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 2014  novembre 08 Sabato calendario

PERCHE’ NAPOLITANO LASCERA’ IL QUIRINALE

Con gli amici che vanno a trovarlo o gli parlano al telefono Giorgio Napolitano lascia trasparire in questi giorni un duplice sentimento. Da un lato è soddisfatto per l’energia e la determinazione messe in mostra dal presidente del Consiglio, Renzi. Gli sembra che il dinamismo e la volontà di affrontare i problemi siano i fattori politici di cui il Paese ha bisogno in questa fase drammatica. La legislatura ha bisogno di un motore e Renzi dimostra di possedere il temperamento adatto a incarnare lo spirito dei tempi.
Dall’altro lato il presidente della Repubblica non fa mistero della sua intenzione di concludere in tempi brevi il suo secondo mandato. La data nella sua mente è già ben definita: la fine dell’anno, allo spirare del semestre italiano di presidenza dell’Unione europea. Le ragioni sono legate alla fatica del compito, sempre più estenuante per un uomo che nel prossimo mese di giugno festeggerà i novant’anni.
Napolitano è stanco e ritiene di aver diritto di esserlo. Rispetta gli impegni con puntualità, quelli interni e quelli internazionali, ma sta diradando l’agenda, se si tratta di allontanarsi dal Quirinale. Fra qualche giorno, il 17, sarà all’Università Bocconi per assistere al ricordo di Giovanni Spadolini a vent’anni dalla morte. Poi un paio di appuntamenti europei, di cui uno a Torino, utili a ricordare che il destino italiano si compie in Europa e non altrove. Infine il messaggio di Capodanno agli italiani, l’ultimo dei nove pronunciati a partire dal 31 dicembre 2006.
È un percorso di cui si mormora da tempo nei palazzi della politica romana e adesso c’è anche la certezza che la decisione del presidente è presa. Nel 2015 Napolitano seguirà le vicende italiane dallo studio di Palazzo Giustiniani che è già pronto ad accoglierlo quale presidente emerito. Tuttavia lo stato d’animo del presidente non è quello con cui, fino a qualche mese fa, egli guardava alla conclusione del suo incarico. Aveva sperato a lungo di legare questa scadenza al successo delle riforme istituzionali e della legge elettorale. Soprattutto quest’ultima, che non richiede, come è noto, una revisione della Costituzione, gli è sempre parsa la più adatta a chiudere un’epoca e ad aprirne un’altra: proprio perché, nella condizione del Paese, si tratta di una legge di sistema, destinata a garantire l’assetto generale delle istituzioni.
Dunque una legge sfrondata dagli elementi di incostituzionalità che avevano provocato il naufragio della precedente norma a opera della Consulta. E al tempo stesso un modello in grado di rassicurare l’opinione pubblica circa il fatto che il confronto politico si sviluppa entro argini ben definiti e se possibile tra forze che tendono a riconoscersi l’un l’altra come pienamente legittimate, in grado cioè di scambiarsi i ruoli di governo e opposizione in un quadro di stabilità. In fondo era solo su questa base che Napolitano aveva accettato il secondo mandato. E chi ricorda il discorso d’insediamento davanti alle Camere riunite, il 22 aprile 2013, rammenta anche il tono aspro, quasi sferzante con cui il capo dello Stato appena rieletto aveva richiamato i parlamentari alle loro responsabilità. Era in gioco allora come oggi la corretta funzionalità delle istituzioni e una prospettiva politica capace di rendere salde le radici europee della dialettica interna.
Nel mosaico immaginato da Napolitano c’era molto di più: il riassetto del sistema bicamerale, la riforma della pubblica amministrazione, della giustizia e altro. Ma la nuova legge elettorale appariva quasi un pegno urgente da offrire agli italiani per convincerli che la stagione dell’eterna transizione era davvero alle spalle.
Come chiunque può notare, oggi lo scenario non è quello sperato e Napolitano non nasconde la sua delusione. È chiaro che alla fine dell’anno non avremo la riforma del voto, ma è altrettanto certo che il presidente della Repubblica non aspetterà i tempi dei partiti. Non intende farsi condizionare dai ritardi e della solita pratica del rinvio. Su tale passaggio si mostra molto deciso con i suoi interlocutori. Quindi viene meno il nesso tra riforme e dimissioni. E non ci sarà l’inaugurazione di Expo 2015, come vorrebbe il premier Renzi. L’uscita dal Quirinale sarà il compimento di una missione personale, il cui bilancio sarà dato dalla gran mole di atti compiuti in oltre otto anni e mezzo. Ma se le forze politiche non sono state in grado di dare forma conclusa a un nuovo capitolo della storia repubblicana, il presidente le lascia alle loro responsabilità. Non le asseconderà al solo scopo di coprire lacune e debolezze di un sistema rinnovato solo in piccola parte.
Ora prevalgono le ragioni di salute, per cui ogni giorno trascorso nel palazzo costa un sacrificio di cui non tutti sono consapevoli. Napolitano è sicuro di aver superato in modo brillante la prova più dura sul piano psicologico, la testimonianza davanti ai magistrati e agli avvocati del processo di Palermo. Ma l’intera vicenda, come è noto, lo ha ferito. Ripete spesso due punti che gli stanno a cuore. Primo, non intende trovarsi a gestire una nuova crisi politica e di governo, non se la sente più di reggere gli sforzi fisici e mentali già sopportati nel recente passato. A maggior ragione — ed è il secondo aspetto sottolineato — egli non porterebbe mai il paese a nuove elezioni anticipate. Non ci sarà più uno scioglimento delle Camere da lui firmato. Toccherà eventualmente al successore decidere in merito. E il presidente ritiene che in democrazia il Parlamento deve essere pronto e capace in ogni momento di eleggere un’altra figura al vertice istituzionale.
Questo è il sentiero prefigurato al Quirinale. I partiti hanno quindi poco tempo per affrontare il problema ed evitare che la scelta del successore di Napolitano, di qui a poche settimane, si trasformi in un altro episodio di logoramento istituzionale. Tuttavia il copione non è stato ancora scritto. Non esiste un’ipotesi reale di accordo su un nuovo nome. Ci sono in campo tre soggetti maggiori, il Pd, Forza Italia e i Cinque Stelle. Più altri soggetti minori suscettibili di giocare una loro partita, come i leghisti. Se e come i fili saranno annodati, attraverso quali intese trasparenti o sotterranee, per ora non è dato sapere. Ma tutti sanno che il tempo stringe.