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 2014  novembre 07 Venerdì calendario

SCONTRO FINALE


Altro che arzilli vecchietti. Nella tempesta che in queste settimane si è scatenata sulle banche italiane, una coppia di ottuagenari ha fornito all’intero sistema l’unico centro di gravità riconosciuto da banchieri e osservatori. Il primo è Giovanni Bazoli, classe 1932, presidente di Intesa Sanpaolo e nume tutelare della finanza cattolica; il secondo Giuseppe Guzzetti, di un anno e mezzo più giovane, avvocato con un passato nella Dc e da tempo numero uno della Fondazione Cariplo, che di Intesa è grande azionista. Da Bazoli è andato a bussare il governatore della Banca d’Italia, Ignazio Visco, nel tentativo (respinto) di trovare un acquirente per il Monte dei Paschi di Siena, uno dei due istituti bocciati dalla Banca centrale europea (Bce) nel suo primo atto da autorità di vigilanza del sistema bancario dell’eurozona. A Guzzetti, che presiede anche la lobby delle fondazioni, l’Acri, si deve invece un duro lavoro per non far scomparire gli enti che rappresenta dagli assetti proprietari delle banche italiane. È vero, gli ha chiesto “l’Espresso” lunedì 3 novembre in un’occasione pubblica, che siete stati voi a fare da registi all’ingresso dei soci brasiliani e messicani nel Monte dei Paschi, al fianco della Fondazione Mps? «Abbiamo fatto bene, no?», ha risposto Guzzetti, confermando con una battuta un ruolo che fonti vicine ai fatti gli hanno attribuito fin da subito.
A definire Bazoli un «arzillo vecchietto» era stato qualche anno fa l’imprenditore Diego Della Valle, che addebitava ai giochi di potere del banchiere il dissesto nei conti della casa editrice Rcs. Da allora lo scontro fra i due si è arricchito di nuovi attacchi, e c’è stato un momento in cui gli amici temevano che Bazoli volesse uscire di scena, lasciando la guida di Intesa prima della scadenza del mandato, a inizio 2016. Ora questa possibilità pare rientrata, e con essa i timori di un terremoto al vertice della banca italiana uscita meglio dall’esame europeo, grazie a una dotazione patrimoniale che supera di 12,7 miliardi la soglia indicata dalla Bce.
In un sistema creditizio come quello italiano, che oltre alla grana Monte Paschi deve risolvere quella di Carige - l’altra banca bocciata da Francoforte - la stabilità al vertice di Intesa rappresenta un valore non indifferente. La forza del gruppo milanese permette al socio Guzzetti di apparire più credibile nel ruolo di regista delle fondazioni e di operare perché gli assetti di controllo degli istituti italiani, in una fase così delicata, non vengano sconvolti. «Guzzetti ha sempre ottimi suggerimenti», ha detto il 30 ottobre scorso il neo presidente della Fondazione Mps, Marcello Clarich, con il quale nei giorni precedenti non erano mancati degli screzi. A stretto giro di posta la banca senese ha fatto trapelare i primi dettagli della propria risposta alla Bce, che si baserà su un ingente aumento di capitale. La fondazione di Clarich ci metterà 50 milioni, mentre i soci stranieri che Guzzetti ha contribuito a portare a Siena, la brasiliana Btg Pactual e la messicana Fintech, faranno la loro parte.
Si capirà solo nelle prossime settimane se, nel caso del Monte Paschi, quest’impegno basterà, permettendo alla banca di resistere a scalate avventurose o a take over ostili. A ben vedere, però, la battaglia che i due «vecchietti» stanno combattendo, va molto al di là della sorte della banca senese o di Carige. Perché sia in Intesa che in Unicredit, l’altro colosso italiano, il peso dei soci stranieri rispetto alle fondazioni originarie è diventato sempre più importante. Ed è difficile immaginare che l’ancien régime delle fondazioni possa continuare a dettare legge. Anche perché, tra un anno e mezzo al massimo, Bazoli lascerà; e Guzzetti, il cui incarico in Cariplo come presidente della Commissione Centrale di Beneficenza scadrà nel 2019, secondo alcuni osservatori potrebbe abdicare in anticipo. Persino tra gli amici, infatti, non mancano le critiche ad alcune mosse che Bazoli e soprattutto Guzzetti hanno compiuto in questi ultimi mesi. Ed è forte la sensazione che i due stiano cercando di puntellare un sistema di controllo costruito negli anni, nel timore che venga travolto subito dopo la loro uscita di scena.
L’ultimo esempio di come le cose non funzionino più a dovere viene da una provincia del sistema banche-fondazioni, il fondo d’investimento F2i. Nei mesi scorsi i soci, tra i quali figurano Intesa, Unicredit, una pattuglia di fondazioni capitanate da Cariplo e la Cassa Depositi e Prestiti (o Cdp, a sua volta partecipata dalle fondazioni), si erano trovate di fronte all’incombenza di trovare un sostituto del fondatore di F2i, il manager di lungo corso Vito Gamberale, giunto ai settant’anni di età.
Del compito era stato investito Federico Ghizzoni, numero uno di Unicredit, che dopo una scrematura dei candidati aveva trovato un punto d’equilibrio fra quelli graditi ai vari soci. Per la presidenza era stato indicato Vittorio Terzi, partner della società di consulenza McKinsey, per la poltrona di amministratore delegato Renato Ravanelli, manager della compagnia elettrica bresciano-milanese A2A. Se il primo era un nome difficile da contestare, sul secondo - considerato vicino a Guzzetti e al capo di Cdp, Giovanni Gorno Tempini, a sua volta proveniente da ambienti bazoliani - le critiche non sono mancate. Anche perché negli anni della direzione Ravanelli, l’A2A sul fronte delle acquisizioni - il core business di F2i - aveva fatto uno scivolone, comprando una compagnia elettrica in Montenegro che si è rivelata fonte di parecchi guai. Al momento delle nomine, tuttavia, la frittata: Terzi si è tirato indietro, perché gli sono state rifiutate le deleghe che gli avrebbero permesso di incidere sulla gestione, mentre Ravanelli si è regolarmente insediato nel nuovo posto. Se l’ala guzzettiana può cantare vittoria, il prezzo della dimostrazione di forza rischia di essere elevato. Perché Ghizzoni, se i risultati di F2i non saranno all’altezza delle attese che lui dice di attendersi da tutte le partecipate, avrà un motivo per uscire dal fondo. Una possibilità che, per le strategie di Guzzetti, sarebbe un duro colpo, visto che il presidente dell’Acri considera F2i e gli altri fondi sponsorizzati dalla Cdp una specie di braccio operativo per espandere l’azione delle fondazioni.
Nei prossimi mesi, però, il vero rischio è la revisione dei meccanismi di governo di tutte le grandi banche chiesta dalla Banca d’Italia, che vuole imporre una riduzione delle poltrone negli organi amministrativi. Al di là dello sfoltimento, l’obiettivo è garantire la rappresentanza di tutti gli azionisti e rafforzare l’autonomia dei manager, allentando le pressioni politiche che, attraverso le fondazioni, gravano sui banchieri. Intesa è uno dei casi più spinosi, perché a moltiplicare le poltrone eccellenti fino al numero di 29 concorre il doppio consiglio, di sorveglianza (presieduto da Bazoli) e di gestione (affidato all’amministratore delegato Carlo Messina). Bazoli ha già messo le mani avanti, aprendo solo a piccole modifiche: «Il sistema duale funziona, anche se è perfettibile», ha detto. Allo stesso tempo, però, già qualche mese fa aveva ammesso che il mondo delle fondazioni padrone assolute è svanito. E che è necessaria una «transizione ordinata» verso un sistema di controllo delle banche in cui trovino spazio «investitori istituzionali di alta qualità». Concetto ribadito il 4 novembre: «Nel mondo attuale non devono più esistere steccati», ha commentato sul possibile ingresso di soci stranieri nel Monte Paschi.
La nuova strategia è, in effetti, accogliere soci internazionali che si comportino da alleati, non da nemici. Il fondo americano Blackrock ha già da tempo superato il 5 per cento di Intesa, diventando il secondo azionista dietro la Compagnia di San Paolo. Al Monte Paschi i soci latino-americani hanno stretto relazioni con l’establishment italiano: Fintech ha comprato da Telecom Italia una partecipazione in Telecom Argentina, mentre Btg Pactual si è aggiudicata la Banca della Svizzera Italiana, venduta dal gruppo Generali. E ancora: in Unicredit il fondo sovrano di Abu Dhabi, quello libico e la stessa Blackrock pesano ormai più delle fondazioni azioniste.
Per cristallizzare gli equilibri, le fondazioni hanno ora un nuovo strumento, la riforma varata dal parlamento che permette ai soci stabili di aumentare i loro diritti di voto rispetto agli altri azionisti. È certo che molte fondazioni ci stanno pensando ma anche che, per farlo, dovranno strappare il consenso degli stranieri: «Si farà se sarà nell’interesse di tutti», ha detto Ghizzoni parlando di Unicredit. Il tema si porrà anche per Intesa, dove le fondazioni sono al momento più forti ma potrebbero sfruttare l’occasione del voto multiplo per restare inattaccabili. Dall’esito di questa partita si vedrà chi, prima o poi, verrà indicato da Bazoli e da Guzzetti come successore per i rispettivi incarichi. I papabili sono vari. Per Bazoli, c’è il banchiere prodiano Massimo Tononi, oltre che un fidato professore della Cattolica, Franco Dalla Sega, consigliere dell’Apsa, l’organismo che si occupa di gestire il patrimonio del Vaticano. Per Guzzetti la più gettonata è la vice, Mariella Enoc, imprenditrice novarese che fra i tanti incarichi ha ricoperto quello di procuratore dello storico Cottolengo di Torino. Perché una cosa appare chiara: i due vecchietti della finanza bianca questa battaglia non sono disposti a perderla.