VARIE 9/11/2014, 9 novembre 2014
APPUNTI PER GAZZETTA - NAPOLITANO SI DIMETTE
REPUBBLICA.IT
ROMA - Dopo il tam tam mediatico e le indiscrezioni insistenti legate alle probabili dimissioni di Giorgio Napolitano a inizio 2015, il Quirinale interviene per mettere alcuni punti fermi, senza confermare né smentire l’ipotesi forte di questi giorni. "I giornali - si legge nella nota diramata dal Colle - hanno dato ampio spazio a ipotesi e previsioni relative alle eventuali dimissioni del presidente della Repubblica" e "la presidenza della Repubblica non ha pertanto né da smentire né da confermare nessuna libera trattazione dell’argomento sulla stampa. E restano esclusiva responsabilità del capo dello Stato il bilancio di questa fase di straordinario prolungamento, e di conseguenza le decisioni che riterrà di dover prendere. E delle quali come sempre offrirà ampia motivazione alle istituzioni, all’opinione pubblica, ai cittadini".
Il Quirinale poi prosegue così: "Il presidente della Repubblica, nel dare la sua disponibilità - come da molte parti gli si chiedeva - alla rielezione che il 20 aprile 2013 il parlamento generosamente gli riservò a larghissima maggioranza, indicò i limiti e le condizioni - anche temporali - entro cui egli accettava il nuovo mandato".
I "limiti" e le "condizioni, anche temporali" con cui Napolitano ha accettato il secondo mandato, non gli hanno "impedito" e non gli "impediscono" di "esercitare nella loro pienezza tutte le funzioni attribuitegli dalla Costituzione, tenendo conto anche della speciale circostanza della Presidenza italiana del semestre europeo".
"Noi andiamo avanti con le riforme, con urgenza e determinazione sapendo che l’orizzonte del governo è quello dei mille giorni, del 2018". Queste le parole con cui Matteo Renzi, secondo fonti di Palazzo di Palazzo Chigi, ha commentato la nota del Quirinale. Intanto, intervistato da Maria Latella su SkyTg24, Graziano Delrio dice: "Napolitano è stato ed è custode della Costituzione. A lui va il nostro grazie". Ed ancora: "Il capo dello Stato non ci ha ancora detto addio né arrivederci. Non usiamo il tema del Quirinale per fare pressioni sulle forze politiche, intanto ce lo teniamo stretto e lo ringraziamo", ma le modalità di un avvicendamento al Colle "non possono essere oggetto di trattativa tra i partiti. I tempi e i modi del suo eventuale ritiro li deciderà lui".
Il presidente, infatti, ha già più volte ricordato che il suo secondo mandato non durerà sette anni (come da prassi), e rumors insistenti indicano l’incipit del nuovo anno come possibile momento per le dimissioni.
Il presidente della Repubblica non è più disposto ad aspettare i tempi dei partiti sulla legge elettorale (più riforme istituzionali), e non intende farsi condizionare dai ritardi né dalla pratica del rinvio. Non da ultimo, la decisione di Napolitano è legata alla indisponibilità del presidente di sciogliere le Camere anzitempo: un compito che passerà al suo successore. Ieri le reazioni del mondo politico non si sono fatte attendere, e sui candidati la corsa è già partita.
Quirinale, i primi nomi per il dopo Napolitano
A tal proposito, il sottosegretario alla presidenza del Consiglio insiste: "Sulla scelta del prossimo presidente della Repubblica ci deve essere una convergenza di tutti. Se ci fosse una convergenza su un nome condiviso sarebbe un grande successo".
Il premier Matteo Renzi, però, vorrebbe rinviare l’addio e sperare di poter convincere Napolitano a rimanere fino al 1° maggio, quando - è l’auspicio a Palazzo Chigi - l’Italicum dovrebbe già essere approvato e quando si inaugurerà ufficialmente l’Expo a Milano. "Frequento spesso Renzi - dice ancora Delrio - e il Matteo che conosco io vuole governare il Paese, aiutare le famiglie a trovare serenità, non vuole andare a votare ma vuole governare. Finché avremo la fiducia del parlamento non staremo attaccati alle poltrone, ma ai bisogni del Paese". E poi, sui rapporti tra Pd e Forza Italia: "Il patto del Nazareno è un’altra cosa, è il tentativo di fare insieme delle riforme" e non riguarda il successore di Napolitano alla presidenza della Repubblica. Un concetto, questo, già sottolineato dal ministro per le Riforme, Maria Elena Boschi.
A intervenire sull’argomento anche il ministro dell’Interno, Angelino Alfano, che dice: "Napolitano dovrebbe restare al Quirinale fino alla fine del mandato, perché garanzia di terzietà".
Invece, il presidente della Camera, Laura Boldrini, si focalizza sul tema di genere e apre a un nome femminile: "Da tempo il Paese è pronto per avere un presidente della Repubblica donna. Il Paese è molto più avanti della politica. In Italia ci sono donne autorevoli che hanno delle storie significative ed è giusto che possano essere considerate".
E Paolo Gentiloni, nuovo ministro degli Esteri, dichiara a In mezz’Ora: "Il presidente della Repubblica, per il suo attaccamento ai temi europei e anche per il suo rapporto personale con Obama, è considerato un pilastro e spero che vada avanti fin quando possibile. La sua esperienza e il suo peso svolgono un ruolo fondamentale. Ho avuto varie occasioni dopo il giuramento di incontrare il presidente e devo dire che la cosa che fa impressione è la straordinaria padronanza dei temi internazionali, la lucidità e l’autorevolezza. Dobbiamo moltissimo a Napolitano". Secondo Gentiloni, nel comunicato diffuso poco fa dal Quirinale, è necessario cogliere il fatto che i modi con cui Napolitano deciderà di procedere "non sono oggetti di discussione politica. Lui deciderà i tempi e immagino non voglia diventi oggetto di discussione politica".
"Napolitano? Non mi dispiace affatto". Così Matteo Salvini che dal suo profilo Facebook interviene sull’ipotesi di dimissioni del Presidente della Repubblica. La motivazione: Napolitano ha "collaborato alla costruzione di una gabbia europea che ci sta massacrando". E il segretario della Lega interviene anche sul toto-nomi: "Circolano cose terribili: Romano Prodi, Veltroni, una "donna" indicata dalla Boldrini. Peggio che andar di notte!".
PEZZI DAI GIORNALI DI STAMATTINA
CDS
IL PERCORSO
La prospettiva delle dimissioni 1L’ipotesi che ha messo a rumore i palazzi della politica prevede che il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano lasci tra poco più di un mese, alla fine dell’anno, in concomitanza con la conclusione del semestre italiano di presidenza dell’Unione europea. Il capo dello Stato aveva chiarito nel suo discorso d’insediamento (il 22 aprile 2013) che non sarebbe restato al Quirinale per tutta la durata del suo secondo mandato (che scade nel 2020). A giugno 2015 Giorgio Napolitano compirà 90 anni L’iter delle riforme 2Il capo dello Stato, nel suo discorso di investitura, aveva richiamato i parlamentari sulla necessità di portare a termine le riforme: da quelle istituzionali, alla giustizia, a una nuova legge elettorale. I lavori parlamentari finora hanno prodotto una prima approvazione a Palazzo Madama della riforma del Senato che sancisce la fine del bicameralismo perfetto. Resta invece ancora aperta la questione di una nuova legge elettorale, un punto su cui Napolitano aveva particolarmente insistito Il ruolo del presidente del Senato 3Nel caso il presidente della Repubblica, come si ipotizza, dovesse annunciare le sue dimissioni nel discorso agli italiani di fine anno, potrebbero seguire nel giro di poche settimane le dimissioni formali. A quel punto scatterebbero i 15 giorni previsti per la convocazione delle Camere. E inizierebbe la supplenza da parte della seconda carica dello Stato. Sarebbe quindi il presidente del Senato Pietro Grasso a subentrare in attesa delle votazioni per il nuovo presidente della Repubblica Il voto per il Colle 4L’articolo 83 della Costituzione disciplina il voto del presidente della Repubblica che viene «eletto dal Parlamento in seduta comune. All’elezione partecipano tre delegati per ogni Regione eletti dal Consiglio regionale». L’elezione del capo dello Stato avviene a scrutinio segreto. Nelle prime tre votazioni è necessaria l’approvazione dei 2/3 dell’assemblea (maggioranza qualificata); per le votazioni successive è sufficiente la maggioranza assoluta.
CORRIERE DELLA SERA
MARZIO BREDA
L’ultimo che ha creduto di convincerlo è stato Matteo Renzi, una settimana fa. «Presidente, la prego di rivedere le sue decisioni e di restare più di quanto vorrebbe. Siamo in una fase critica per le riforme e non solo. C’è bisogno di lei, come garanzia per tutti, finché non usciremo dall’emergenza». Questa la richiesta. Ma, anche se il premier aveva vestito le proprie parole con toni insistenti e, anzi, quasi accorati, la risposta non è cambiata: un no secco. Giorgio Napolitano è rimasto irremovibile, dopo che già da qualche tempo ripeteva di voler interrompere presto il secondo mandato al Quirinale.
Si era detto e scritto (anche sul Corriere , in diverse circostanze, benché Napolitano non gradisse «lo sterile gioco» delle supposizioni) che dalla chiusura del semestre italiano di guida dell’Ue, il prossimo 31 dicembre, ogni giorno sarebbe stato plausibile, come data per un congedo anticipato del capo dello Stato. Nessun grande mistero, nessuna vera incognita. Certo, molti tendevano a far slittare nella tarda primavera — ma non oltre il suo novantesimo compleanno, il 29 giugno — l’orizzonte che il presidente era disposto a darsi. Altri, più drasticamente, stringevano i tempi a gennaio, basta pensare a Emanuele Macaluso, che già il 18 marzo scorso aveva profetizzato le dimissioni dell’«amico Giorgio» nel giro di «poco più di sei mesi». Ieri la questione è stata rilanciata per via mediatica, con una perentoria indicazione: Napolitano lascerà il Colle entro fine anno.
Per come si sono messi troppi fattori, è ormai un’ipotesi più che sensata. Infatti, per il presidente il limite di «sostenibilità» di un incarico così gravoso, sia sul piano istituzionale sia su quello personale, sembra ormai sul serio alle soglie di esaurirsi. Forse senza possibilità di ripensamenti, a costo di dover certificare un fallimento — in questo caso del Parlamento — rispetto alla speranza di potersene andare lasciando il Paese più «in ordine» di un anno fa. Sulle sue scelte incombe anzitutto un problema di «sostenibilità» fisica, perché Napolitano è da mesi perseguitato da una serie di disturbi e acciacchi che gli impongono fastidiose terapie e lo fanno dormire poco e male. Tanto da confidare di recente ad Alfredo Reichlin, coetaneo e sodale di una vita: «Non ce la faccio più».
Guai su cui potrebbe forse anche passare sopra, per un altro po’, a un paio di condizioni. Se vedesse che il percorso delle riforme costituzionali, certo non brevissimo, fosse costruttivamente imboccato. E se si riuscisse a varare rapidamente almeno un nuovo sistema elettorale (da realizzare per legge ordinaria, dunque attraverso un itinerario meno problematico), in grado di sostituire il relitto legislativo che resta in piedi dopo la sentenza della Consulta sul famigerato Porcellum. Ma su entrambi questi fronti, che erano fra le precondizioni da lui poste per accettare un reincarico comunque a termine, nonostante i suoi continui richiami la politica è impantanata.
Non solo. Con i due maggiori partiti impegnati in reciproche prove di leadership e con intermittenti fibrillazioni su alleanze fondate solo su calcoli di convenienza, tra la seconda metà di gennaio e febbraio potrebbe accadere di tutto. Anche che il governo dichiari forfait, magari sulla base di qualche nuovo sondaggio, ciò che ucciderebbe la legislatura. E Napolitano, si sa, non vuole firmare uno scioglimento delle Camere che renderebbe l’Italia ingestibile per alcuni mesi, provocando un lungo stallo proprio quando l’Europa si aspetta da noi scelte concrete e convincenti sull’economia. Andandosene prima, il presidente metterebbe quantomeno l’intero sistema dei partiti di fronte alle proprie responsabilità.
Se tale scenario è davvero fondato e se non dovessero intervenire variabili che nessuno azzarda, la procedura potrebbe essere questa. A fine dicembre, durante l’incontro con le alte cariche dello Stato o nel messaggio agli italiani di fine anno, il preannuncio delle imminenti dimissioni. Poi, nel giro di qualche settimana, le dimissioni formali. Da quel momento scatterebbero i 15 giorni previsti per la convocazione delle Camere e la designazione delle deputazioni regionali, prima che i cosiddetti «mille elettori» (ma sono qualcosa di più) comincino a votare per il nuovo inquilino del Quirinale. E scatterebbe pure, anche se le prassi costituzionali non sono univoche, la supplenza da parte della seconda carica dello Stato. Cioè del presidente del Senato, Piero Grasso. Uno schema che impone un’osservazione inquietante: se un lampo non illuminerà i politici, il successore di Napolitano rischierebbe di essere eletto da un Parlamento in articulo mortis.
CLAUDIO TITO SU REPUBBLICA
NAZIONALE - 09 novembre 2014
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POLITICA E ISTITUZIONI
La donna, l’ex premier e un gruppo di outsider i tre dossier di Renzi per la corsa al Colle
Il premier vorrebbe rinviare l’addio di Napolitano ma le grandi manovre per la successione sono partite
CLAUDIO TITO
ROMA .
Quando si apre il Conclave per eleggere il nuovo Papa, nella saletta attigua alla Cappella Sistina viene adagiato il vestito del nuovo Pontefice. Pronto all’uso, appena la fumata diventa bianca. Ma poiché nessuno sa quali saranno i risultati del voto cardinalizio, in realtà la sartoria del Vaticano ne cuce tre di abiti: uno di taglia piccola, uno media e uno grande. Nella liturgia laica per l’elezione del presidente della Repubblica sta accadendo una cosa analoga. Non tre indumenti da indossare per il giuramento, ma tre fisionomie. Tre caratteri distinti che rispondono a tre esigenze diverse. Come spesso accade in questi frangenti, il cuore della “grandi manovre” si trova a Palazzo Chigi. E questa volta ancor di più. Perché Matteo Renzi gioca la sua partita potendo sfruttare il doppio incarico: premier e segretario del principale partito presente in Parlamento.
Molti dicono che in un cassetto della scrivania del capo del governo a Palazzo Chigi ci sia già una cartellina: con tre dossier. Tre potenziali identikit del futuro presidente della Repubblica.
Certo, Renzi in realtà vorrebbe rinviare il fischio d’inizio di questa partita. Continua a sperare di poter convincere Giorgio Napolitano «a resistere nel suo incarico fino al primo maggio».
Una data scelta non a caso. Contiene in se un valore politico ed uno simbolico. Per quel giorno spera che le Camere abbiano già approvato la delicata riforma elettorale, vero spartiacque di questa legislatura: «Ed io vorrei che fosse lui a firmare quella legge ». Il primo maggio, poi, si inaugura ufficialmente l’Expo di Milano che nei progetti di Palazzo Chigi dovrà rappresentare la vetrina per il rilancio internazionale dell’immagine del nostro Paese. Non solo. Il premier negli ultimi mesi ha scoperto in Napolitano una risorsa. Una sponda unica nelle questioni interne e di politica estera cui non vorrebbe rinunciare nel breve periodo.
Eppure le “grandi manovre” per la successione al Colle sono ufficialmente partite. Le intenzioni del capo dello Stato di rassegnare le dimissioni a conclusione del semestre di presidenza italiana dell’Ue hanno infatti già scatenato la “corsa”. Con tanti concorrenti impegnati in una gara ancora piuttosto lunga. Fatta di tanti ostacoli e strappi improvvisi. Di innumerevoli punti interrogativi e variabili imprevedibili. Un politico esperto come Pier Ferdinando Casini, ad esempio, ricorda bene che da sempre «chi entra Papa, esce cardinale». Chi pensa di entrare nell’emiciclo di Montecitorio con i voti in tasca, ne esce con le tasche vuote. A maggior ragione in questo Parlamento che - come ha dimostrato la tragicomica vicenda dell’elezione dei giudici costituzionali - si presenta piuttosto insofferente rispetto alla disciplina di partito e caricato di una dose massiccia di anarchia. La sola maggioranza governativa, dunque, sebbene sulla carta avrebbe i numeri per fare da sola.
In realtà non sarà sufficiente. Troppe le vendette da consumare nei confronti di Renzi. Troppo recente il ricordo dei 101 che fecero fuori nel 2013 prima Franco Marini e poi Romano Prodi.
In quella cartellina tenuta ben nascosta a Palazzo Chigi, allora, si compongono i tre identikit del futuro capo dello Stato. Il titolo del primo inserto è “I leader”. «Tutti i segretari del Pd - ripetono spesso alla presidenza del consiglio - si sentono candidati». Una lista piuttosto lunga da cui però vanno spuntati tutti quelli che per il nuovo corso Dem rappresentano una sorta di “seme del contropotere”. Un potenziale contraltare, se non un vero e proprio avversario della presidenza del consiglio. «Dopo quello che ha fatto, non parlatemi più di D’Alema », aveva detto ad esempio proprio Renzi quando si è conclusa la nomina di Federica Mogherini come Alto rappresentante Ue per la politica estera. Ma in quell’elenco ci sono pure Giuliano Amato, Pierluigi Bersani, Romano Prodi, Walter Veltroni, Piero Fassino, Dario Franceschini.
Sebbene non tutti sullo stesso piano. Veltroni ad esempio si è da tempo ritirato dalla “battaglia politica”, ha rinunciato volontariamente a candidarsi alle ultime elezioni politiche e Renzi non nasconde che il progetto costruito sulla cosiddetta «vocazione maggioritaria » del Pd è stato un suo punto di riferimento. Mentre l’ex premier e ex presidente della Commissione europea potrebbe essere la carta che in extremis Beppe Grillo potrebbe buttare nel campo democratico per far crollare in quel frangente il Patto del Nazareno con Silvio Berlusconi. Del resto proprio il Cavaliere per il momento non ha ancora indossato la divisa per scendere nell’arena che selezionerà il futuro inquilino del Colle. In uno degli ultimi colloqui con il presidente del consiglio, a domanda esplicita e diretta ha risposto con un sorriso e un gesto. Ha messo la mano sulla spalla di Gianni Letta e ha detto: «È questo il mio candidato ». Un modo evidente per sottrarsi al gioco e non offrire indicazioni. Ma la gara prenderà un verso o un altro e i singoli candidati scaleranno la classifica in base alla qualità delle intese. Se intorno al perno-Pd ruoterà la Forza Italia di Berlusconi o il M5S di Grillo.
Poi, quindi, c’è il secondo inserto. Il titolo è “Le donne”. Il segretario democratico ha sempre puntato sulla svolta “rosa”. La lista, in questo caso, però è abbastanza corta: Roberta Pinotti, attuale ministro della Difesa; Anna Finocchiaro, presidente della commissione affari costituzionali del Senato. E qualcuno avrebbe visto di recente un’aggiunta: quella di Marta Cartabia, giudice della Consulta, giurista milanese vicina alle posizioni di Comunione e liberazione. Nel Pd tutti vorrebbero che la scelta cadesse su una di loro. Ma pochi credono che davvero siano candidature in grado di superare le forche caudine dell’assemblea congiunta di Camera e Senato allargata ai rappresentanti delle regioni. Gli oltre mille “grandi elettori” (1008), infatti, rischiano di essere un organismo ingovernabile se non in presenza di un nome capace di garantire un alto numero di votanti. Su di loro, allora, si consumerà sicuramente il primo tentativo del leader democratico. Per poi voltare pagina. Con le modalità che da qualche giorno vengono sinteticamente definite “sistema Gentiloni”. Il nuovo ministro degli esteri tirato fuori dal cilindro renziano dopo aver fatto circolare una ridda di nomi tutti al femminile.
Ed ecco la terza cartellina. Il titolo è gli “Outsider”. In realtà il loro identikit è quello che più si adatta alla linea renziana. Fuori dalla logica del “contropotere”. Figure che allo stato non si mostrano potenzialmente in grado di rappresentare un “contropotere”. Immagini non consumate, per alcuni di loro anche con l’atout della tradizione comunista. E quindi con la possibilità di rivendicare la scelta con il “popolo del Pci” che ancora costituisce la base più larga degli iscritti al Partito democratico. In questa lista diversamente modulabile su un accordo con i grillini o con i forzisti - ricompaiono quindi due ex segretari come Piero Fasssino (ora sindaco di Torino) e Dario Franceschini (ministro per i beni culturali). Lo stesso Gentiloni e poi Sergio Chiamparino (governatore del Piemonte), Antonio Zanda (capogruppo Pd al Senato), Graziano Delrio (sottosegretario alla presidenza del consiglio), Pierluigi Castagnetti (segretario del Ppi quando Renzi esordiva in politica), Pierferdinando Casini (ex presidente della Camera e ora presidente della commissione Esteri del Senato) e Piercarlo Padoan (ministro dell’Economia e con uno standing europeo).
Ma esistono anche due “fuoriquota” che però nell’immaginario del vertice Dem non possono ascendere al momento la scala gerarchica dei candidati. Uno è Piero Grasso, presidente del Senato. Buoni rapporti con Berlusconi e all’inizio della legislatura un’ottima intesa con il M5S di Beppe Grillo.
Il secondo è Mario Draghi, presidente della Bce. Anche se nei giorni scorsi il banchiere centrale confidava al suo staff di «non voler andare al Quirinale: non mi sento tagliato per quel ruolo. Non voglio tagliare nastri e poi devo completare il lavoro a Francoforte ».
Il suo incarico del resto scade il 31 ottobre del 2019. Ma soprattutto Renzi lo vedrebbe come un tentativo di “commissariamento” europeo e di condivisione della leadership. Soprattutto sa che intorno a Draghi potrebbero coagularsi tutti gli “scontenti”, tutti quelli che vogliono vendicarsi. «Ma io - è il ragionamento che spesso fa il premier - posso contare su quasi 400 “grandi elettori”. Forse devo condividere un candidato, ma di certo nessuno può eleggere un presidente della Repubblica senza di me». La “corsa” verso il Quirinale è solo all’inizio. Ma la prima salita è già molto ripida.
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La doppia partita del presidente del Consiglio che è anche segretario Pd La gara si annuncia lunga e non priva di strappi, in un parlamento “anarchico”
LA STAMPA
FABIO MARTINI
Renzi vuole una figura istituzionale
con una maggioranza molto ampia
“Per scegliere il garante supremo sarà bene spegnere i telefonini”
Fabio Martini
Finora la storia ha insegnato ai politici con mire sul Quirinale, che della questione meno si parla e meglio è. E invece Matteo Renzi, pur attenendosi a quell’imperativo categorico, da qualche tempo fa trapelare due concetti. Entrambe molto importanti. Il primo: «Quando arriverà il momento, i nostri parlamentari dovranno resistere alle campagne di comunicazione. Il voto per il capo dello Stato non è un concorso a premi. Per scegliere il garante supremo la prossima volta sarà bene si spengano i telefonini». E il secondo è altrettanto importante: «Il futuro Capo dello Stato dovrà avere un profilo istituzionale». Mentre ieri, alla Variante di valico, Renzi si è limitato ad un elogio anodino: «Napolitano è una garanzia per tutto il Paese».
Certo, è prematuro affermare con certezza che Giorgio Napolitano si dimetterà entro la fine dell’anno, in questo caso dando seguito a quanto disse il 22 luglio («Ho ritenuto necessario garantire la continuità ai vertici dello Stato nella fase del semestre italiano di presidenza europea»), ma è chiaro che il premier ha già cominciato a mettere a fuoco l’identikit del suo candidato ideale. Può sembrare paradossale che Renzi, il premier continuamente online, stigmatizzi l’irruzione di tweet e sms nel “conclave” per il Quirinale, ma il presidente del Consiglio non ha dimenticato la clamorosa bocciatura via etere di Franco Marini, candidato comune di Bersani e Berlusconi al Quirinale nella primavera 2013: in quelle ore una montagna di messaggini indusse diversi parlamentari del Pd a cambiare idea, a non votare più l’ex leader della Cisl.
Un fuoco preventivo, forse perchè Renzi teme che possa essere controverso e “attaccabile” il candidato del Pd condiviso con Berlusconi? Illazione che non viene neppure presa in considerazione a palazzo Chigi, anche se la seconda caratteristica («il nuovo Capo dello Stato abbia un profilo istituzionale») lascia pensare ad un candidato politicamente “leggero”. Naturalmente il profilo del prossimo Presidente della Repubblica sarà determinato dalla maggioranza che lo eleggerà. Sulla carta le forze che sostengono il governo Renzi possono contare su 599 “grandi elettori”, ben 95 sopra il tetto necessario (504), ma i tanti precedenti e l’infelice navigazione dei candidati comuni Pd-Fi alla Consulta dimostra che il voto segreto impedisce ogni previsione: «Dentro la cabina - dice il professor Arturo Parisi - i parlamentari si domanderanno: cosa diranno i nostri elettori? Cosa sarà di me? E quelli di Forza Italia: Berlusconi sta mollando?».
Con una possibile novità: dopo la confluenza dei Cinque Stelle sul candidato Pd alla Consulta, Grillo ripeterà l’operazione nei giorni del Quirinale? Renzi continua a preferire l’asse con Berlusconi, conosce l’imprevedibilità dei capi pentastellati, ma sa già che i “grillini” potrebbero metterlo in difficoltà se fossero disponibili a convergere su un candidato con un forte appeal sull’elettorato progressista. Come Romano Prodi. Nel Palazzo in queste ore si tende a ripetere che Grillo «tornerà a fare lo sfasciacarrozze», ma Rocco Palese, deputato di Forza Italia che quotidianamente ascolta ed è ascoltato dagli avversari e perciò considerato “analista” di tutto ciò che si muove nel Palazzo, dice: «Attenzione a ripetere che torneranno indietro. Quel che è accaduto l’altro giorno rischia di somigliare allo storico autogol della Dc che nel 1992 affondò Forlani, che da presidente avrebbe salvato il sistema. E invece la Lega antisistema si sdoganò e il sistema crollò». Ad ogni schema di gioco corrispondono candidati diversi. Quelli in pole position sull’asse Renzi-Berlusconi sono Roberta Pinotti, Piero Fassino, Sergio Mattarella con una new entry: Linda Lanzillotta. Quanto alla “caratura istituzionale”, il più accreditato è Sabino Cassese. Sono ammessi alla corsa anche gli uomini, perché Renzi annuncia: «La successione non è un problema di genere».
Finora la storia ha insegnato ai politici con mire sul Quirinale, che della questione meno si parla e meglio è. E invece Matteo Renzi, pur attenendosi a quell’imperativo categorico, da qualche tempo fa trapelare due concetti. Entrambe molto importanti. Il primo: «Quando arriverà il momento, i nostri parlamentari dovranno resistere alle campagne di comunicazione. Il voto per il capo dello Stato non è un concorso a premi. Per scegliere il garante supremo la prossima volta sarà bene si spengano i telefonini». E il secondo è altrettanto importante: «Il futuro Capo dello Stato dovrà avere un profilo istituzionale». Mentre ieri, alla Variante di valico, Renzi si è limitato ad un elogio anodino: «Napolitano è una garanzia per tutto il Paese».
Certo, è prematuro affermare con certezza che Giorgio Napolitano si dimetterà entro la fine dell’anno, in questo caso dando seguito a quanto disse il 22 luglio («Ho ritenuto necessario garantire la continuità ai vertici dello Stato nella fase del semestre italiano di presidenza europea»), ma è chiaro che il premier ha già cominciato a mettere a fuoco l’identikit del suo candidato ideale. Può sembrare paradossale che Renzi, il premier continuamente online, stigmatizzi l’irruzione di tweet e sms nel “conclave” per il Quirinale, ma il presidente del Consiglio non ha dimenticato la clamorosa bocciatura via etere di Franco Marini, candidato comune di Bersani e Berlusconi al Quirinale nella primavera 2013: in quelle ore una montagna di messaggini indusse diversi parlamentari del Pd a cambiare idea, a non votare più l’ex leader della Cisl.
Un fuoco preventivo, forse perchè Renzi teme che possa essere controverso e “attaccabile” il candidato del Pd condiviso con Berlusconi? Illazione che non viene neppure presa in considerazione a palazzo Chigi, anche se la seconda caratteristica («il nuovo Capo dello Stato abbia un profilo istituzionale») lascia pensare ad un candidato politicamente “leggero”. Naturalmente il profilo del prossimo Presidente della Repubblica sarà determinato dalla maggioranza che lo eleggerà. Sulla carta le forze che sostengono il governo Renzi possono contare su 599 “grandi elettori”, ben 95 sopra il tetto necessario (504), ma i tanti precedenti e l’infelice navigazione dei candidati comuni Pd-Fi alla Consulta dimostra che il voto segreto impedisce ogni previsione: «Dentro la cabina - dice il professor Arturo Parisi - i parlamentari si domanderanno: cosa diranno i nostri elettori? Cosa sarà di me? E quelli di Forza Italia: Berlusconi sta mollando?».
Con una possibile novità: dopo la confluenza dei Cinque Stelle sul candidato Pd alla Consulta, Grillo ripeterà l’operazione nei giorni del Quirinale? Renzi continua a preferire l’asse con Berlusconi, conosce l’imprevedibilità dei capi pentastellati, ma sa già che i “grillini” potrebbero metterlo in difficoltà se fossero disponibili a convergere su un candidato con un forte appeal sull’elettorato progressista. Come Romano Prodi. Nel Palazzo in queste ore si tende a ripetere che Grillo «tornerà a fare lo sfasciacarrozze», ma Rocco Palese, deputato di Forza Italia che quotidianamente ascolta ed è ascoltato dagli avversari e perciò considerato “analista” di tutto ciò che si muove nel Palazzo, dice: «Attenzione a ripetere che torneranno indietro. Quel che è accaduto l’altro giorno rischia di somigliare allo storico autogol della Dc che nel 1992 affondò Forlani, che da presidente avrebbe salvato il sistema. E invece la Lega antisistema si sdoganò e il sistema crollò». Ad ogni schema di gioco corrispondono candidati diversi. Quelli in pole position sull’asse Renzi-Berlusconi sono Roberta Pinotti, Piero Fassino, Sergio Mattarella con una new entry: Linda Lanzillotta. Quanto alla “caratura istituzionale”, il più accreditato è Sabino Cassese. Sono ammessi alla corsa anche gli uomini, perché Renzi annuncia: «La successione non è un problema di genere».
Finora la storia ha insegnato ai politici con mire sul Quirinale, che della questione meno si parla e meglio è. E invece Matteo Renzi, pur attenendosi a quell’imperativo categorico, da qualche tempo fa trapelare due concetti. Entrambe molto importanti. Il primo: «Quando arriverà il momento, i nostri parlamentari dovranno resistere alle campagne di comunicazione. Il voto per il capo dello Stato non è un concorso a premi. Per scegliere il garante supremo la prossima volta sarà bene si spengano i telefonini». E il secondo è altrettanto importante: «Il futuro Capo dello Stato dovrà avere un profilo istituzionale». Mentre ieri, alla Variante di valico, Renzi si è limitato ad un elogio anodino: «Napolitano è una garanzia per tutto il Paese».
Certo, è prematuro affermare con certezza che Giorgio Napolitano si dimetterà entro la fine dell’anno, in questo caso dando seguito a quanto disse il 22 luglio («Ho ritenuto necessario garantire la continuità ai vertici dello Stato nella fase del semestre italiano di presidenza europea»), ma è chiaro che il premier ha già cominciato a mettere a fuoco l’identikit del suo candidato ideale. Può sembrare paradossale che Renzi, il premier continuamente online, stigmatizzi l’irruzione di tweet e sms nel “conclave” per il Quirinale, ma il presidente del Consiglio non ha dimenticato la clamorosa bocciatura via etere di Franco Marini, candidato comune di Bersani e Berlusconi al Quirinale nella primavera 2013: in quelle ore una montagna di messaggini indusse diversi parlamentari del Pd a cambiare idea, a non votare più l’ex leader della Cisl.
Un fuoco preventivo, forse perchè Renzi teme che possa essere controverso e “attaccabile” il candidato del Pd condiviso con Berlusconi? Illazione che non viene neppure presa in considerazione a palazzo Chigi, anche se la seconda caratteristica («il nuovo Capo dello Stato abbia un profilo istituzionale») lascia pensare ad un candidato politicamente “leggero”. Naturalmente il profilo del prossimo Presidente della Repubblica sarà determinato dalla maggioranza che lo eleggerà. Sulla carta le forze che sostengono il governo Renzi possono contare su 599 “grandi elettori”, ben 95 sopra il tetto necessario (504), ma i tanti precedenti e l’infelice navigazione dei candidati comuni Pd-Fi alla Consulta dimostra che il voto segreto impedisce ogni previsione: «Dentro la cabina - dice il professor Arturo Parisi - i parlamentari si domanderanno: cosa diranno i nostri elettori? Cosa sarà di me? E quelli di Forza Italia: Berlusconi sta mollando?».
Con una possibile novità: dopo la confluenza dei Cinque Stelle sul candidato Pd alla Consulta, Grillo ripeterà l’operazione nei giorni del Quirinale? Renzi continua a preferire l’asse con Berlusconi, conosce l’imprevedibilità dei capi pentastellati, ma sa già che i “grillini” potrebbero metterlo in difficoltà se fossero disponibili a convergere su un candidato con un forte appeal sull’elettorato progressista. Come Romano Prodi. Nel Palazzo in queste ore si tende a ripetere che Grillo «tornerà a fare lo sfasciacarrozze», ma Rocco Palese, deputato di Forza Italia che quotidianamente ascolta ed è ascoltato dagli avversari e perciò considerato “analista” di tutto ciò che si muove nel Palazzo, dice: «Attenzione a ripetere che torneranno indietro. Quel che è accaduto l’altro giorno rischia di somigliare allo storico autogol della Dc che nel 1992 affondò Forlani, che da presidente avrebbe salvato il sistema. E invece la Lega antisistema si sdoganò e il sistema crollò». Ad ogni schema di gioco corrispondono candidati diversi. Quelli in pole position sull’asse Renzi-Berlusconi sono Roberta Pinotti, Piero Fassino, Sergio Mattarella con una new entry: Linda Lanzillotta. Quanto alla “caratura istituzionale”, il più accreditato è Sabino Cassese. Sono ammessi alla corsa anche gli uomini, perché Renzi annuncia: «La successione non è un problema di genere».
Finora la storia ha insegnato ai politici con mire sul Quirinale, che della questione meno si parla e meglio è. E invece Matteo Renzi, pur attenendosi a quell’imperativo categorico, da qualche tempo fa trapelare due concetti. Entrambe molto importanti. Il primo: «Quando arriverà il momento, i nostri parlamentari dovranno resistere alle campagne di comunicazione. Il voto per il capo dello Stato non è un concorso a premi. Per scegliere il garante supremo la prossima volta sarà bene si spengano i telefonini». E il secondo è altrettanto importante: «Il futuro Capo dello Stato dovrà avere un profilo istituzionale». Mentre ieri, alla Variante di valico, Renzi si è limitato ad un elogio anodino: «Napolitano è una garanzia per tutto il Paese».
Certo, è prematuro affermare con certezza che Giorgio Napolitano si dimetterà entro la fine dell’anno, in questo caso dando seguito a quanto disse il 22 luglio («Ho ritenuto necessario garantire la continuità ai vertici dello Stato nella fase del semestre italiano di presidenza europea»), ma è chiaro che il premier ha già cominciato a mettere a fuoco l’identikit del suo candidato ideale. Può sembrare paradossale che Renzi, il premier continuamente online, stigmatizzi l’irruzione di tweet e sms nel “conclave” per il Quirinale, ma il presidente del Consiglio non ha dimenticato la clamorosa bocciatura via etere di Franco Marini, candidato comune di Bersani e Berlusconi al Quirinale nella primavera 2013: in quelle ore una montagna di messaggini indusse diversi parlamentari del Pd a cambiare idea, a non votare più l’ex leader della Cisl.
Un fuoco preventivo, forse perchè Renzi teme che possa essere controverso e “attaccabile” il candidato del Pd condiviso con Berlusconi? Illazione che non viene neppure presa in considerazione a palazzo Chigi, anche se la seconda caratteristica («il nuovo Capo dello Stato abbia un profilo istituzionale») lascia pensare ad un candidato politicamente “leggero”. Naturalmente il profilo del prossimo Presidente della Repubblica sarà determinato dalla maggioranza che lo eleggerà. Sulla carta le forze che sostengono il governo Renzi possono contare su 599 “grandi elettori”, ben 95 sopra il tetto necessario (504), ma i tanti precedenti e l’infelice navigazione dei candidati comuni Pd-Fi alla Consulta dimostra che il voto segreto impedisce ogni previsione: «Dentro la cabina - dice il professor Arturo Parisi - i parlamentari si domanderanno: cosa diranno i nostri elettori? Cosa sarà di me? E quelli di Forza Italia: Berlusconi sta mollando?».
Con una possibile novità: dopo la confluenza dei Cinque Stelle sul candidato Pd alla Consulta, Grillo ripeterà l’operazione nei giorni del Quirinale? Renzi continua a preferire l’asse con Berlusconi, conosce l’imprevedibilità dei capi pentastellati, ma sa già che i “grillini” potrebbero metterlo in difficoltà se fossero disponibili a convergere su un candidato con un forte appeal sull’elettorato progressista. Come Romano Prodi. Nel Palazzo in queste ore si tende a ripetere che Grillo «tornerà a fare lo sfasciacarrozze», ma Rocco Palese, deputato di Forza Italia che quotidianamente ascolta ed è ascoltato dagli avversari e perciò considerato “analista” di tutto ciò che si muove nel Palazzo, dice: «Attenzione a ripetere che torneranno indietro. Quel che è accaduto l’altro giorno rischia di somigliare allo storico autogol della Dc che nel 1992 affondò Forlani, che da presidente avrebbe salvato il sistema. E invece la Lega antisistema si sdoganò e il sistema crollò». Ad ogni schema di gioco corrispondono candidati diversi. Quelli in pole position sull’asse Renzi-Berlusconi sono Roberta Pinotti, Piero Fassino, Sergio Mattarella con una new entry: Linda Lanzillotta. Quanto alla “caratura istituzionale”, il più accreditato è Sabino Cassese. Sono ammessi alla corsa anche gli uomini, perché Renzi annuncia: «La successione non è un problema di genere».
Finora la storia ha insegnato ai politici con mire sul Quirinale, che della questione meno si parla e meglio è. E invece Matteo Renzi, pur attenendosi a quell’imperativo categorico, da qualche tempo fa trapelare due concetti. Entrambe molto importanti. Il primo: «Quando arriverà il momento, i nostri parlamentari dovranno resistere alle campagne di comunicazione. Il voto per il capo dello Stato non è un concorso a premi. Per scegliere il garante supremo la prossima volta sarà bene si spengano i telefonini». E il secondo è altrettanto importante: «Il futuro Capo dello Stato dovrà avere un profilo istituzionale». Mentre ieri, alla Variante di valico, Renzi si è limitato ad un elogio anodino: «Napolitano è una garanzia per tutto il Paese».
Certo, è prematuro affermare con certezza che Giorgio Napolitano si dimetterà entro la fine dell’anno, in questo caso dando seguito a quanto disse il 22 luglio («Ho ritenuto necessario garantire la continuità ai vertici dello Stato nella fase del semestre italiano di presidenza europea»), ma è chiaro che il premier ha già cominciato a mettere a fuoco l’identikit del suo candidato ideale. Può sembrare paradossale che Renzi, il premier continuamente online, stigmatizzi l’irruzione di tweet e sms nel “conclave” per il Quirinale, ma il presidente del Consiglio non ha dimenticato la clamorosa bocciatura via etere di Franco Marini, candidato comune di Bersani e Berlusconi al Quirinale nella primavera 2013: in quelle ore una montagna di messaggini indusse diversi parlamentari del Pd a cambiare idea, a non votare più l’ex leader della Cisl.
Un fuoco preventivo, forse perchè Renzi teme che possa essere controverso e “attaccabile” il candidato del Pd condiviso con Berlusconi? Illazione che non viene neppure presa in considerazione a palazzo Chigi, anche se la seconda caratteristica («il nuovo Capo dello Stato abbia un profilo istituzionale») lascia pensare ad un candidato politicamente “leggero”. Naturalmente il profilo del prossimo Presidente della Repubblica sarà determinato dalla maggioranza che lo eleggerà. Sulla carta le forze che sostengono il governo Renzi possono contare su 599 “grandi elettori”, ben 95 sopra il tetto necessario (504), ma i tanti precedenti e l’infelice navigazione dei candidati comuni Pd-Fi alla Consulta dimostra che il voto segreto impedisce ogni previsione: «Dentro la cabina - dice il professor Arturo Parisi - i parlamentari si domanderanno: cosa diranno i nostri elettori? Cosa sarà di me? E quelli di Forza Italia: Berlusconi sta mollando?».
Con una possibile novità: dopo la confluenza dei Cinque Stelle sul candidato Pd alla Consulta, Grillo ripeterà l’operazione nei giorni del Quirinale? Renzi continua a preferire l’asse con Berlusconi, conosce l’imprevedibilità dei capi pentastellati, ma sa già che i “grillini” potrebbero metterlo in difficoltà se fossero disponibili a convergere su un candidato con un forte appeal sull’elettorato progressista. Come Romano Prodi. Nel Palazzo in queste ore si tende a ripetere che Grillo «tornerà a fare lo sfasciacarrozze», ma Rocco Palese, deputato di Forza Italia che quotidianamente ascolta ed è ascoltato dagli avversari e perciò considerato “analista” di tutto ciò che si muove nel Palazzo, dice: «Attenzione a ripetere che torneranno indietro. Quel che è accaduto l’altro giorno rischia di somigliare allo storico autogol della Dc che nel 1992 affondò Forlani, che da presidente avrebbe salvato il sistema. E invece la Lega antisistema si sdoganò e il sistema crollò». Ad ogni schema di gioco corrispondono candidati diversi. Quelli in pole position sull’asse Renzi-Berlusconi sono Roberta Pinotti, Piero Fassino, Sergio Mattarella con una new entry: Linda Lanzillotta. Quanto alla “caratura istituzionale”, il più accreditato è Sabino Cassese. Sono ammessi alla corsa anche gli uomini, perché Renzi annuncia: «La successione non è un problema di genere».
Finora la storia ha insegnato ai politici con mire sul Quirinale, che della questione meno si parla e meglio è. E invece Matteo Renzi, pur attenendosi a quell’imperativo categorico, da qualche tempo fa trapelare due concetti. Entrambe molto importanti. Il primo: «Quando arriverà il momento, i nostri parlamentari dovranno resistere alle campagne di comunicazione. Il voto per il capo dello Stato non è un concorso a premi. Per scegliere il garante supremo la prossima volta sarà bene si spengano i telefonini». E il secondo è altrettanto importante: «Il futuro Capo dello Stato dovrà avere un profilo istituzionale». Mentre ieri, alla Variante di valico, Renzi si è limitato ad un elogio anodino: «Napolitano è una garanzia per tutto il Paese».
Certo, è prematuro affermare con certezza che Giorgio Napolitano si dimetterà entro la fine dell’anno, in questo caso dando seguito a quanto disse il 22 luglio («Ho ritenuto necessario garantire la continuità ai vertici dello Stato nella fase del semestre italiano di presidenza europea»), ma è chiaro che il premier ha già cominciato a mettere a fuoco l’identikit del suo candidato ideale. Può sembrare paradossale che Renzi, il premier continuamente online, stigmatizzi l’irruzione di tweet e sms nel “conclave” per il Quirinale, ma il presidente del Consiglio non ha dimenticato la clamorosa bocciatura via etere di Franco Marini, candidato comune di Bersani e Berlusconi al Quirinale nella primavera 2013: in quelle ore una montagna di messaggini indusse diversi parlamentari del Pd a cambiare idea, a non votare più l’ex leader della Cisl.
Un fuoco preventivo, forse perchè Renzi teme che possa essere controverso e “attaccabile” il candidato del Pd condiviso con Berlusconi? Illazione che non viene neppure presa in considerazione a palazzo Chigi, anche se la seconda caratteristica («il nuovo Capo dello Stato abbia un profilo istituzionale») lascia pensare ad un candidato politicamente “leggero”. Naturalmente il profilo del prossimo Presidente della Repubblica sarà determinato dalla maggioranza che lo eleggerà. Sulla carta le forze che sostengono il governo Renzi possono contare su 599 “grandi elettori”, ben 95 sopra il tetto necessario (504), ma i tanti precedenti e l’infelice navigazione dei candidati comuni Pd-Fi alla Consulta dimostra che il voto segreto impedisce ogni previsione: «Dentro la cabina - dice il professor Arturo Parisi - i parlamentari si domanderanno: cosa diranno i nostri elettori? Cosa sarà di me? E quelli di Forza Italia: Berlusconi sta mollando?».
Con una possibile novità: dopo la confluenza dei Cinque Stelle sul candidato Pd alla Consulta, Grillo ripeterà l’operazione nei giorni del Quirinale? Renzi continua a preferire l’asse con Berlusconi, conosce l’imprevedibilità dei capi pentastellati, ma sa già che i “grillini” potrebbero metterlo in difficoltà se fossero disponibili a convergere su un candidato con un forte appeal sull’elettorato progressista. Come Romano Prodi. Nel Palazzo in queste ore si tende a ripetere che Grillo «tornerà a fare lo sfasciacarrozze», ma Rocco Palese, deputato di Forza Italia che quotidianamente ascolta ed è ascoltato dagli avversari e perciò considerato “analista” di tutto ciò che si muove nel Palazzo, dice: «Attenzione a ripetere che torneranno indietro. Quel che è accaduto l’altro giorno rischia di somigliare allo storico autogol della Dc che nel 1992 affondò Forlani, che da presidente avrebbe salvato il sistema. E invece la Lega antisistema si sdoganò e il sistema crollò». Ad ogni schema di gioco corrispondono candidati diversi. Quelli in pole position sull’asse Renzi-Berlusconi sono Roberta Pinotti, Piero Fassino, Sergio Mattarella con una new entry: Linda Lanzillotta. Quanto alla “caratura istituzionale”, il più accreditato è Sabino Cassese. Sono ammessi alla corsa anche gli uomini, perché Renzi annuncia: «La successione non è un problema di genere».
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