Antonio Gnoli, il Venerdì 7/11/2014, 7 novembre 2014
DUE UOMINI PER UN’ALICE DELLE MERAVIGLIE
BOLOGNA. Più che semplici cantautori mi sembrano due animali letterari le cui storie pescano a man bassa nella vita. Hanno pubblicato da poco un paio di libri interessanti. Nel caso di Ligabue Generazione Liga (curato da Emanuela Papini, Einaudi, pp. 160, euro 15); mentre Francesco De Gregori è uscito con Guarda che non sono io (a cura di Alessandro Arianti e Silvia Viglietti, ed. svpress, pp. 240, euro 29,50). Il primo raccoglie una serie di testimonianze di persone che raccontano con trasporto, sincerità, a volte coraggio, il loro rapporto con il mondo musicale di Ligabue. L’altro è una biografia per immagini, un percorso romantico e professionale, attraversato da storie e personaggi che De Gregori ha vissuto e incrociato in quarant’anni di carriera. Incontro De Gregori e Ligabue in una saletta di un albergo centrale di Bologna. Insieme hanno cantato Alice, l’effetto mi è parso notevole e il pezzo è nel nuovo disco di De Gregori Vivavoce, in uscita il 10 novembre.
Quando vi siete conosciuti?
De Gregori: «Una dozzina di anni fa. Ero a cena con degli amici in attesa di iniziare il concerto. A sorpresa apparve Luciano».
Ligabue: «Quella sera cantavi al Vox di Nonatola».
De Gregori: «È vero. Ho l’immagine di una specie di balera. Aspettavo che si facessero le dieci. Sei venuto a salutarmi e, improvvisamente, i miei amici mi hanno guardato sotto un’altra luce».
Ligabue: «Ma dai non scherzare! Ricordo che hai tirato fuori il foglio con la scaletta. Mi hai chiesto: La donna cannone la canto o no? Falla, per favore, falla, ti ho risposto. Ho ancora presente l’effetto che quella canzone, per voce e piano, ebbe su di me e sul pubblico, quella sera».
De Gregori: «È una canzone toccata dalla grazia. Non sono tante quelle che vengono così bene».
A parte l’ispirazione e il momento, cosa rende una canzone particolarmente riuscita?
Ligabue: «Per me è importante partire dalla complessità del mondo per arrivare a una forma di semplificazione, o meglio di semplicità».
Complessità è una parola che può spaventare.
Ligabue: «È la vita che è complessa. Ho 54 anni. Con le mie brave esperienze fatte di traumi, frustrazioni, successi. Non parlo di una complessità mentale o concettuale. Quando scrivo parlo della mia storia».
De Gregori: «Anch’io non potrei che partire dalla mia vita. Senza tuttavia fare dell’autobiografia spicciola. Non almeno in termini didascalici».
Entrambi siete convinti che il vissuto di un artista sia fondamentale?
Ligabue: «Non puoi prescinderne. Senti e traduci una forma che speri coinvolga chi ti sta ascoltando».
Le piace la parola coinvolgimento?
De Gregori: «La trovo necessaria, quasi per qualunque cosa si faccia».
Il coinvolgimento, nelle sue canzoni, non esclude un certo grado di complessità.
De Gregori: «È un’accusa di ermetismo?»
Quella che a volte la critica le ha rivolto.
De Gregori: «Penso che si possa amare visceralmente una canzone, o qualunque altra opera, senza che sia necessariamente comprensibile. Quanti milioni di persone si sono lasciati coinvolgere da Lili Marlene o da Imagine senza conoscere il testo nelle rispettive lingue? Non ci si pone davanti a una canzone, a un film, a un quadro come per risolvere un’equazione. L’emotività viene prima dell’estetica».
Insomma non c’è niente da capire!
De Gregori: «Alice scatenò il tormentone sull’incomprensibilità di certe mie canzoni, quel verso fu una mia piccola rivincita».
È il 1973 quando Alice guarda i gatti/e i gatti muoiono nel sole.... Diciamo la verità: fu un’operazione sul testo sorprendente.
Ligabue: «Fu una risposta, non so quanto involontaria, a chi riduceva la canzone a puro impegno politico. Allora avevo 13 anni. Ho passato l’adolescenza a orecchiare i jukebox».
De Gregori: «II tuo mondo era lì, o cercavi altre fantasie?».
Ligabue: «Tutto il mio mondo era lì. A Correggio. Dove tutt’ora vivo. Quando ascoltai Alice mi sembrò un’altra cosa rispetto alle canzoni di quel periodo. La metrica era ancora rispettata, ma le immagini volavano imprendibili. I nessi mi sembravano enigmatici. È difficile spiegare cosa affascina: c’è il nuovo e c’è una voce. Non dimentichiamolo: la voce di chi canta fa una differenza boia».
De Gregori: «Una canzone di solito dura tre o quattro minuti. Non richiede troppe mediazioni. Magari è complessa per un giro particolare di accordi o per la voglia di raccontare con immagini molto particolari. Però deve arrivare in modo diretto».
Ligabue: «All’epoca non capivo tanto bene il senso di certe canzoni. Ma devi prenderti la libertà di interpretarle. Non c’è niente da capire, ma libertà di interpretare, sì. Fu l’effetto che su di me ebbe Alice».
Come è nata la decisione di cantarla in duetto?
De Gregori: «Ho chiamato Luciano e gli ho chiesto se voleva farla con me».
Ligabue: «Mi sono sentito onorato».
De Gregori: «Mi pare una reazione eccessiva. Secondo me ti sei divertito a prendere un pezzo che ascoltavi da giovane per vedere cosa ne restava».
Ligabue: «Ma io ero onorato!».
De Gregori: «Sì, sì, capisco. È come se Gino Paoli mi chiedesse di cantare Sapore di sale. Mi sentirei onorato anch’io. Non lo so. Per me conta il fatto che confrontarsi con un altro artista apre possibilità inesplorate».
Una collaborazione in tal senso fu quella con Lucio Dalla.
De Gregori: «Certo, ma anche con Ivano Fossati e altri».
Però Dalla diventò un evento inaspettato.
De Gregori: «Lucio non faceva calcoli ed era musicalmente curioso».
Cosa è stata per voi la sua morte improvvisa?
De Gregori: «È scontato parlare di perdita. La sua vitalità fisica e mentale è stata qualcosa di unico».
Ligabue: «Se ripenso alla vostra collaborazione, ai due tour che avete fatto insieme, avverto qualcosa di magico».
Cosa vuol dire magico?
Ligabue: «Era impressionante, nonostante fossero due cantautori diversi, con repertori diversi, e intenzioni di partenza diverse, la naturalezza con cui si scambiavano le canzoni. Vi ascoltai da sotto il palco nell’ultimo tour. Fu un divertimento e un’emozione».
De Gregori: «Lucio sul palco era l’istrione, l’uomo di spettacolo. Io interpretavo la parte del timido. Quasi al limite dell’imbarazzo. La cosa piacque al pubblico. Il successo fu enorme e ci colse un po’ di sorpresa».
Ligabue: «Non ho mai avuto rapporti professionali con Dalla. La prima volta che gli ho parlato avvenne in modo curioso. Era appena uscito Certe notti e una sera la trasmisero per radio. Un momento dopo Lucio mi chiamò: “Ciao, sono Lucio Dalla. Volevo solo dirti che con quella canzone venderai 700 mila copie”. E riattaccò».
Buffo.
De Gregori: «Era molto generoso. Se una cosa poi gli piaceva poteva dirtelo anche in modo bizzarro».
Ligabue: «Ricordo che un momento importante fu per me l’uscita del suo ultimo album della trilogia, che aveva dentro Futura. Stavo vivendo un anno di merda come artigliere a Belluno. Quando tornavo a casa in licenza, sulla mia Opel Kadett mettevo spesso il nastro delle canzoni di Lucio. Un giorno glielo dissi. Gli confessai quanto quel disco fosse stato emotivamente importante per me».
E lui?
Ligabue: «”Sai”, mi ha risposto, “in ogni periodo della vita c’è una forma di energia che ti fa produrre una cosa piuttosto che un’altra”. Ho molto riflettuto su quella frase. E su come certe immagini hanno bisogno di un’energia particolare».
A proposito di immagini, entrambi vi siete serviti del calcio per raccontare qualcosa di voi e del modo in cui si deve e si può stare al mondo.
De Gregori: «Il gioco del pallone si presta a essere una buona metafora della vita. In quell’immagine, del giocatore che non si giudica da un calcio di rigore, ci sono le paure dell’adolescente di sbagliare. Ma c’è anche qualcuno che deve dirgli che non è da quel gesto che si misurerà il successo o l’insuccesso della sua vita. Quanto alla canzone di Luciano, Una vita da mediano, penso fosse un modo per sfuggire ai facili eroismi».
Ligabue: «È vero, ho sempre avuto qualche problemi con gli eroi. Ma penso anche che quella canzone mi sia scappata di mano e che fu perfino un po’ sbagliata. Venivo da un momento in cui ero stato colto di sorpresa da un successo improvviso».
Successo legato a cosa?
Ligabue: «All’album Buon compleanno Elvis. Mi trovai a vivere una situazione che non conoscevo. Che avevo inseguito a lungo ma senza saperlo. E da buon catto-comunista, qual ero, mi sono ritrovato ad affrontare il successo con il senso di colpa. Una vita da mediano fa il modo per giustificarlo. Come dire? Perdonatemi, però almeno sappiate che sgobbo tanto e corro in mezzo al campo».
Però raccontare la figura del mediano era mettere al centro un pezzo d’Italia di cui nessuno parla.
Ligabue: «Non c’è dubbio che questo contribuì al successo della canzone. Ma in fondo, dentro di me, speravo che qualcuno mi dicesse: tu non sei un mediano, sei un fantasista».
Lei, De Gregori, agli inizi come ha vissuto il successo?
De Gregori: «È talmente lontano che quasi non me lo ricordo. Certamente non l’ho vissuto con il senso di colpa di Luciano. Erano gli anni in cui una certa cultura politica spingevia a minimizzare il successo. Mi sentivo felice per quello che facevo per il gradimento, prima di nicchia e poi di un pubblico sempre più vasto».
Si accennava ai facili eroismi da evitare. Ci sono ancora eroi?
Ligabue: «Ci saranno. Ma l’epica televisiva e dei media li trasforma in mostri. Gli eroi diventano facilmente eroi di latta».
O magari come Bufalo Bill personaggi da circo.
De Gregori: «A un certo punto tutto va ricondotto alla dimensione umana. Anche la sconfitta. A me capita spesso di raccontare storie di sconfitte e di vinti. Nel caso di Bufalo Bill fu un modo per immaginare quanto è facile finire prigionieri della propria cartolina, del proprio mito».
Pensate mai che le cose finiscono, che possono finire?
De Gregori: «Tantissimo».
Con quale stato d’animo?
De Gregori: «Di profonda tristezza. Non riesco a fare pace con questa idea».
Ligabue: «Io non ci voglio pensare. Fin dall’inizio ho messo in preventivo che le cose non possono non finire. Ma non voglio immaginare quando succederà. Lo affronterò solo in quel momento».
Avete raccontato anche l’Italia con due canzoni di grande successo. C’è una differenza tra la vostra Italia e quella di oggi?
De Gregori: «Beh, Viva l’Italia è del 1979. Anche se è nata dall’ispirazione di quel momento, scritta sul declinare degli anni del terrorismo e del Paese che si ribellava alla violenza, è una canzone che la gente continua ad amare».
Una canzone, in qualche modo, patriottica?
De Gregori: «Non avrei timore di usare la parola patria. È l’appartenenza a un’identità che non abbiamo del tutto perso. E che dovrebbe seguire la continuità tra ieri e oggi».
Ligabue: «Buonanotte all’Italia, viene molto dopo. Parla della bellezza, di cui non abbiamo nessun merito, di questo Paese. Una bellezza assediata e minacciala dall’arbitrio e dall’abuso di potere. La mia e quella di Francesco sono canzoni diverse, ma anche molto sentimentali. Fedeli a uno stato d’animo, a un’indignazione e a un amore che le ha rese necessarie».
L’indignazione è mai diventata rabbia?
Ligabue: «Ho spesso cercato di trattenerla. Sbagliando. Mi dicevo: la gente è già di per sé incazzata non c’è bisogno di insistere. Poi l’ho tirata fuori. Il sale della terra è una canzone piena di rabbia. Parla di quello che vedo e sento».
De Gregori: «Più che la rabbia ho spesso cantato l’epica del diseredato e dello sconfitto».
Sono temi di sinistra, almeno così un tempo si diceva.
De Gregori: «La sinistra dovrebbe difendere i deboli. Non era così una volta?».
In una delle ultime delle testimonianze di Generazione Liga colpiva il forte richiamo al tema del dolore.
Ligabue: «Si, il giorno del dolore che uno ha fu scritta per un amico che non c’era più. Mi chiedo se ci sono dolori inesprimibili, che non puoi affrontare e ti obbligano a fermarti sulla soglia».
E che risposta si dà?
Ligabue: «Parlarne provoca un effetto terapeutico. Di solito il dolore ci rende soli. Condividere il dolore con qualcun altro attraverso una canzone può aiutare a comprendere e a sopportare meglio quella solitudine. Una canzone è utile. Mi piace questo aggettivo. Anche se molti lo considerano poco nobile».
De Gregori: «Per me è molto difficile raccontare il dolore. Ho sempre la paura di scadere nella commozione, nel dolorismo come usa dire. È molto più facile raccontare l’amore e l’indignazione. Di fronte al dolore vero preferisco tacere».
Antonio Gnoli