è diventata una sorta di super metafora (o meta metafora) del nostro tempo, usata soprattutto dai politici occidentali non solo per rappresentare, ma per vaticinare l’avanzata della libertà. «Il Muro non c’è più», salmodiò il presidente George W. Bush, fresco di mandato, il primo maggio del 2001, evocando un paesaggio internazionale tratilizzabile, inclusa la Russia, in fieri come «grande nazione democratica, in pace con se stessa e i paesi vicini». «È caduto un muro a Berlino», disse il presidente eletto Barack Obama nel discorso di accettazione dell’incarico, la sera tra il 4 e il 5 novembre del 2008, evocando miracoli passati, presenti e futuri. «Il Muro di Berlino simboleggiava un mondo diviso e ha caratterizzato un’intera epoca…», dichiarò il Segretario di Stato Hillary Clinton, nel suo discorso sulla libertà di Internet nel 2010, «ma anche se le reti si espandono a raggiungere le nazioni in tutto il mondo, spuntano muri virtuali al posto dei muri visibili». La grande muraglia digitale cinese, ad esempio. Mentre Ronald Reagan di fronte al Muro di Berlino gridò: «Gorbaciov, tiri giù questo muro», è come se la la Clinton al Newseum di Washington avesse esclamato: «Hu, tiri giù questo firewall!». Ma Xi Jinping è subentrato a Hu Jintao, e il firewall cinese — scusate, lo “scudo dorato” — è ancora lì. Ciascuno ha tratto insegnamenti dalla caduta del Muro e i leader leninisti cinesi hanno imparato a non farsi sfuggire il potere dalle mani ripetendo gli errori commessi da Gorbaciov e dai leader comunisti dell’Est Europa.
La metafora, o analogia, ci ha portato fuori strada sotto altri aspetti. Senza dubbio almeno per qualche conservatore, come Paul Wolfowitz, l’immagine di ciò che è avvenuto nell’Europa dell’Est nel 1989 e successivamente ha influito sulle speranze riposte nell’Iraq post-invasione. Una generazione di giornalisti, formata dall’esperienza personale o dalla memoria mediatica collettiva delle rivoluzioni di velluto europee, ha acclamato la Primavera araba del 2011 quasi fosse un 1989 in infradito (mi dichiaro colpevole di aver condiviso quelle speranze). Nel frattempo un ex ufficiale del Kgb che era stato testimone risentito del nascere del potere popolare quando era in servizio in Germania Est, un certo Vladimir Putin, sta tentando di far girare all’indietro la ruota della storia ricostituendo per quanto possibile l’impero russo, per mezzo della violenza e della menzogna.
Quasi tutti conoscono il famoso aneddoto del premier cinese Ciu-en lai che, in occasione di un incontro con Nixon nel 1972, alla richiesta di quali fossero a suo parere le conseguenze della rivoluzione francese, rispose: «È troppo presto per parlare». Ma non è vero. Il diplomatico americano che faceva da interprete a Nixon, Charles W. Freeman, si dice certo che la conversazione si riferisse chiaramente alle proteste del Maggio 1968 a Parigi, non al luglio 1789. A meno di quattro anni di distanza, semplicemente era presto per parlare. Quindi la famosa risposta di Ciu-en lai in realtà era banalissima — ma oggi viene universalmente interpretata come una perla dell’eterna saggezza cinese.
Sarebbe comunque stata un’affermazione saggia. Perché il significato e le implicazioni di avvenimenti di grande portata impiegano decenni e addirittura secoli a rivelarsi. Lo storico Francois Furet suscitò scalpore in Francia dichiarando, nel 1978, che «la rivoluzione francese è finita». Finita? Così presto? Come osava. Quest’anno abbiamo visto varie reinterpretazioni del 1914, non da ultimo alla luce del comportamento di Putin nel 2014. Il caleidoscopio non smette mai di ruotare. Sarà così anche per la caduta del Muro. A mio giudizio sono pochi, se mai esistono, i grandi interrogativi non chiariti su ciò che è avvenuto e come, anche se la battaglia delle interpretazioni storiche si prolungherà senza dubbio per decenni a venire (ad esempio, a seconda delle scuole di pensiero, si metterà in evidenza il ruolo avuto da di Gorbaciov oppure quello dei leader dissidenti, come Václav Havel).
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Grandi interrogativi restano però aperti riguardo al significato dell’evento e a dove esso conduca. Uno in particolare assume risalto per me: che fine hanno fatto i ragazzi dell’89? Nell’arco della mia vita solo due generazioni si sono chiaramente distinte — quella del ‘68 e quella del ‘39. Quest’ultima si formò alla luce delle esperienze della seconda guerra mondiale e della fase post-bellica: uomini come mio padre, una generazione immediatamente riconoscibile ovunque la si incontri. Poi ci sono i sessantottini, diversissimi quanto a stile, inizialmente ribelli contro la generazione del ‘39, molto dediti (almeno in gioventù) al vino, al sesso e all’erba, ma anche carichi di idealismo e determinati a cambiare la società europea, rendendola socialmente e culturalmente più liberale. Ma il 1989 sotto il profilo storico è ben più importante del 1968. Che fine hanno fatto i ragazzi dell’89?
Le generazioni del ‘39 e del ‘68 furono caratterizzate dalle esperienze maturate durante e dopo il 1939 e il 1968; si può dire invece che i più attivi negli eventi del 1989 avevano alle spalle esperienze precedenti (non pochi erano sessantottini). Esiste, senza dubbio un esercito di persone che all’epoca della caduta del Muro avevano intorno ai vent’anni e ora hanno un ruolo di primo piano nel dibattito europeo. Ma rispetto alle altre due generazioni, la loro non è affatto definita con altrettanta precisione.
Personalmente ho una teoria a riguardo, o forse si tratta solo di una speranza illusoria. A mio avviso i ragazzi dell’89 potrebbero non essere quelli attivi all’epoca o gli entusiasti testimoni degli eventi di allora, bensì i nati nel 1989 e dintorni, che oggi passano dall’università dello studio a quella della vita. Il mondo in cui fanno ingresso è sotto molti aspetti meno prosformato, mettente di quello che ci apparve roseo come l’alba sopra la porta di Brandeburgo venerdì 10 novembre 1989. Allora sembrava che l’Europa e la libertà stessero avanzando come mai prima, a braccetto, sulle note della Sarabanda di Bach suonata da Rostropovich davanti al Muro — e poi dell’arrangiamento dell’ Inno alla Gioia di Beethoven: 25 anni dopo l’Europa è in crisi. I paesi liberi subiscono la minaccia della violenza islamista (una minaccia attribuibile in parte — e solo in parte, va sottolineato — all’arroganza del ”da Berlino a Baghdad” che ci ha portato in Iraq). Il capitalismo autoritario alla cinese — esso stesso frutto degli insegnamenti che i leader leninisti cinesi hanno tratto dalla caduta del Muro — risulta più attraente agli occhi di molti fuori dall’Occidente tradizionale, mentre il capitalismo finanziario incontrollato e iniquo — anch’esso attribuibile in parte all’arroganza post 1989 — lo è meno.
Dove sono quindi i ragazzi dell’89? Non che questa generazione sia rimasta in silenzio, interessata solo al suo privato, occhi e pollici sullo schermo dello smartphone, come lamentano spesso i sessantottini canuti. I ragazzi dell’89 si sono accampati nelle strade delle città, da New York a Madrid, per rivendicare un futuro che il mondo del dopo-Muro sembrava inizialmente avergli promesso e che è stato loro rapinato dai banchieri e dai politici. I ragazzi dell’89 sono stati in prima linea nelle manifestazioni contro le cattive leggi che minacciavano di limitare la libertà di Internet. Edward Snowden, che aveva sei anni alla caduta del Muro, può essere considerato sia una voce che un eroe della generazione dell’89.
Non è ancora chiaro quale sia la più ampia visione politica che questa generazione rappresenta, in che modo cambierà l’Europa e se piacerà al resto del mondo. In effetti per avere successo non può essere una generazione solo occidentale, come lo erano in massima parte quelle del ‘68 e del ‘39. I ragazzi dell’89 contano, forse anche di più, a Beijing, Delhi e Sao Paolo. Non so se i ragazzi dell’89 costituiranno, uniti, una generazione politica significativa, non so come agiranno e — altrettanto importante — come reagiranno nel momento in cui, per usare un’espressione in voga, “le cose accadono”. E quel momento verrà. Ma ho una certezza: la loro azione (o inazione) sarà determinante per la lettura che daremo della caduta del Muro in occasione del cinquantenario. Da loro dipenderà il futuro del nostro passato.
Traduzione di Emilia Benghi
Timothy Garton Ash, la Repubblica 8/11/2014