Giovanni Vigo, Sette 7/11/2014, 7 novembre 2014
I PAPERONI D’AMERICA SI SPARTISCONO IL 24 PER CENTO DEL REDDITO
Nel suo celebre Manuale di economia politica pubblicato alla fine dell’Ottocento Vilfredo Pareto scrisse che la «storia della società umana è... la storia dell’avvicendarsi di aristocrazie». L’economista dell’Università di Losanna fondava la sua affermazione sull’analisi della distribuzione del reddito calcolata a partire dai dati fiscali di una decina di città e nazioni europee alle soglie del Novecento. Esaminando questo limitato campione si convinse di aver scoperto la “legge ferrea” della distribuzione del reddito, come nel 1861 Ferdinand Lassalle credeva di aver scoperto la “legge bronzea” dei salari. Per nostra fortuna entrambi avevano torto: le loro “leggi” si applicavano a un segmento della storia e non erano certo valide per sempre.
Dai tempi di Pareto la disuguaglianza ha preso, fino a qualche decennio fa, una strada diversa e le aristocrazie dei redditi hanno perso terreno. Negli anni Cinquanta era iniziata quella che più tardi sarebbe stata definita, con molti rimpianti, l’età d’oro dell’economia mondiale. La torta cresceva anno dopo anno e ciascuno si ritagliava una fetta più grande. Non solo. Nei decenni in cui la frazione dei redditi più elevati stazionò sul livello più basso, era mutato anche il rapporto fra rendite (ivi comprese quelle finanziarie) e redditi da lavoro. Come ha osservato Thomas Piketty, gli shock subiti fra il 1914 e il 1945 dai detentori di patrimoni – guerre, inflazione, crisi – assottigliarono sensibilmente le rendite trasformando la nostra società in una «società di quadri nella quale i redditi elevati erano percepiti da persone che vivevano soprattutto del loro lavoro, e non da persone che ricavavano le loro entrate dai capitali accumulati nel passato». Le premesse per una riduzione duratura della disuguaglianza sembravano ormai poste perché il lavoro avrebbe dovuto premiare il merito e la ricostituzione dei vecchi patrimoni si presentava come un’impresa ardua se non impossibile. Invece si trattò di una felice parentesi che durò non più di tre decenni.
In Italia le cose cambiano nel 1990. Tra il 1970 e il 1980 – e in alcuni Paesi anche prima – la riduzione della disuguaglianza subì un brusco arresto e incominciò il cammino inverso. In Germania il punto di svolta si registrò negli anni Sessanta con un lieve incremento fino al 1980 quando il decile più ricco intascava il 32 per cento del reddito totale, per salire poi al 36 per cento nel 2010. La crescita francese fu più moderata: fra il 1980 e il 2010 aumentò di un paio di punti raggiungendo il 33 per cento. La ripresa della disuguaglianza fu invece più accentuata in Svezia che partiva però da un livello singolarmente basso: il reddito che nel 1980 finiva nelle tasche del decile più ricco era il 23 per cento, mentre trent’anni dopo toccava il 28 per cento, in ogni caso un livello inferiore a quello degli altri Paesi europei. In Italia la ripresa della disuguaglianza potrebbe essere iniziata più tardi, a partire dal 1990, come testimonia la curva dei redditi percepiti dal quinto più ricco della popolazione.
L’Inghilterra che fra l’inizio del secolo e il 1970 aveva ridotto la disuguaglianza più degli altri Paesi europei e degli Stati Uniti, mostrò una repentina inversione di tendenza con il governo della signora Thatcher proseguita, sia pure più blandamente, anche in seguito. Dal 29 per cento del 1970 i redditi incassati dal 10 per cento più ricco della popolazione salirono al 41 per cento nel 2010. Sull’altra sponda dell’Atlantico si registrò un balzo ancora più significativo. Secondo un recente studio di Emmanuel Saez, fra il 1971 e il 2012 il decile più ricco dei cittadini americani ha visto crescere la sua quota di reddito dal 31,75 al 50,4 per cento. Un’ascesa che colloca gli Stati Uniti al vertice della disuguaglianza dei Paesi sviluppati e che ha notevolmente ampliato il divario fra Europa e Usa.
L’esplosione della disuguaglianza accompagnata dal dilagare della povertà ha focalizzato l’attenzione sui top incomes, i redditi vertiginosamente elevati dell’1 per cento dei cittadini. Negli Stati Uniti, alla vigilia del crollo di Wall Street, l’1 per cento degli americani intascava quasi il 20 per cento del reddito, quota che superava il 24 per cento se si considerano anche i capital gains costituiti soprattutto dai guadagni borsistici. Poi scesero precipitosamente all’8-10 per cento fino al 1985 per balzare di nuovo intorno al 20 per cento nel 2010, con picchi intermedi particolarmente elevati negli anni dei boom speculativi quando si avvicinarono al 24 per cento. Balzo che si spiega facilmente se è vero, come afferma Joseph Stiglitz, che tra il 2009 e il 2010 il 93 per cento dei guadagni della ripresa è finito nelle tasche dell’1 per cento più ricco della popolazione.
Il fenomeno è stato particolarmente accentuato nei Paesi anglosassoni mentre nell’Europa continentale la concentrazione del reddito in poche o pochissime mani è decisamente più moderata. Anche dopo la risalita degli ultimi tempi l’1 per cento degli abitanti di questi Paesi intasca una quota oscillante fra il 7 per cento della Svezia e il 12 per cento della Germania. Ancora più impressionanti sono i numeri riguardanti lo 0,1 per cento della popolazione (1 abitante su 1000). Negli Stati Uniti raccolgono il 7,5 per cento del reddito, in Gran Bretagna poco meno del 6 per cento, di fronte al 4 per cento della Germania, il 2 per cento della Svezia e a un 3 per cento scarso di Francia e Giappone.
Da quando Stefan Zweig scriveva Il mondo di ieri, il mondo nel quale era vissuto, la realtà è profondamente cambiata. Ma di fronte a queste ineguaglianze che nulla hanno a che fare con il merito, vien da domandarsi se non siano ancora attuali le sue parole: in un «periodo di crescente prosperità, in cui… lo Stato non carpiva che una minima percentuale di tasse anche sui redditi più elevati e in cui i titoli statali e industriali fruttavano alti interessi, diventare sempre più ricco mettendo da parte i propri guadagni non esigeva dal possidente che una condotta passiva». L’attuale aristocrazia dei redditi non ha certo una condotta passiva, ma non è forse lecito chiedersi quanto il suo attivismo giovi al progresso della società?
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