Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2014  novembre 08 Sabato calendario

FERMI E INFELICI, ABBIAMO AVUTO TROPPO

Secondo il rapporto Prosperity Index 2014 l’Italia è al 37° posto, perdendo cinque posizioni rispetto all’anno precedente. Ma l’indice più interessante è quello sulla fiducia nel futuro che ci vede 134esimi. Tuttavia io non credo che l’Italia sia in una situazione molto diversa dagli altri Paesi occidentali. Solo che il nostro Paese, straordinario laboratorio dei fenomeni più importanti dell’ultimo millennio (da noi, a Firenze e nel piacentino, si impose la classe dei mercanti che con la sua filosofia del profitto diede origine, assieme ad altri, complessi, fattori, alla Modernità, qui nacque il fascismo, padre dei totalitarismi di destra europei che, soprattutto nella loro declinazione tedesca, furono un tentativo, contraddittorio, di respingere la Modernità – è il cosiddetto “modernismo reazionario”) è un termometro più sensibile di altri, e più di altri avverte il sensus finis, l’irreversibile decadenza dell’Impero Occidentale.
Che prima ancora che economica è esistenziale. Le grandi ideologie partorite dalla Modernità, il liberalismo, il comunismo, il fascismo hanno fallito. E quando Nietzsche nella seconda metà dell’800 proclama “la morte di Dio”, non fa che constatare, con qualche decennio d’anticipo, che Dio è morto nella coscienza dell’uomo occidentale. Nello stesso tempo l’individualismo illuminista e i processi tecnologici hanno spazzato via ogni senso della comunità e i valori, prepolitici e preideologici, che include : solidarietà, lealtà, onestà.
Cosa resta allora all’uomo occidentale? La prigionia in un meccanismo anonimo che un gruppo musicale, i CCCP, ha sintetizzato nel verso “produci-consuma-crepa”, basato sull’invidia per cui raggiunto un obiettivo bisogna subito inseguirne un altro e poi un altro ancora, senza poter così mai raggiungere un momento di equilibrio, di armonia, di pace. Rovesciando venti secoli di pensiero occidentale e, ora, anche orientale (vedi Cina e India), l’industrial-capitalismo (ma il marxismo non è cosa diversa) col postulato “non è bene accontentarsi di ciò che si ha” ha creato la premessa programmatica dell’infelicità umana, perché “ciò che non si ha” non ha confini. Ma adesso questo meccanismo, basato sulle crescite esponenziali, che esistono in matematica ma non in natura, è arrivato al suo limite. È fermo, come una macchina davanti a un muro.
Ed è quindi vero ciò che scriveva Marcuse nei primi anni 70: “Al di sotto della sua ovvia dinamicità di superficie, questa società è un sistema di vita completamente statico, che si tiene in moto da solo con la sua produttività oppressiva”. Siamo fermi. Nella creatività artistica, in cui pur noi europei fummo grandissimi, nella filmografia (i film più interessanti ci vengono da culture “altre”) e persino nella musica leggera in cui non facciamo che ripetere o scimmiottare motivi degli anni 60, 70, 80.
Questo sensus finis globale si riflette inevitabilmente nelle nostre relazioni personali. Proprio nel momento in cui, liberatici della sessuofobia d’antan, i rapporti fra i sessi dovrebbero essere facilitati, sono diventati invece estremamente difficili. Viviamo in un mondo di solitudini. E l’impressionante fenomeno dei social network ne è una conferma.
Il benessere ci ha fatto male. Ci ha tolto vitalità. Ci farebbe bene uno stage in Iraq o in Afghanistan. E allora forse riusciremmo a ricomporre una gerarchia dei valori, a distinguere ciò che è importante da ciò che non lo è, e a non fare una tragedia se si rompe un frigo.