Enrico Mannucci, Sette 7/11/2014, 7 novembre 2014
UN BISCOTTO CHE VALE 157 MILIONI DI EURO
Balocco, ovvero dell’importanza di avere un buon rapporto con i dipendenti. O, almeno, di esser ben conosciuti da loro. Se ciò non fosse stato, forse la ditta di Fossano non esisterebbe perché, un giorno qualunque del 1944, il fondatore sarebbe finito ammazzato sul greto dello Stura.
Ma, per arrivare all’epilogo che non fu, bisogna tornare indietro. Lui si chiamava Francesco Antonio Balocco, classe 1903, uno dei dodici figli di un bottegaio di Narzole. I dolci erano nel suo destino visto che, giovanissimo, aveva cominciato a portar qualche soldo in famiglia andando garzone da pasticciere, prima a Bra poi a Torino. Francesco Antonio, però, voleva mettersi in proprio e, ventiquattrenne, si era sistemato a Fossano – una delle “sette sorelle” della provincia di Cuneo, nel sud del Piemonte, su un poggio accanto al fiume Stura – aprendo il suo negozio e il suo laboratorio (casa e bottega: al secondo piano aveva l’abitazione).
Il settore era il solito: torte, biscotti, sfoglie, frolle ma anche qualche liquore come il rabarbaro o la china. Nel giro di un paio d’anni, però, era arrivata la grande crisi economica del ’29. Francesco Antonio non era tipo da mezze misure. Da poco aveva sposato Lucia Cussino. Lei veniva da Genola (tanto per ribadire la vocazione dolciaria, era la sorella di quel Pietro che, molti anni dopo, avrebbe rilevato la Venchi reduce da un disastroso fallimento). In famiglia fu drastico: «O si fallisce o si raddoppia». Così aprì una nuova pasticceria, in via Roma, pieno centro della cittadina. Era anche rimasto vedovo quasi subito, perché Lucia era scomparsa nel 1930 dando alla luce Aldo, e le asprezze della vita l’avrebbero segnato profondamente. Non gli cambiarono, comunque, il carattere. Che era assolutamente anticonformista, indipendente, quasi anarchico. «Per esempio, detestava i fumatori quando tutti vivevano con la sigaretta in bocca. E non portava il Borsalino che era quasi un’uniforme del signore con una certa posizione», ricorda Alberto, il nipote quarantottenne oggi alla guida dell’azienda.
La fuga nella cascina di Einaudi. Logico che tanto spirito iconoclasta lo mettesse in urto con le “camicie nere” della Brigata Muti che avevano preso posizione nella zona dopo l’8 settembre 1943. Sono zone dove la guerra civile è aspra. E anche l’occupazione tedesca. Qualunque occasione può essere motivo di tensione. La storiografia locale ricorda l’episodio di una partita di calcio organizzata fra soldati cechi della Wermacht e la squadra di Fossano. Il problema è che sui manifesti viene annunciata come “Cecoslovacchia-Fossano”, quando la sola parola “Cecoslovacchia” all’epoca innesca la più aspra reazione tedesca.
È in questo clima che la buona disposizione di una commessa salverà la pelle a Balocco. Perché i repubblichini, un giorno, decidono di averne abbastanza di un tipo così ribelle. Un paio di loro si presentano in negozio, lo ammanettano e lo portano via. Per non farlo riconoscere, gli calcano in testa un berretto. Il gruppo si avvia verso la valle dello Stura. Già diverse persone sono finite male da quelle parti. E per Balocco pare che si prepari un destino simile. Solo che, per strada, incrociano una commessa del negozio di via Roma: «Cerea, monsù Balocc, indua lo portu?», chiede lei che ha anche evidentemente riconosciuto i due minacciosi accompagnatori. I quali, a questo punto, si mettono in agitazione, non se la sentono di procedere con l’esecuzione, si contentano di portare Francesco Antonio al carcere di Cuneo. Dove la salvezza si completa grazie a due dei suoi fratelli, che trovano il modo di farlo scarcerare. L’unica soddisfazione, per i fascisti, sarà a questo punto devastare le due pasticcerie, il laboratorio e la casa, organizzando un selvaggio falò in piazza Castello.
Uscito di prigione, Francesco Antonio recupera il figlio che aveva trovato rifugio a Genola, dalle sorelle della madre. E con lui si nasconde in una fattoria di Dogliani, nella tenuta del futuro primo presidente della repubblica italiana, Luigi Einaudi, che è, praticamente, una zona “liberata”, nel senso che è sotto controllo dei partigiani (e Aldo ricorderà sempre con gran nostalgia questa curiosa vacanza dove non manca neanche il tempo di andare per tartufi).
Finita la guerra, Francesco Antonio non perde tempo e rimette in piedi la pasticceria. Il figlio Aldo arriva presto a dargli una mano (nel 1950) anche perché gli impegni si moltiplicano: è stato comprato un terreno in via San Bernardo e lì si avvia la costruzione di un vero e proprio stabilimento. Il laboratorio non basta più, è il salto verso la dimensione industriale a produrre panettoni ma anche un vasto assortimento di biscotti al latte. In contemporanea, la Balocco comincia ad affacciarsi fuori dai confini regionali. Non manca qualche tensione fra padre e figlio: Francesco Antonio ha un carattere forte, e Aldo, attivissimo in molti settori, fa non poca fatica ad andarci d’accordo.
Dopo aver sposato, nel 1961, Anna Ferrero, gli nascono due eredi, Alessandra e Alberto: «Papà da piccoli ci portava in azienda. E spesso dava l’impressione di sentirsi troppo solo», ricorda il secondo.
Nel 1967 un nuovo passo importante. Dai 5.000 metri quadri di via San Bernardo si passa ai 70.000 di un nuovo stabilimento, sempre a Fossano ma in via Santa Lucia. Gli affari vanno bene, col panettone mandorlato come prodotto bandiera. Tanto bene che sulla Balocco mettono gli occhi le multinazionali del settore. Alla fine degli Anni 70 cominciano le avances. La più pressante è la Nabisco. Aldo interpella i figli e non nasconde la tentazione di vendere: esplicita la sensazione di solitudine, i suoi colleghi hanno tutti almeno un paio di fratelli…
«Nell’ottimismo dell’adolescente, io ero contrario. Gli dissi che se non mi dava la possibilità di misurarmi con l’impegno di guidare un’azienda avrei fatto la figura del figlio buono a nulla», rammenta oggi Alberto. «E lui mi diede retta. Tenne duro. Anche se furono davvero anni di piombo, per tanti versi, anche perché la salute di mio padre non era troppo buona». Aldo accetta anche la seconda scommessa del figlio, una specie di contratto perché Alberto vuole entrare in ditta da laureato: «Gli garantii che ce l’avrei fatta in quattro anni, servizio militare incluso, non un giorno di più. E così è andata. Tre anni a Torino, uno al Battaglione allievi CC, sempre a studiare…».
Così, il primo dicembre 1989, Alberto entra alla Balocco con un contratto di formazione lavoro. Lo stesso giorno entra anche Alessandra (oggi sono, rispettivamente, amministratore delegato e direttore marketing) che poi sposa Ruggero Costamagna: «Un fratello per me. Anche lui in Balocco dal 1993», dice Alberto, il quale, l’anno successivo, sposa Susy Pinto, che oggi segue le attività immobiliari della famiglia.
Il passaggio di consegne arriva con la fine del secolo e dopo quella che si potrebbe chiamare una “mutazione genetica”. Ovvero lo spostamento del cuore aziendale dal panettone mandorlato ai prodotti per la prima colazione: «È un momento di socializzazione come la festa. Ma molti nel settore giudicarono la nostra una scommessa troppo rischiosa: andavamo a scontrarci con dei colossi industriali», ricorda Alberto.
È stata dura, nel 2006, i nipoti si sono trovati davanti a un dilemma simile a quello di Francesco Antonio nel 1929. Hanno dato la stessa risposta. E oggi guardano orgogliosi una classifica che li vede secondi (con 157 milioni di fatturato annuo) nel settore dei biscotti frollini.
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