Riccardo Staglianò, il Venerdì 7/11/2014, 7 novembre 2014
IL QUOTIDIANO FRANCESE ONLINE CHE GUADAGNA CONTRO OGNI REGOLA
FERRARA. Per l’ortodossia digitale corrente Mediapart resta un mistero. È un giornale online, ma con sole tre edizioni quotidiane (alle nove, all’una, alle diciannove). È un sito di enorme successo dove gattini contorsionisti e attrici in negligé («se mischiati a cose serie rendono schizofrenici i lettori») non possono entrare, mentre un’articolessa di 416 righe del direttore è stata condivisa e commentata migliaia di volte. È una fabbrica di scoop fatti di bit, contro la vulgata che confina il web alle notizie battenti lasciando scavo e approfondimento esclusivamente alla carta. Se tutto ciò non fosse già abbastanza controintuitivo, è soprattutto un’impresa in attivo in un settore (l’editoria) e in un momento (la crisi infinita) in cui quest’eventualità viene considerata meno probabile della collisione di un asteroide con la Terra. A proposito di metafore astronomiche, viene in mente una recensione antipatizzante del filosofo Alain Finkielkraut («Leggerlo ti va venire voglia di trasferirti su un altro Pianeta») che ha scomunicato la loro rivelazione dello scandalo Bettencourt, a proposito di finanziamenti segreti a Sarkozy, come l’opera di un’odiosa «Stasi internettiana».
L’intellettuale non è l’unico critico verso il fenomeno unico al mondo di una testata che, senza corrispettivo cartaceo, e riuscita in sei anni a convincere centomila persone ad abbonarsi. Pagando novanta euro l’anno. «Centotremila oggi» puntualizza il fondatore Edwy Plenel, un quarto di secolo trascorso a Le Monde, che ha diretto per otto anni sino al 2004, facendo registrare lo storico sorpasso su Le Figaro, «ovvero, al netto delle copie omaggio, più di quelle che vende Liberation e metà di quelle di Le Monde». Riguardo a Finkielkraut, all’epoca rispose con ironia («Un altro Pianeta? Ho sempre pensato che non avesse i piedi per Terra») e nei giorni scorsi, durante la festa per lo straordinario traguardo raggiunto, ha mandato in loop l’accusa insieme a profezie fuori bersaglio, come quella di Alain Minc («Un giornale a pagamento su internet? Non potrà mai funzionare»). Come volevasi dimostrare.
Plenel, una gioventù trotskista mai rinnegata e un baffo ancora nerissimo a sessantadue anni, non sembra aver problemi nel maneggiare pratiche rivoluzionarie. Ma dal suo punto di vista lui è rimasto fermo e sono gli altri a essersi convertiti a un’ideologia fallace («falsa idea di modernità»), ovvero quella della gratuità per una delle merci più preziose in una democrazia. «Noi stiamo solo facendo del giornalismo tradizionale: pezzi lunghi, seri, su materie rilevanti. Ma lo facciamo tenendo conto del nuovo ecosistema digitale. Il che significa smarcarsi il più possibile da ciò che è già noto perché uscito in tv, radio e su internet. E, quando non è possibile ignorarlo, bisogna comunque aggiungere del valore a quelle notizie arricchendole di una spiegazione, un livello di lettura supplementare, dei link pertinenti, un contesto insomma».
Quella del contesto come missione ultima del giornalismo al tempo del web era la parola chiave invocata quasi venti anni fa da Walter Bender, direttore del Media Lab del Mit. Per fare i conti sul serio con la piattaforma digitale, Plenel e soci hanno previsto sin dall’inizio, accanto il journal a pagamento (esiste anche un’offerta di prova a un euro per sei settimane, che nove lettori su dieci estendono), un blog aperto dove gli abbonati possono scrivere e discutere. «Non sembra una novità, ma lo è nell’approccio» spiega su un tavolinetto lastricato di resti di tartine del Festival di Internazionale, che l’ha invitato qui a Ferrara, «i commenti dei lettori di Le Monde sono moderati da un’assistenza clienti delocalizzata in Marocco, mentre qui c’è un vero dialogo con noi. Cittadini, non semplici clienti».
Sarà la mistica che al termine citoyen i francesi ascrivono, ma l’argomento suona meno retorico di quel che succederebbe ad altre latitudini. Perché Plenel, forte del successo della sua creatura, non si accontenta di registrare il truismo per cui è meglio avere i soldi sicuri degli abbonati che quelli incerti dei banner. Ne critica l’effetto contaminante: «La pubblicità si basa sui grandi numeri e spinge inesorabilmente verso il basso la qualità per raggiungere l’audience più ampia. Noi, che abbiamo scelto di non averne, rispondiamo solo ai nostri lettori, senza compromessi». Una scelta che ha pagato, se hanno chiuso il 2013 con un utile del 15 per cento («Un risultato degno dei migliori hedge fund» ironizza lui, che non li ha particolarmente in simpatia). E ha avuto un effetto rivitalizzante sul morale dei redattori. «Ricordo i musi lunghi degli ultimi tempi a Le Monde, registro l’umore penitenziale di tanti colleghi oggi. Sapere invece che ci comprano solo per la qualità di quello che scriviamo ha rimesso in circolo energie dimenticate tra i nostri 33 giornalisti assunti allo stesso stipendio che prendevano nelle testate di provenienza. E ci assicura un’indipendenza totale nei confronti del potere».
Per completezza, i detrattori accusarono Mediapart di essere troppo vicino alla candidata socialista Ségolène Royal (per tacere di un pesante contenzioso fiscale per aver deciso, nonostante la legge, che i giornali online dovevano godere delle stesse aliquote Iva di quelli cartacei). Plenel ci ride su. Ha la sua storia, la rivendica, ma non ci sta a passare da braccio armato di chicchessia. Quanto ai finanziamenti iniziali, ci ha messo 500 mila euro di suo, così come altri fondatori più qualche investitore esterno: «Era un azzardo ma, comunque fosse andata, sapevamo di poter andare avanti almeno tre anni pagando gli stipendi a tutti». Un calcolo semplice, evidentemente alieno a certe meno cartesiane avventure editoriali nostrane abortite dopo tre mesi.
La verità inaggirabile è che il giornalismo di qualità, online come su carta, costa. Quello investigativo è la varietà più cara e Mediapart, oltre all’affaire Bettencourt, ha svelato quello del ministro Jérôme Cahuzac che teneva i soldi in Svizzera e dei fondi di Gheddafi per Sarkozy. Plenel non vede altra via che farsi pagare, come si è sempre fatto pre-internet. L’indomani Martin Baron, direttore del Washington Post, in un dibattito a Festival non apprezzerà tanta sicumera: «Noi non ci facciamo pagare, ma abbiamo 40 milioni di lettori unici al mese. E continuiamo a vincere i Pulitzer con le inchieste». Sì, ma è lo stesso giornale che Jeff Bezos, fondatore di Amazon, ha appena rilevato per 250 milioni di dollari, una frazione di ciò che valeva un tempo. E il Guardian? «Fa uno straordinario giornalismo, ma perde 30 milioni di sterline all’anno». Per quanto triste, è un altro fatto. Si può, come il giovane dottorando Hegel, concludere che «se i fatti e la teoria non vanno d’accordo, tanto peggio per i fatti». Oppure, a costo di passare per eretici, riconsiderare l’ortodossia.