varie 8/11/2014, 8 novembre 2014
ARTICOLI SUL CASO JUNKER DAI GIORNALI DELL’8/11/2014
IVO CAIZZI, CORRIERE DELLA SERA -
Aumenta l’imbarazzo della Commissione europea, dopo il grande risalto dato da molti importanti quotidiani europei al coinvolgimento del suo presidente da appena una settimana, il lussemburghese europopolare Jean-Claude Juncker, nello scandalo LuxLeaks. Ma l’unica replica sui favoritismi fiscali concessi a centinaia di multinazionali e società straniere, quando era premier del Lussemburgo, è arrivata dal suo portavoce greco Margaritis Schinas, che ha negato il ridimensionamento del numero uno della Commissione in quella che nel gergo politico si definisce «lame duck» (anatra zoppa). «Juncker è completamente impegnato nel lavoro sul piano di investimenti da 300 miliardi — ha precisato Schinas — e nella preparazione del G20 di Brisbane», dove la settimana prossima si discuterà anche di lotta alla grande evasione fiscale.
Il commissario Ue per gli Affari economici e la fiscalità, il francese Pierre Moscovici, all’Ecofin a Bruxelles, ha fatto capire che la Commissione intende eliminare ogni dubbio di possibili conflitti d’interessi dimostrando che «la priorità dei prossimi anni è raggiungere l’armonizzazione fiscale e fare passi avanti nella lotta contro l’elusione e l’evasione delle tasse». Il presidente di turno dell’Ecofin, il ministro Pier Carlo Padoan, ha cercato di ridimensionare il caso rispondendo con un «penso assolutamente di no» alla domanda su eventuali conseguenze per il presidente della Commissione a causa di LuxLeaks.
Un problema immediato pende sul neocommissario per la Concorrenza, la danese Margrethe Vestager, che ha ereditato quattro procedimenti di presunta violazione della normativa sugli aiuti di Stato a causa di favoritismi fiscali concessi a multinazionali (Apple in Irlanda, Starbucks in Olanda, Fiat Finance e Amazon in Lussemburgo). E che ora deve valutare l’estensione alle centinaia di società straniere nel Granducato rivelate con migliaia di pagine di documenti da LuxLeaks (e alle altre migliaia stimate da varie fonti, tra cui moltissime italiane).
Nel frattempo «dov’è Juncker?» ha titolato il quotidiano online EuObserver di Bruxelles sottolineando la sua sparizione dagli eventi ufficiali, dove i giornalisti gli farebbero domande. Schinas l’ha segnalato solo a una celebrazione della poco nota Fondazione Schuman a Lussemburgo, collegata all’europartito Ppe, che è schierato in difesa del suo esponente lussemburghese.
Per capire l’aria che tira per Juncker, però, già questa domiciliazione nel Granducato ha fatto ipotizzare i conseguenti benefici fiscali sul finanziamento dell’attività politica degli europopolari. L’eurodeputato Nicola Danti del Pd ha chiesto una commissione parlamentare d’inchiesta su tutta la vicenda.
Ivo Caizzi
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DAVID CARRETTA, IL MESSAGGERO -
La Commissione europea ha detto ieri di essere disponibile a «fornire tutte le spiegazioni» all’Europarlamento sui LuxLeaks, mentre numerosi governi hanno ribadito il sostegno al suo presidente, Jean Claude Juncker. Ma la sua posizione rischia di complicarsi: secondo un documento interno della Commissione, quando era ancora primo ministro del Lussemburgo, Juncker avrebbe ostacolato l’inchiesta lanciata dall’esecutivo comunitario sugli accordi fiscali riservati (i cosiddetti tax ruling), che hanno consentito a centinaia di multinazionali di eludere in tutta legalità miliardi di euro di tasse in altri paesi. Questo almeno è quanto emerge dal testo delle motivazioni delle indagini lanciate dall’antitrust europeo per presunti aiuti di Stato concessi dal Lussemburgo a Fiat Finance and Trade attraverso un tax ruling.
L’INDAGINE
Negli ultimi mesi del mandato di Juncker nel 2013, il governo lussemburghese aveva rifiutato di fornire ai servizi della Concorrenza della Commissione tutte le informazioni richieste nell’ambito di un’indagine preliminare sugli accordi fiscali riservati. L’ostruzionismo, giustificato dalla «confidenzialità» delle informazioni fiscali e proseguito in parte con il nuovo primo ministro Xavier Bettel, ha costretto la Commissione Barroso a inviare una «ingiunzione di informazione», prima di aprire una procedura di infrazione e minacciare un ricorso davanti alla Corte di giustizia per ottenere un po’ di chiarezza sulle pratiche fiscali opache del Lussemburgo. L’inchiesta sui tax ruling – gli accordi tra l’amministrazione fiscale e le multinazionali – era stata avviata il 19 giugno 2013, quando Juncker era ancora primo ministro del Lussemburgo. In quella data «la Commissione ha inviato alle autorità lussemburghesi una richiesta di informazioni con domande precise sulla prassi di tax ruling in uso nel paese», spiega il documento della Commissione sull’indagine su Fiat Trade and Finance. Il governo Juncker ha reagito con una lettera il 17 luglio 2013, quando «le autorità lussemburghesi hanno risposto in modo generale» e «parzialmente»: il Gran Ducato ha presentato solo «una parte delle informazioni richieste», lamenta la Commissione. Solo il 15 gennaio 2014, dopo la fine del mandato Juncker, il Lussemburgo ha inviato 22 «tax ruling» per il periodo 2010-2013, ma senza indicare le società beneficiarie. Ne è seguito uno scambio epistolare, che ha portato la Commissione a ingiungere in marzo al Lussemburgo di fornire informazioni e ad aprire in maggio una procedura di infrazione, minacciando di portare il caso davanti alla Corte europea di giustizia. Nel frattempo, il Lussemburgo ha fatto ricorso contro l’ingiunzione.
CONFLITTO DI INTERESSI
L’ipotesi del conflitto di interessi per Juncker non è da escludere, visto che il «servizio giuridico» della Commissione, che rappresenta l’esecutivo comunitario davanti alla Corte di giustizia Ue, è sotto la diretta responsabilità del presidente. Fonti della Commissione, inoltre, sottolineano che da quando Juncker ha lasciato il posto di primo ministro «la cooperazione è sostanzialmente migliorata» con le autorità del Gran Ducato. Il nuovo ministro delle Finanze, Pierre Gramegna, ha riformato la struttura dell’organismo che sottoscrive gli accordi con le multinazionali: se nell’era Juncker un solo funzionario, Marius Kohl, firmava i «tax ruling», ora c’è una squadra per valutare le centinaia di pagine di documenti necessari per arrivare a un accordo fiscale preventivo, ha spiegato Gramegna. Secondo alcuni, lo scandalo LuxLeaks ha già avuto un effetto positivo, spingendo la Ue verso un’accelerazione della lotta contro evasione e elusione fiscale.
L’Ecofin di ieri ha promesso un accordo entro dicembre su una direttiva che dovrebbe permettere di «combattere le politiche fiscali aggressive» delle multinazionali, che sfruttano le falle delle legislazioni nazionali per pagare meno tasse, ha spiegato il ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan. Il portavoce della Commissione, ha detto che al G20 in Australia la prossima settimana, Juncker promuoverà una «revisione» dei sistemi fiscali internazionali: «La Ue sarà in prima fila in questi sforzi».
David Carretta
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PAOLO BIONDANI E LEO SISTI -
grattacieli di Milano. I palazzi della Regione Sicilia. Le grandi banche italiane. L’industria statale delle armi. C’è un pezzo d’Italia nelle 28 mila pagine di documenti fiscali lussemburghesi scoperti dall’International Consortium of Investigative Journalists e pubblicati da l’Espresso in esclusiva nazionale.
Sono i patti segreti con il fisco del Granducato. Grazie a questi accordi, chiamati “ruling”, migliaia di investitori e società multinazionali hanno potuto ridurre al minimo le tasse su affari miliardari. I documenti disponibili riguardano solo ruling siglati con la consulenza di Pricewaterhouse Coopers (Pwc): tra i beneficiari vengono citate, in totale, 31 società con basi o interessi in Italia. Un nome su tutti: il colosso immobiliare Hines, che con i capitali raccolti in Lussemburgo ha ridisegnato, tra grattacieli e nuove strade, quattro quartieri di Milano. Hines è guidata in Italia da Manfredi Catella, a lungo finanziato da Salvatore Ligresti, poi uscito di scena causa dissesto.
L’accordo del 2010 riguarda la tassazione delle società-cassaforte lussemburghesi, finanziate con speciali strumenti chiamati “bond ibridi”, simili alle obbligazioni. Il ruling però prevede di considerarli come quote di capitale, rendendo così applicabile un regime di favore, chiamato Pex: nessuna tassa sulle plusvalenze.
In questo e in altri casi, i ruling hanno legalizzato anche un’anomala applicazione di una direttiva europea (chiamata “madre- figlia”), nata per evitare casi di “doppia tassazione”: una società-figlia è esentata dalle imposte, se a pagarle è la società-madre con sede in un altro Stato. Con i bond ibridi, però, spesso il risultato è una “doppia non tassazione”: niente imposte in Italia né in Lussemburgo. Hines Italia, interpellata da l’Espresso, ha dichiarato di «occuparsi solo dei fondi italiani». Mentre il gruppo Catella precisa di «non aver preso parte» ai ruling.
Gli accordi lussemburghesi riguardano anche un affare siglato tra Deutsche Bank e la Regione Sicilia negli anni dell’ex governatore Salvatore Cuffaro, poi condannato. Al centro c’è il fondo Global Opportunities, sotto il cui ombrello è finito un gran numero di palazzi messi in vendita dalla Regione Sicilia, che poi se li riprendeva in affitto pagando canoni milionari. Tra gli investitori compare Prelios, all’epoca controllata da Pirelli. Ora i ruling svelano le imposte sui profitti dell’affare siciliano: le società lussemburghesi pagano appena l’uno per cento.
Il gruppo Pirelli ha precisato che «nessun ruling è mai stato chiesto» da alcuna sua società, per cui «eventuali benefici fiscali» riguarderebbero altri. Nessun commento da Deutsche Bank.
Anche gruppi come Intesa San Paolo, Unicredit, Sella e Banca delle Marche hanno stretto accordi in Lussemburgo tra il 2008 e il 2010. E nei ruling spunta anche Finmeccanica: perfino l’azienda statale ha utilizzato il Granducato per pagare meno tasse. Allo stesso Stato italiano che la controlla.
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ANDREA BONANNI, LA REPUBBLICA -
A meno di una settimana dalla sue entrata in funzione come presidente della Commissione europea, Jean-Claude Juncker è sotto tiro. Una maxi inchiesta condotta da un consorzio di giornalisti investigativi, e pubblicata per l’Italia da L’Espresso, accusa il Lussemburgo di aver stipulato accordi fiscali di vantaggio per 340 grandi aziende consentendo loro di eludere le tasse in altri Paesi. Per la verità non si tratta di una scoperta completamente inedita. La stessa Commissione europea ha già da mesi aperto una inchiesta contro Olanda, Irlanda e, appunto, Lussemburgo mettendo sotto accusa proprio queste intese fiscali preventive che costituirebbero, secondo Bruxelles, un indebito aiuto di Stato. Tra le imprese «agevolate» nel Granducato ci sarebbe, secondo Bruxelles, Fiat Finance and Trade che fornisce servizi finanziari per le filiali del gruppo in Europa.
Juncker non è accusato di aver tratto alcun beneficio personale da questa pratica. Ma evidentemente il fatto che egli sia stato primo ministro lussemburghese dal ‘95 al 2013, lo pone al centro di un caso politico. La critica, implicita, è di aver autorizzato se non favorito pratiche che, per quanto legali, hanno consentito alle grandi multinazionali di pagare meno tasse danneggiando così i bilanci dei Paesi membri. Non è un caso che nel Parlamento europeo i partiti di opposizione, ma anche alcuni esponenti socialisti, abbiano duramente attaccato il nuovo presidente della Commissione.
Il governo lussemburghese ha immediatamente risposto alle accuse sostenendo che le pratiche incriminate sono perfettamente legali sia per la legge lussemburghese, sia per il diritto internazionale, sia per le norme dell’Ocse. Ed ha ricordato che il Lussemburgo non è certo l’unico Paese a concedere un trattamento vantaggioso alle imprese che vi trasferiscono la sede legale. Ma il problema è che il dumping fiscale, praticato per anni da molti governi, sta rapidamente diventando un comportamento moralmente e politicamente inaccettabile in una Europa che stenta a far quadrare i bilanci. E i governi si stanno rapidamente accordando per porvi fine.
Proprio ieri i ministri delle Finanze, che solo poche settimane fa avevano decretato l’abolizione del segreto bancario, hanno fatto passi avanti per approvare la direttiva «madre-figlia», sulla tassazione delle società sussidiarie, che chiude uno dei varchi aperti all’elusione fiscale internazionale. E la nuova commissari alla fiscalità, la danese Margrethe Vestager, ha sostenuto che «le tasse sulle società dovrebbero essere ovunque le stesse»: una affermazione che solo fino a qualche anno fa era considerata pura eresia. Juncker ha ricevuto espressioni di solidarietà dai ministri delle Finanze di Italia, Francia e Germania, anche se tutti si dicono convinti della necessità di accelerare la lotta all’elusione fiscale delle multinazionali. «Spero che Juncker non esca indebolito dalla vicenda. Abbiamo veramente bisogno di una Commissione europea che torni a svolgere quel ruolo politico che ha drammaticamente perso nel decennio Barroso», ha commentato il sottosegretario agli affari europei Sandro Gozi.
Lo stesso presidente della Commissione si è detto «sereno». E ha promesso che non interferirà nell’inchiesta già aperta dalla Commissione già prima delle rivelazioni giornalistiche e che porterà probabilmente alla condanna di Lussemburgo, Olanda e Irlanda. E’ verosimile che Juncker sopravviverà senza danni a quella che il ministro delle finanze tedesco Schauble ha definito «una tempesta mediatica». Ma il tempo del dumping fiscale, in Europa, sta rapidamente finendo.
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STEFANO FELTRI, IL FATTO QUOTIDIANO 8/11/2014 -
A Bruxelles già circola la teoria del complotto: inglesi e tedeschi vogliono colpire Jean Claude Juncker proprio mentre sta lavorando al suo primo atto importante da presidente della Commissione europea, il piano anti-deflazione da 300 miliardi di investimenti. Strumento del complotto sarebbe il consorzio di giornalismo investigativo ICIJ che ha rivelato i 340 accordi tra aziende multinazionali e il Lussemburgo all’epoca guidato da Juncker per pagare meno tasse. Tra i giornali partner di ICIJ (in Italia l’Espresso) quelli che hanno usato le informazioni in modo più aggressivo sono quelli inglesi e tedeschi.
Come tutte le teorie del complotto non è dimostrabile (e comunque ICIJ lavora da anni sul tema dei paradisi fiscali). Ma un dato è sicuro: queste notizie creano parecchi problemi a Juncker, il suo portavoce deve smentire i giornalisti che già lo indicano come un’anatra zoppa: “Non credo che la situazione di Juncker corrisponda alla definizione indicata”. La prossima settimana, su iniziativa del gruppo dei Socialisti e democratici guidato da Gianni Pittella (Pd), il Parlamento europeo discuterà il caso Lussemburgo. Juncker è invitato, se si presenterà finirà sotto processo. Gli argomenti contro di lui sono evidenti, lo erano anche quando è stato individuato prima come candidato dei Popolari e poi come presidente della Commissione nelle elezioni europee di maggio: Juncker ha guidato il Lussemburgo dal 1995 al 2013, ma è stato al governo fin dal 1982, quando a 27 anni era ministro del Lavoro. Gli accordi al centro dello scandalo sono stati tutti avallati dal suo governo: sono i cosiddetti tax ruling, quando cioè un’azienda ottiene l’approvazione dell’autorità fiscale del Paese il proprio schema tributario. Il Lussemburgo ha sempre avallato basi imponibili minimali, permettendo a grandi gruppi come Ikea, Amazon, Procter & Gamble e banche (incluse Intesa e Unicredit) di risparmiare miliardi di tasse. La prova è nei numeri: secondo i dati Ocse, nel 2013 il Lussemburgo ha ricevuto “investimenti diretti esteri” per 2.280 miliardi di dollari, ma soltanto 122 sono andati all’economia reale. Il resto, è chiaro, non erano investimenti ma soldi portati nel Granducato per sottrarli al fisco dei Paesi in cui erano stati prodotti e quindi dove andavano tassati. Nell’Unione europea la fiscalità è rimasta in capo agli Stati nazionali: la guerra delle aliquote è lecita, Olanda, Irlanda e Gran Bretagna, oltre al Lussemburgo, si arricchiscono offrendo basse imposte alle imprese che spostano entro i loro confini le proprie sedi legali e profitti.
Se il trattamento fiscale viene però accordato come privilegio a una singola azienda per attirarla può risultare equivalente a un aiuto di Stato (far pagare meno tasse è come regalare soldi a danno dei concorrenti).
La Commissione europea sta indagando sull’Irlanda per il trattamento di Apple, sull’Olanda per gli accordi con Starbucks e con il Lussemburgo per una controllata di Fiat, Fiat Finance. Il Granducato è l’unico dei Paesi sotto esame che non sta collaborando pienamente. Toccherà alla Commissione Juncker gestire il caso, nessuna regola interna prevede che ci possa essere un problema se un funzionario della Commissione si trova a giudicare i provvedimenti che ha adottato quando era attivo nella politica nazionale. Juncker ha rimbalzato le accuse di essere simbolo di una vecchia Europa e di avere problemi di alcolismo, arrivati dalla stampa inglese e tedesca a ridosso della nomina. Questa volta non può negare l’evidenza. Di cui tutti erano consapevoli, ma ora la rilevanza delle scelte di Juncker nei prossimi mesi rende lecito ogni attacco: il piano che deve mettere in circolo 300 miliardi di euro, usando la Banca europea degli investimenti, capitali privati e garanzie pubbliche, trova molte resistenze a Berlino.
La Germania è preoccupata anche del documento sulla flessibilità nei vincoli di bilancio che Juncker vuole presentare a dicembre (per la gioia di Matteo Renzi) e Angela Merkel sta esercitando tutto il suo potere di lobbying per condizionare in senso protezionistico i negoziati sul trattato di libero scambio con gli Stati Uniti (TTIP). In Gran Bretagna, David Cameron invece tifa per la massima apertura commerciale agli Usa mentre cerca di sottrarre consensi ai populisti di Nigel Farage attaccando Bruxelles sui contributi al bilancio europeo versati da Londra. In mezzo c’è Juncker, odiato da Cameron e poco amato dalla Merkel. La sua flemma lussemburghese questa volta sarà messa a dura prova.
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BEDA ROMANO, IL SOLE 24 ORE -
È ancora presto per capire se lo scandalo fiscale di cui è protagonista il Lussemburgo, e che sta minando la credibilità del suo ex premier Jean-Claude Juncker, modificherà le politiche dell’Unione. Ieri, però, i Ventotto hanno mostrato sul tema nuova sensibilità. La presidenza italiana dell’Unione e la Commissione europea hanno sottolineato l’urgenza di una maggiore armonizzazione fiscale e si sono dette fiduciose su una prossima intesa per meglio regolare il rapporto tra casa madre e filiale.
Il portavoce della Commissione Margaritis Schinas ha dovuto rispondere nuovamente a non poche domande sulle responsabilità di Juncker, l’attuale presidente dell’esecutivo comunitario ed ex premier lussemburghese tra il 1995 e il 2013, dopo che questa settimana una inchiesta giornalistica ha rivelato che negli ultimi dieci anni le autorità del Granducato hanno concesso accordi fiscali tanto generosi quanto controversi a oltre 300 imprese multinazionali (si veda Il Sole/24 Ore di ieri).
Schinas ha respinto l’ipotesi che il nuovo presidente della Commissione, in carica da appena una settimana, sia già "una anatra zoppa". Ha poi confermato che Bruxelles ha tra le sue priorità la lotta contro l’evasione fiscale e l’elusione fiscale, citando il discorso di investitura dello stesso Juncker in luglio. La Commissione ha aperto indagini contro tre paesi - Irlanda, Lussemburgo e Olanda - per aiuti di stato illegittimi a una serie di imprese a cui sono stati concessi generosi accordi fiscali.
Proprio a Bruxelles ieri il ministro delle Finanze irlandese Michael Noonan ha affermato: «I miei consiglieri legali mi dicono che le autorità irlandesi vinceranno la partita piuttosto facilmente e che la posizione della Commissione non è forte». A Dublino si rimprovera di avere concesso surrettizi aiuti di Stato ad Apple. La campagna stampa di questi giorni sta colpendo la credibilità di Juncker, ma potrebbe anche avere un impatto positivo sulle politiche comunitarie in campo fiscale e tributario.
Sempre ieri durante una riunione dei ministri delle Finanze, il tedesco Wolfgang Schäuble ha avuto posizioni particolarmente argomentate. Se nell’Unione europea «non acceleriamo» su regole che evitino elusione e evasione fiscale, ha spiegato, «distruggeremo il consenso pubblico attorno all’integrazione europea». Ha poi aggiunto: «La gente pensa che non sia giusto e sostenibile un sistema in cui alcuni si sottraggono alle tasse, usando o abusando delle regole».
Schäuble ha anche messo l’accento sugli «effetti nefasti dell’arbitraggio regolamentare, sui mercati finanziari o in campo fiscale». I ministri delle Finanze hanno discusso ieri qui a Bruxelles di varie questioni fiscali, senza trovare accordi definitivi, ma facendo passi avanti sulla proposta per meglio regolamentare i rapporti tra casa madre e filiale, in modo da evitare che aziende possano trasferire denaro tra entità diverse da un Paese all’altro pur di pagare meno imposte.
«Siamo vicini a un accordo che potremmo trovare in dicembre – ha detto il ministro dell’Economia italiano Pier Carlo Padoan, presidente di turno dell’Ecofin -. Tutti i Paesi sono d’accordo. Alcuni stati membri devono chiedere formale benestare al loro Parlamento nazionale». Ha aggiunto il commissario agli affari monetari Pierre Moscovici: «Non c’è tempo da perdere nella lotta contro l’evasione fiscale, l’elusione fiscale e la pianificazione aggressiva nel settore della tassazione».
Nei mesi scorsi, il Lussemburgo, l’Olanda e altri Paesi hanno frenato l’adozione di questa proposta in un campo che richiede l’unanimità. Moscovici ha detto ieri di avere notato cambiamenti di tono. Gli 11 Paesi (tra cui l’Italia) che hanno deciso di adottare una tassa sulle transazioni finanziarie sono tornati sul tema controverso. In discussione sono sempre le attività da tassare e l’aliquota da applicare. C’è la promessa di trovare un’intesa entro fine anno; quanto realistica è incerto.
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ADRIANA CERRETELLI, IL SOLE 24 ORE -
Anche il giorno dopo, il «Lux-leaks» resta quello che è, una pericolosa bomba a orologeria che minaccia la Commissione guidata da pochi giorni da Jean-Claude Juncker.
Una vicenda che, soprattutto, potrebbe scatenare l’ennesima crisi in un’Europa che finora si è già ampiamente dimostrata incapace di risolvere quelle, troppe, che ha e si trascina dietro irrisolte da troppo tempo. Per questo ieri a Bruxelles si sono messi all’opera gli artificieri. Nel corso dell’Ecofin i ministri finanziari hanno moltiplicato i segnali mirati a trasformare un potenziale gioco al massacro di Juncker non nella sua difesa incondizionata ma in una sorta di salvataggio programmato. O almeno questo sembra.
Nessun ministro, nemmeno il presidente di turno Piercarlo Padoan, in una riunione chiamata tra l’altro a discutere di tassazione delle società europee e di come evitare in futuro evasione, frodi ed elusione, ha ritenuto di attaccare il neo-presidente della Commissione Ue. Al contrario. Il francese Pierre Moscovici, oggi responsabile a Bruxelles del Fisco oltre che delle Politiche economiche e finanziarie europee, ha annunciato prossime proposte per l’armonizzazione della normativa Ue «in pieno accordo con il presidente Juncker». E ha ricordato che della questione si discuterà settimana prossima anche al vertice del G-20 a Brisbane. Parallelamente il tedesco Wolfgang Schauble ha annunciato investimenti per 10 miliardi a sostegno della crescita: un’implicita apertura di credito al piano Ue da 300 miliardi in tre anni proposto da Juncker in luglio e in arrivo in dicembre sul tavolo dei 28 capi di Governo dell’Unione. Fino a ieri era stato proprio Schauble il grande oppositore dell’iniziativa, nella convinzione che solo rigore e riforme siano i mattoni di una crescita sana e duratura. Naturalmente è il rallentamento dell’economia in Germania a consigliargli la correzione di rotta. Però in questo momento l’annuncio rappresenta un assist indiretto al presidente della Commissione in difficoltà. Nemmeno il presidente dell’Europarlamento, il socialista Martin Schulz, noto castigamatti di evasione, corruzione e economie nere nell’Unione, ha del resto mobilitato l’artiglieria pesante. Tutt’altro. Allora scampato pericolo? Troppo presto per dirlo. Però sembra accertato che, in un momento di profonda crisi economica e politica dell’Europa, i suoi Governi tutto desiderino fuorché aprire un nuovo fronte tellurico. D’altra parte i regimi fiscali compiacenti per le società oggi non solo sono legali ma non sono affatto appannaggio esclusivo del Lussemburgo. Anche Irlanda e Olanda sono nel mirino della stessa inchiesta europea, che si limita ad appurare l’esistenza o meno di aiuti di Stato distorsivi della concorrenza. Nemmeno Gran Bretagna e Belgio, Malta e Cipro risultano senza peccato. Per questo, a meno che emergano nuovi elementi al momento ignoti, la "criminalizzazione" solitaria di Juncker potrebbe rivelarsi una scelta-boomerang per molti. Meglio allora affrontare la vicenda guardando al futuro invece che al passato e al presente, puntando sull’armonizzazione della fiscalità in Europa. L’impresa finora è stata impossibile, perché ogni decisione in questo caso va presa a 28 e all’unanimità. Ma i tempi cambiano, i bilanci nazionali piangono, i capitali fuggono e i cittadini non possono oltre un certo limite sostenere con le loro tasse il peso dell’«ottimizzazione» fiscale per le imprese. Comunque finirà, la Commissione Juncker che si voleva un interlocutore forte dei Governi, l’antitesi di quella guidata da Josè Barroso, un ponte verso cittadini europei sempre più scettici e incattiviti verso le politiche Ue, rischia però di perdere la sua scommessa ancora prima di aver avuto il tempo di lanciarla.