Stefano Vergine, L’Espresso 7/11/2014, 7 novembre 2014
L’ORSO IN GABBIA
In quindici anni non era mai successo. Da quando è stato eletto per la prima volta al vertice della Federazione Russa, Vladimir Putin ha sempre festeggiato il suo compleanno al lavoro. L’anno scorso era a Bali, in Indonesia, per il forum sulla cooperazione economica dei Paesi dell’Asia-Pacifico. L’anno prima era a Mosca, in diretta televisiva per rilasciare una lunga intervista sui successi della sua presidenza. Questa volta è andata diversamente. Martedì 7 ottobre, giorno del suo sessantaduesimo compleanno, «il capo di Stato è volato nella taiga siberiana per riposarsi». L’insolita scelta, annunciata dal portavoce Dmitry Peskov, è stata spiegata così da alcuni analisti vicini al Cremlino: Putin può permettersi di prendere un giorno di pausa perché sa che il suo popolo non l’ha mai amato così tanto. A confermare la tesi ci sono i numeri. Quelli del Levada Center, una delle più autorevoli società di ricerca russe, dicono che il livello di popolarità dell’ex agente del Kgb a settembre è arrivato all’86 per cento, quasi venti punti in più rispetto a febbraio. Un balzo avvenuto in contemporanea alla crisi ucraina, all’annessione della Crimea a Mosca e alla guerra che ancora si combatte nel Donbass, la regione orientale dell’Ucraina.
Dietro l’ostentata sicurezza del suo presidente, la Russia nasconde un futuro incerto. Non si tratta solo dell’Unione Eurasiatica, progetto pensato da Putin per unire le ex Repubbliche sovietiche sotto l’egida di Mosca e ora depotenziato dalla svolta europeista di Kiev. A tenere sotto scacco il Cremlino è uno scenario di crisi economica interna difficile da affrontare per una nazione considerata ancora emergente, con una popolazione abituata a tassi di crescita annua vicini al 5 per cento e ora, improvvisamente, costretta a fare i conti con un prodotto interno lordo che stenta a navigare sopra lo zero. La colpa va alle sanzioni economiche inflitte dall’Occidente, che stanno iniziando a farsi sentire nella Federazione. Ma, soprattutto, al repentino calo del prezzo del petrolio, colonna portante dello sviluppo economico russo.
In quattro mesi il valore del greggio è calato di un quarto. Un barile di Brent, la qualità di petrolio più scambiata, è passato dai 115 dollari di giugno ai circa 85 degli ultimi giorni. Livelli che non si vedevano da quattro anni, e a cui i russi potrebbero doversi abituare. Gli economisti di Goldman Sachs, in un report di fine ottobre, dicono infatti che il greggio «resterà probabilmente molto sotto gli 80 dollari fino al 2016». Se la profezia dovesse realizzarsi, per Mosca sarebbe un bel problema. La Russia ottiene circa la metà delle sue entrate fiscali dalla vendita di idrocarburi. E il suo bilancio pubblico, per mantenersi in attivo, ai livelli di spesa attuale ha bisogno che il Brent non scenda sotto i 100 dollari (grafico a fianco). Insomma, in gioco c’è la sostenibilità del più vasto Paese al mondo. Non solo quella finanziaria. I proventi della vendita di petrolio, i cui prezzi sono triplicati da quando Putin è arrivato al potere nel 2001, hanno infatti permesso finora al Cremlino di varare misure popolari, come l’aumento degli stipendi dei dipendenti statali e il blocco dell’età pensionabile (60 anni per gli uomini, 55 per le donne) mentre in tutta l’Europa aumentava.
Putin finora ha gettato acqua sul fuoco. Ha detto di essere fiducioso, perché le cose miglioreranno. Ha sottolineato che, nonostante il calo del prezzo del greggio, il Paese non avrà problemi perché può contare sulle sue riserve monetarie. Il tesoretto in effetti esiste. In questi anni il governo ha accantonato 170 miliardi di dollari da usare come cuscinetto contro i ribassi del petrolio. Ma quanto possono durare queste riserve se l’oro nero resta sotto quota 100? Gli esperti sono divisi. C’è chi dice quattro anni, chi tre, chi addirittura due. Tutto dipende dal valore esatto del greggio. «Di certo se il prezzo resterà ai livelli attuali per qualche anno», sostiene Neil Sharing, analista di Capital Economics, «la Russia non riuscirà a mantenere lo status quo».
Qualche segnale negativo è già emerso. A fine ottobre l’inflazione è arrivata all’8,4 per cento, il massimo degli ultimi tre anni. Per evitare di rimanere strangolata dal calo del greggio, Mosca ha lasciato che il rublo si svalutasse, fino a toccare i minimi storici sull’euro e sul dollaro. La valuta nazionale più debole, però, ha reso più care le importazioni. E così il costo della vita è schizzato verso l’alto. A ciò si aggiunge un altro fattore: l’embargo che il Cremlino ha imposto su buona parte dei prodotti agroalimentari europei. Una misura che impatta direttamente sui conti delle imprese del Vecchio Continente, ma che gradualmente sta facendo sentire i suoi effetti anche in Russia. In teoria, aveva detto Putin, il cibo made in Europe sarebbe stato sostituito da quello locale o di altri Paesi limitrofi, senza variazioni di costo per i consumatori. Non è andata così. Basti dire che a settembre il prezzo degli alimentari è aumentato dell’11,5 per cento rispetto al mese precedente. Rincaro che pesa soprattutto sulle fasce più povere della popolazione, finora rimaste fedelissime al presidente. La contromossa di Mosca, per ora, non ha dato i risultati sperati. Anzi, ha peggiorato le cose. Per provare a contenere l’inflazione, la Banca di Russia ha alzato i tassi d’interesse, cioè il costo del denaro: da febbraio a oggi la governatrice Elvira Nabiullina ha portato i tassi dal 5,5 al 9,5 per cento. La misura ha avuto però l’effetto di rallentare una crescita economica già vicina allo zero.
Di tutto questo, ufficialmente, il Cremlino non sembra preoccuparsi. La parola d’ordine è «fiducia». Talmente tanta da correre il pericolo di risultare irrealistica. Nell’ultima legge finanziaria si prevede che l’anno prossimo l’inflazione sarà al 6 per cento, il prezzo del petrolio a 100 dollari e la crescita economica all’1,2 per cento. Peccato che, secondo tutti i centri studi internazionali, le cose andranno molto peggio. La Banca mondiale, per esempio, nel suo scenario di base stima che il pil crescerà dello 0,3 per cento l’anno prossimo e dello 0,4 nel 2016. Insomma, ha scritto il settimanale britannico “The Economist”, «sembra che la Russia sia diretta verso la stagflazione», situazione in cui l’economia non cresce ma l’inflazione sì. Chris Weafer, analista di Macro Advisory, residente a Mosca da quindici anni, dice che «il rischio di un collasso della Federazione non è da escludere: più che un ulteriore calo del prezzo del greggio, improbabile perché danneggerebbe tanti altri Paesi, la Russia potrebbe finire a gambe all’aria se venissero inasprite le sanzioni, in particolare se le sue banche venissero estromesse dallo “Swift settlement system”, il sistema usato dagli istituti per trasferire i soldi tra di loro, la stessa misura adottata dall’Occidente nei confronti dell’Iran». Di certo, per ora, la guerra commerciale con Stati Uniti e Unione europea ha già causato parecchi danni all’interno della Federazione, e non solo per l’aumento dei prezzi del cibo. Il crollo del rublo, unito a un’economia che continua ad arrancare, ha fatto aumentare la fuga di capitali dal Paese. Secondo la Banca di Russia, nei primi nove mesi dell’anno sono usciti dalla Federazione 85 miliardi di dollari contro i 61 miliardi dell’intero 2013. Tra le sanzioni annunciate negli ultimi mesi, una delle più dannose riguarda il divieto, per alcune delle principali società russe, di finanziarsi sui mercati occidentali. Un grattacapo non da poco, dato che negli ultimi tre anni le sole banche hanno trovato copertura per metà dei loro debiti proprio in Europa. Tra le aziende colpite c’è ad esempio Rosneft, la compagnia petrolifera nazionale guidata da Igor Sechin, che quest’anno ha in scadenza obbligazioni per 15,9 miliardi di dollari. Situazione simile per la Gazprom di Alexei Miller, colosso di Stato del gas, e per istituti di credito come Sberbank e Vtb. Il divieto di fare credito a società russe ha avuto l’effetto di spostare il baricentro della Federazione verso est. Il legame con la Cina si sta rafforzando, ma Mosca dovrà pagare un prezzo: le sue aziende saranno infatti costrette a versare tassi d’interesse più alti, visto che senza l’offerta di Usa e Ue i costi di finanziamento risulteranno maggiori.
Altro limite imposto dall’Occidente riguarda l’esportazione di tecnologia in Russia. Un divieto pensato soprattutto per bloccare lo sviluppo di nuovi giacimenti di gas e petrolio, di cui la Federazione è ricca ma impossibilitata a goderne senza l’aiuto di Europa e Stati Uniti. Da quando il divieto è scattato, a settembre, parecchi progetti si sono bloccati. Uno dei principali si trova nel mare di Kara: il giacimento Pobeda, in russo “Vittoria”, è considerato uno dei più grandi al mondo tra quelli non ancora sfruttati, con una quantità di petrolio maggiore di quella contenuta nell’intero Golfo del Messico. Da quando sono scattate le sanzioni, l’americana ExxonMobil, che doveva svilupparlo insieme a Rosneft, si è ritirata dal progetto. Secondo la società di ricerca Ihs Cera, se le sanzioni resteranno invariate la produzione di petrolio in Russia calerà dagli attuali 10,5 milioni di barili al giorno a 7,6 milioni nel 2025. Il futuro petrolifero di Mosca, che al momento resta il maggior produttore al mondo, dipende infatti dallo sviluppo di nuovi giacimenti. Quelli di shale oil, in particolare, l’oro nero intrappolato nelle rocce d’argilla, lo stesso che ha dato vita al nuovo miracolo economico americano. Secondo il Dipartimento dell’Energia statunitense, la Russia ha le maggiori riserve di shale oil al mondo, ma senza la tecnologia occidentale non è in grado di sfruttarle. Il giacimento più grande, chiamato Bazhenov, doveva essere sviluppato da Exxon e Rosneft. Poi sono arrivate le sanzioni e tutto si è fermato, così come le collaborazioni fra Shell e Gazprom Neft, la divisione petrolifera di Gazprom. Insomma, se le cose resteranno così, sarà impossibile per la Federazione russa aumentare la produzione petrolifera. Perché, come ha spiegato l’amministratore delegato di Lukoil, Vagit Alekperov, un quarto della produzione di oro nero nazionale si basa sui servizi di tecnologia occidentale. «L’errore è stato quello di non usare i proventi degli idrocarburi per creare industria e rendersi indipendente, e ora Putin rischia di pagarne il prezzo», dice Alessandro Terzulli, capo economista della Sace, la società italiana che assicura i crediti delle imprese. Come dire: il colosso dai piedi d’argilla, come nel ‘700 fu definita la Russia dal filosofo illuminista Denis Diderot, deve sperare che il petrolio torni sopra i 100 dollari e l’Occidente cancelli le sanzioni. Altrimenti Putin dovrà tagliare la spesa pubblica. E quando si taglia la spesa, si sa, anche la popolarità può calare.