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 2014  novembre 07 Venerdì calendario

L’IMPORTANZA DI ESSERE HORNBY


Ne è passato di tempo, ventidue anni per l’esattezza, da quando uscì nelle librerie inglesi un divertente romanzo autobiografico che raccontava la tragicomica vita di un tifoso dell’Arsenal. Il suo autore portava il nome di Nick Hornby e nel frattempo è diventato uno scrittore di successo, snocciolando romanzi di culto come “Alta Fedeltà” e “Un ragazzo” e curando rubriche su giornali e riviste su entrambe le sponde dell’Atlantico. Anche il cinema lo adora e dopo aver portato sul grande schermo quasi tutte le sue opere, dall’esordio (due volte) fino al recente “Non buttiamoci giù”, questo inglese del Surrey è adesso anche un ricercato sceneggiatore per Hollywood, con una nomination all’Oscar già nel curriculum per “An Education” e una seconda che potrebbe arrivare a breve per “Wild”, possibile candidato anche a una seconda statuetta per la protagonista Reese Witherspoon.
Tratto dal romanzo autobiografico di Cheryl Strayed, “Wild” racconta l’incredibile avventura di una donna in crisi che per ritrovare se stessa percorre millecento miglia sui sentieri della Pacific Crest Trail, dal confine messicano fino a quello canadese. Girato da Jean-Marc Vallée, “Wild” è stato scelto come film di chiusura del Torino Film Festival il 29 novembre e uscirà nei cinema italiani il 19 febbraio.
Ma la notizia anche più importante è l’uscita del nuovo romanzo di Hornby, “Funny Girl”: uscito in questi giorni nelle librerie inglesi, il romanzo arriverà il 20 anche in quelle italiane, edito da Guanda come tutti i precedenti. Ambientato negli anni della Swingin’ London, “Funny Girl “narra le peripezie di Sophie Straw, star di una popolare sit-com con un passato da reginetta di bellezza che vuole far dimenticare e l’aspirazione di seguire le orme del suo idolo, la star televisiva degli anni Cinquanta Lucille Ball. Intorno a Sophie ruota il microcosmo dello show, con autori, regista e attori che presto iniziano a confondere le loro vite con la finzione televisiva.
Di “Funny Girl” e di molto altro abbiamo parlato con Hornby nella sua città durante l’ultimo London Film Festival, in occasione della presentazione proprio di “Wild”, film che lo scrittore sostiene con passione. Non quanto l’Arsenal, ma d’altronde ci sono delle priorità nella vita.
Mr. Hornby, lei non ama scrivere le sceneggiature dei suoi film, come per “An education”, ha scritto per lo schermo un memoir di un altro autore. Cosa l’ha colpita così tanto nel romanzo di Cheryl Strayed da spingerla a trarne un soggetto?
«È una storia emotivamente devastante, scritta in una prosa diretta che mi è entrata dentro come pochi altri romanzi. Ed è un racconto che ho sentito culturalmente vicino, per la sensibilità liberal di Cheryl, per la musica che ascolta. È una donna che aveva l’ambizione di scrivere, e che a un certo punto della sua esistenza ha visto la sua vita devastata e ha intrapreso quest’avventura raccontandola come se non avesse la più pallida idea di cosa stesse facendo, il che aiuta a entrare ancora di più nella storia».
Senza Reese Witherspoon probabilmente il film non si sarebbe mai fatto. Com’è stato lavorare con lei?
«È vero, senza di lei non ci saremmo mai riusciti. Era entusiasta del ruolo che avrebbe affrontato ed è un eccellente produttore, con cui puoi parlare direttamente: non è una di quelle star di Hollywood che si nasconde dietro uno staff di decine di persone. Se le mandavo una stesura il martedì mattina, la sera dopo mi chiamava per parlarne. Reese e io ci eravamo incontrati un paio di volte in precedenza, con il desiderio di lavorare insieme. Così quando le ho detto che volevo scrivere una sceneggiatura dal libro di Cheryl il resto è venuto da sé».
Difficile per un’attrice trovare un ruolo così potente.
«Esatto. Reese ha reagito a qualcosa di molto stupido a cui non so come si possa essere giunti, ovvero che non si scrivono film su personaggi femminili interessanti e complicati. “Wild” e “Gone Girl”, che ha prodotto, sono la sua risposta alle donne caratterizzate solo all’interno di un mondo maschile. Lo trovo assurdo, anche perché in questo momento ci sono molte più attrici di talento che attori...».
Comunque è già qualche anno che predilige le protagoniste femminili, al cinema e nei suoi romanzi.
«Entrambe le mie sceneggiature sono adattamenti della vita di qualcuno, e credo sia stato meglio così, perché non essendo una donna mi è difficile scriverne le memorie. Raccontare una storia significa immaginare di essere un uomo, un bambino o appunto una donna, questo è quello che fa di solito un romanziere. È vero che dopo “Un ragazzo” non ho più scritto romanzi prettamente maschili e anche il mio prossimo film (“Brooklin’”, di John Crowley, con Saoirse Ronan, tratto dal romanzo di Colm Tóibín ndr) parla di una giovane donna. Evidentemente sono ben disposto nei loro confronti…»
Lo dimostra anche il suo nuovo romanzo, “Funny Girl”.
«In parte, ma la storia nasce soprattutto dall’esperienza avuta negli ultimi anni tra cinema e televisione».
Che cosa ha voluto raccontare questa volta?
«”Funny Girl” parla della nascita, il successo e il declino di una sit com televisiva negli anni Sessanta e di tutte le persone che vi sono coinvolte. È ambientata in Inghilterra e la protagonista, Sophie, è una ragazza molto bella che non vuole essere considerata solo questo. Il romanzo comincia con la sua vittoria a un concorso di bellezza e mentre tutti le dicono di non sputare sul dono che la natura le ha dato, lei vuole stupire il mondo e diventare un’attrice comica. “Funny Girl” è anche una riflessione su quello che una persona sente di voler essere, ribellandosi alle etichette che la società le appiccica».
Il protagonista di “Alta fedeltà” era specializzato nelle classifiche. Qual è la sua classifica dei film tratti dai suoi romanzi?
«Non posso farla, per il rispetto che ho nei confronti delle persone che ci hanno lavorato e perché sarebbe come fare una classifica dei tuoi figli. Ogni film mi ha dato qualcosa di speciale: la produttrice di “Febbre a 90°” è diventata mia moglie, in “Alta fedeltà” ho conosciuto Stephen Frears che è stato il padrino del figlio che ho avuto con la donna di cui sopra... È tutto splendidamente collegato. È logico che un film possa essere meglio di altri, ma non sarò certo io a dirlo».
Ha una routine di scrittura?
«Ho un piccolo appartamento a dieci minuti da casa che uso come studio. La mattina mi sveglio, porto uno dei miei figli a scuola e poi vado a lavorare, dalle nove alle cinque del pomeriggio. Scrivo sul computer, non faccio mai niente a mano: ho una calligrafia orribile! Una volta dicevo che usavo la penna solo per firmare assegni, ma ho smesso: adesso la uso al massimo per firmare le copie dei miei libri alle presentazioni...».
Ha mai avuto il blocco dello scrittore?
«Il blocco dello scrittore è nella maggior parte dei casi una perdita di fiducia nei confronti di ciò che stai scrivendo. Quindi tutto quello che butti giù ti fa schifo. Non ho mai avuto grossi problemi di questo tipo, se non per periodi molto limitati. E ho la fortuna di essere “semi-competente” in tre diversi campi, perché posso scrivere romanzi, sceneggiature e articoli. Ho ancora la mia rubrica settimanale su un giornale americano, “The Believer” (ripresa in Italia da “Internazionale”, ndr), ed è la cosa che mi ha spesso salvato nei periodi peggiori: perché mi dà la possibilità di scrivere di libri che ho amato moltissimo, e questo è molto facile».
Lei ha recentemente affermato che bisognerebbe portare la letteratura al livello della televisione. Che intende esattamente?
«C’è una grossa fetta di lettori, soprattutto proveniente dalla media borghesia, che considera leggere un obbligo. Anche se si tratta di qualcosa di terribilmente noioso, lo fanno per non trovarsi socialmente in difetto. Ma se leggi cinque pagine al giorno di un libro di seicento pagine, basta conoscere un poco di matematica per capire che è una pessima idea. La televisione è qualcosa che vogliamo vedere e che non subiamo: se qualcosa non ci piace cambiamo canale. Dovrebbe essere così anche con la lettura. Non c’è niente di male nel farlo anche con un libro: un lettore ha il diritto di leggere qualcosa che gli piace e con cui ha una relazione emotiva oltre che intellettuale».
D’altronde lo dice Daniel Pennac nel decalogo dei diritti del lettore. Lo fa anche lei?
«Certo, soprattutto è quello che faccio quando scrivo. Perché vede, un libro va a finire in libreria con un prezzo sulla quarta di copertina. E trovo incredibilmente ipocriti quegli scrittori che dicono di non scrivere per il pubblico, ma per se stessi. E allora perché vuoi che i tuoi romanzi vengano pubblicati? Tienili per te! Ma non è così, noi tutti lavoriamo per arrivare in libreria e farlo per i propri lettori significa raccontare qualcosa che non annoi te per primo, altrimenti avrà lo stesso effetto anche su chi ti legge».
Qual è stato l’ultimo libro che non l’ha annoiata?
«So che può sembrare strano, ma è un saggio sulla storia dell’Inghilterra dal 1945 al 1969, che affronta la vita culturale, politica e sociale di quel periodo e i suoi cambiamenti mese per mese. Appassionante, tra breve uscirà la seconda parte che arriva fino alla fine degli anni Ottanta. Ma capisco che non è un libro per tutti».
Quali sono state le sue maggiori fonti d’ispirazione nel corso degli anni?
«Le personalità che mi hanno influenzato di più nei miei anni di formazione sono stati soprattutto due autori radiotelevisivi che considero ancora oggi due geni assoluti, gli Harold Pinter del loro mestiere: Ray Galton e Alan Simpson. Gli autori della sit com di “Funny Girl” sono ispirati a loro. Poi citerei Charles Dickens, che considero il più grande scrittore di tutti i tempi. E alcuni scrittori americani del secondo dopoguerra, il cui stile ho sempre trovato meraviglioso, come Ann Tyler, Richard Ford, Raymond Carver. E poi ovviamente Bruce Springsteen: è stato davvero una guida per me».
Un’ultima cosa: come vede l’Arsenal quest’anno?
«Come tutte le altre stagioni: non molto bene, anche se con qualche bella soddisfazione. Ma tanto finirà come sempre, ovvero con Chelsea e Manchester City, cioè i più ricchi della Premier, che arriveranno ai primi due posti».