Peter Reynolds, L’Espresso 7/11/2014, 7 novembre 2014
MIO ISLAM TRADITO
[Colloquio con Cat Stevens] –
Riuscire a parlare con Yusuf Islam, 66 anni, è una cosa abbastanza rara, e ancor più raro è che conceda un’intervista. Ma stavolta l’uomo diventato famoso col nome d’arte di Cat Stevens negli anni Sessanta e Settanta parla senza ritrosie del suo nuovo album, “Tell ‘Em I’m Gone”, che è una combinazione di cover e brani originali, un omaggio agli artisti del blues e del rhythm and blues della sua giovinezza e della Swinging London degli anni Sessanta. Non soltanto di questo, però: convertito da tempo all’Islam, con noi Stevens parla anche dell’Isis, della guerra in Iraq, di fraintendimenti del Corano. Del fallimento della Primavera araba e del movimento Occupy Wall Street. Per non farsi mancare nulla.
Cat Stevens, cominciamo dal nuovo album?
«È stato un divertimento per me. Ho voluto provare qualcosa di nuovo, mescolare il vecchio bagaglio di canzoni che mi portavo dietro - in gran parte classici del blues - con la mia nuova musica».
Così si è ritrovato negli Shangri-La Studios a Malibu. “Tell ‘Em I’m Gone” è dedicato alla musica della sua giovinezza?
«È un omaggio al rhythm&blues, la scintilla da cui è iniziata la mia carriera. È stato dopo aver ascoltato alcune incredibili incisioni provenienti dagli Stati Uniti che ho voluto dedicarmi alla musica. Ma poi, appena ho avuto in mano una chitarra, mi sono orientato verso il folk blues. La musica folk ha conosciuto una grande stagione a Londra, anche Burt Jansch, Davey Graham, Paul Simon sono passati attraverso questa fase. C’era un club dove ci ritrovavamo per ascoltare questa grande musica proveniente dagli Stati Uniti: le registrazioni della Motown, i concerti di Chuck Berry e di Ray Charles. Tutte le celebrità che abbiamo amato sono passate attraverso il blues».
I mitici anni Sessanta... Sono stati il momento migliore per la musica? Il momento migliore per vivere?
«Sono stati un periodo incredibile, rivoluzionario. Abbattevamo i muri, ci siamo riusciti. C’erano ancora problemi per gli artisti neri, c’erano barriere da sfondare, ma attraverso la musica abbiamo potuto farlo».
Lei per 25 anni non ha più lavorato. In quel periodo ha riscoperto questi album?
«Il mio ritorno alla musica è stato molto lento. Si è trattato di una riscoperta dentro di me, delle radici della mia eredità musicale e del mondo in cui sono cresciuto. Dei miei ricordi e delle mie ambizioni. Credo che la tradizione rhythm’n’blues non sia mai stata rivisitata prima, ho voluto fare quest’album per riesplorarla. Tutto è iniziato qualche anno fa, quando ho scritto la canzone “Peace Train Blues”. Talmente mia che ho pensato che avrei potuto scriverne altre. Cosa che è avvenuta. È cominciata questa nuova fase. Ho scavato nel passato, trovato vecchi dischi che volevo ascoltare di nuovo, di personaggi come John Lee Hooker, Muddy Waters, Bo Diddley, Chuck Berry, Ray Charles, Nina Simone. Loro hanno continuato a lavorare, io ho continuato ad ascoltare le loro voci. E poi ho deciso di scrivere io stesso un po’ di queste canzoni. Come “Big Boss Man”».
Sulla sua pagina Facebook c’è una foto che la ritrae con Jimi Hendrix. Quando vi siete conosciuti? Avete mai improvvisato insieme?
«No, ma lui è stato un grande. Un personaggio. Anche molto amichevole, se riuscivi a conoscerlo meglio. Ci siamo incontrati al Package Tour del 1967, strano evento cui parteciparono Engelbert Humperdinck e i Walker Brothers. Ci siamo divertiti in quell’occasione. Mentre cantavo “I’m Gonna Get Me A Gun”, mi spruzzavano con pistole d’acqua da dietro le quinte».
E adesso? Cosa resta dello spirito di quei tempi?
«Oggi c’è grande spirito di collaborazione, ed è la cosa più divertente, anche se tutto rischia di diventare commerciale. Ma se vuoi lavorare seriamente con qualcuno, puoi farlo».
Cos’è per lei il blues? Libertà?
«Sì».
E uno stile di vita?
«La musica ha molti scopi. A volte ci rilassa, a volta ci eccita, a volte è uno strumento di liberazione, anche solo per pochi minuti. È successo con i primi dischi: si incideva una sola canzone, e quando era diventata un successo se ne commissionava un’altra. Il che ha permesso - soprattutto agli artisti neri - di essere conosciuti, di avere una vita migliore. Il blues è anche questo, ha a che fare con la lotta per la libertà. Ho scritto una canzone, “Gold Digger”, sulla lotta contro l’apartheid in Sud Africa e sull’inizio dell’Anc nato da uno sciopero».
Certe storie continuano anche oggi. La Namibia e le sue miniere d’oro, i “blood diamonds” e il resto...
«Vero. Ancora oggi ci sono grandi capi in sella ai loro cavalli che guardano dall’alto in basso il resto dell’umanità e cercano di piegare la gente ai loro desideri. Il movimento anti-Wall Street è stata una delle reazioni».
La appassionano questi movimenti?
«Il movimento anti Wall Street è stato una cosa impressionante. Così come la rivolta araba. Che ha fatto, forse, da catalizzatore: la gente ne aveva abbastanza, voleva il cambiamento. Ma il problema è che senza un chiaro programma o una chiara direzione, la volontà di cambiamento non basta. Serve un’organizzazione che gli dia corpo. Normalmente le rivoluzioni si concludono con una perdita di direzione o perché vengono manipolate per deviarle verso altri scopi rispetto a quelli iniziali. È quello che sta accadendo sotto i nostri occhi».
La primavera araba avrebbe potuto avere più successo con un programma chiaro?
«Sì, perché non basta puntare ad abbattere il tiranno, ci vuole una guida. Questo è stato il problema, e quando ha cominciato a subire l’influenza di gruppi e organizzazioni ne è emerso un altro: chi stabilisce i programmi?».
La maggior parte di questi Paesi sono oggi ostaggio dei militari. Le proteste non sono servite a nulla?
«Tutto è tornato alla casella di partenza. Strano che gli insorti abbiano permesso che accadesse. Ma gli egiziani hanno avuto i faraoni per molti anni, forse ci hanno fatto l’abitudine».
Toriniamo al disco. Come ha scelto i brani da reinterpretare? I Procol Harum sono una scelta singolare, così come “Dying To Live” di Edgar Winter...
«”Dyng to Live” è un sempreverde che ho voluto riproporre al pubblico perché tanti non hanno una luce che li guidi nella vita e si chiedono: “Perché vivo? Qual è lo scopo di tutto questo?”. È la grande domanda dell’esistenza umana, prima o poi affiora in tutti noi. Meglio prima, magari».
Domande come: perché stiamo vivendo per lottare e lottiamo per vivere?”
«Già».
Tipo, perché c’è ancora la guerra nel 21° secolo?
«La guerra è una follia. Purtroppo, ancora una volta, le persone stanno tornando al “Wild World”, al mondo selvaggio, per riprendere il titolo di una mia canzone. Non è cambiato molto. Ma ci sono ancora persone di coscienza che stanno cercando di produrre cambiamenti positivi nel mondo. Fino a quando, però? Nessuno lo sa».
Ci sono anche un bel po’ di tedeschi e di americani che stanno aderendo allo Stato Islamico, bizzarra idea a ben vedere...
Non ha senso.
«No. Non ce l’ha. La guerra è una follia collettiva. Ci vuole sempre qualcuno che ne faccia scoccare la scintilla, un accumulo di rancori. Per questo “Peace Train” e il piano per la pace sono importanti, vitali. Purtroppo le persone non ci pensano, sono così impegnate a combattere tra di loro».
Che significa il titolo dell’album, “Tell ‘Em I’m Gone”, ditegli che me ne sono andato? Allude a un altro ritiro o a un altro addio?
«Io mi sto muovendo verso un genere per me finora sconosciuto. Rimanere ingabbiato nella percezione degli altri non fa per me. Tutti tendono a incasellarti e non mi piace. Io non sono come pensano».
In senso musicale o religioso?
«Sotto qualsiasi aspetto. Musicale, politico e religioso... Molti tendono a metterci in una gabbia, ma io ho voluto sempre uscirne».
“Ditegli che me ne sono andato” perciò vuol dire questo?
«Si rifà anche a una delle canzoni più importanti che io abbia imparato, “Tell ‘Em I’m gone”. Leadbelly, archetipo del bluesman, interpretava le grandi canzoni che in passato venivano cantate lungo le strade ferrate e nelle prigioni di tutta l’America. In un certo senso è stato un passaggio obbligato per capire che cos’era il blues».
Qual è invece l’idea dietro “Cat & The Trap Dog”?
«Questa canzone ha un significato più biografico: una rappresentazione dei miei scontri con i media e i giornalisti in genere. Tendono sempre a rinchiudermi in una gabbia e buttar via la chiave. Mentre la cosa grande della musica è che ti permette di collegarti immediatamente con il pubblico. Quando ti ascolta non ci sono intermediari. Per questo è un’esperienza così intensa».
Lei è tornato in scena nel 2006. Ha fatto tre dischi e ha dimostrato di non essere una minaccia per il mondo. Perché molti la guardano ancora con sospetto?
«Sono vittime delle loro percezioni stereotipate. Uno dei nomi del genere umano in arabo è “insaan”, che significa “dimenticare”. Gli esseri umani tendono a dimenticare, invece dovremmo ricordare. Il nostro compito è risvegliare le coscienze richiamando l’attenzione sulle grandi questioni. Scuotere le persone dal torpore».
Lei è fuggito da ogni gabbia?
«Sì, più o meno...».
È vero che è diventato “Cat” perché una sua ex ragazza pensava che avesse gli occhi di un gatto?
«È vero, uscivo con una ragazza che lo pensava. Ma, soprattutto, il gatto è indipendente. Graffia. Io sono un micio coccolone, ma se coccoli troppo a lungo un gatto lui se ne va. Non gli piace essere manipolato. Io credo di avere molte delle caratteristiche di un gatto».
Insomma è un vecchio gatto grigio...
«Sì, possiamo dire di sì».
La canzone “I Was Raised in Babylon” contiene questi versi: “Ci chiamavano civilizzati, ma quei giorni sono lontani/ Credevo che fossimo gli eletti, devo essermi sbagliato”. Che significa?
«È una riflessione sulla storia della civiltà, che ha picchi e cadute. La maggior parte delle civiltà arrivano a un punto in cui diventano così arroganti da perdere il contatto con quella che definirei la loro missione divina. Tornando a “I Was Raised in Babylon”: la vedo come una rappresentazione di quella grande civiltà in cui arrivò Abramo a dissipare gran parte del mito e a fare un po’ di luce, anche se questo tentativo fu respinto. È stato necessario partire per altre terre, fuggire. E poi c’è l’Egitto, col faraone che si proclama divinità e i sudditi che ne diventano schiavi... sì, c’è una riflessione critica in questo testo musicale».
Prendiamo gli Stati Uniti: sono considerati il paese democratico più avanzato del mondo ma hanno cattive strade, cattive scuole, criminalità, disoccupazione e nessuna previdenza sociale. Se invece di spendere tutti quei soldi in guerre li spendessero per il benessere del Paese potrebbero essere il paradiso...
«Gli Stati Uniti sono un Paese bellissimo e una grande nazione. Però la politica manipola le cose a tal punto che sembra ci sia bisogno di entrare in guerra ogni uno-due anni per mantenerne la posizione dominante. Ma non è vero, bisognerebbe piuttosto avere idee, offrire qualcosa di più. Non distruzione».
Cosa l’ha spinta a reinterpretare “You Are My Sunshine”?
«È una grande canzone... suscita tanti ricordi in molte persone. A me ricorda Ray Charles: mi è sempre piaciuta la sua versione. Durante una delle ultime vacanze ho portato la famiglia in Italia e ci siamo procurati questa registrazione di Ray Charles, mi piace moltissimo. Volevo reinterpretarla, l’ho fatta mia adattandola ai miei riff di chitarra».
Lo stesso vale per “Take This Hammer”, trasformata in “Tell’Em I’m Gone”: “Prendi questo martello e portalo al capitano”. Che significa?
«Significa avere il coraggio di sfuggire a situazioni in cui sei a disagio. Può essere pericoloso, ma una canzone dell’album intitolato “Doors” dice: “Se non corri mai il rischio di perdere, non riuscirai mai a vincere”».
Per ogni porta che si chiude, ce n’è un’altra che si apre?
«Sì, è il miracolo della vita».
Lei che cosa pensa dei conflitti in Medio Oriente? Ci sono soluzioni possibili?
«Io credo che molti dei problemi nascano dal sistema di istruzione. Nel mondo occidentale è orientato da una visione molto laica della vita, significa che devi trovare un lavoro, diventare ricco, star bene e riuscire a ottenere tutto quello che vuoi. In questo modo si diventa parte della catena dei consumatori, che gira in continuazione, raccoglie cose nuove, se ne sbarazza, poi vuole altre novità. Viviamo in un’epoca in cui sprechiamo molto. Credo che si debba ripartire dall’insegnamento scolastico. Che lo spirito degli esseri umani vada nutrito, altrimenti avremo grandi problemi. Come in “Arancia Meccanica”: se i bambini non sono trattati bene o vengono educati male finiscono per vedere la vita come una terribile battaglia. Chiunque è nemico».
C’è sempre il rischio di essere manipolati.
«Non c’è dubbio. Ma succede anche perché i genitori hanno rinunciato alle loro responsabilità. La musica può svolgere un ruolo importante, perché quando le persone non hanno una guida spirituale o d’altro tipo prende il sopravvento. Io credo che i musicisti e i cantautori abbiano una grande responsabilità: essere più onesti possibile».
Tradotto: Israele, la Palestina e il mondo arabo hanno bisogno di una musica migliore? Di artisti migliori? Di persone che potrebbero unire i popoli attraverso la loro arte?
«Non vorrei toccare questo argomento. E neppure preoccuparmene. Stiamo parlando del mondo, di qualsiasi luogo, della Cina... in qualsiasi parte di questo mondo la secolarizzazione è ormai molto avanzata, anche là dove mantiene sembianze religiose».
Strano però che molti leggano nel Corano cose che in realtà non esistono nel libro...
«Vogliamo parlare di questo o del mio nuovo album?».
Beh, l’ultima volta che ne abbiamo parlato è stata otto anni fa - dopo una sua pausa professionale di 25 anni - e a posteriori possiamo forse chiederci, non è stato un errore aspettare così a lungo? Non è che qualcuno le ha detto delle cose sbagliate? Perché è un fatto che il profeta Maometto non era contrario alle celebrazioni. Non ha mai detto: “La musica non è una cosa buona...”.
«Vero».
Per questo le ho chiesto se il Corano non sia stato mal interpretato...
«Giusto. Ok».
Insomma, non crede di aver aspettato troppo tempo? Non le spiace averci messo un quarto di secolo?
«Non me ne pento... no, perché le cose accadono quando il momento è maturo. Ho sempre fatto affidamento sul mio istinto e sulla mia capacità di scegliere il momento opportuno. Ho ascoltato... A un certo momento mi sono trovato circondato da interpreti del pensiero islamico piuttosto conservatori, e sono state commesse molte ingiustizie, impossibili da ignorare. Quando si studiano le fonti della conoscenza bisogna fare molta attenzione... perché ha a che vedere con la carità. Se si smette di essere caritatevoli si perde qualcosa dello spirito della religione. Ma perché succede? Perché si è stati in qualche modo fuorviati. È facile per le persone, specialmente quando ricevono il soffio della fede, essere indotte in errore da qualcuno che fa la voce grossa».
E adesso il gatto è tornato?
«Non andrei più lontano di così».
Però sui biglietti, sulle locandine e sulle copertine il nome “Cat Stevens” è stampato a caratteri più grandi di quelli degli ultimi due album. Perché?
«Molte persone mi identificano col periodo della loro vita in cui io, come Cat Stevens, ho svolto un ruolo. Non c’è nulla di male nel ricordarlo né nel celebrarlo. Oggi sono conosciuto come Yusuf, ma c’è l’eredità che mi porto dietro, quella della mia musica. Ho cercato di seguire la massima filosofica del mistico Eckhart: “Per diventare quel che devi essere, dimentica chi sei”. Ma la gente continua a ricordarmi come Cat Stevens».
Cosa prova per il se stesso di un tempo? Lei è stato giovane, ha avuto successo, ha vissuto in un’epoca avventurosa....
«Penso che molte persone ricordino Cat Stevens come un idealista. Non tutti, ma molti hanno compreso le mie idee attraverso le mie canzoni e sanno che ho sempre cercato la pace, l’amore, la purezza, la felicità. La mia vita ha avuto le sue insidie, ma non ne sono stato travolto. Come i gatti, che quando cadono, cadono sempre in piedi».
E Yusuf ha gli stessi obiettivi di Cat? L’amore, la pace e l’armonia?
(sospira)
Li persegue con maggiore conoscenza?
«La saggezza è uno dei grandi arricchimenti della vita, ma non la si può prendere in prestito né comprare... È un dono. L’esperienza ci permette di conquistare maggior saggezza, e penso che la ricerca della felicità sia indefinita, ma aiutare gli altri, essere disinteressati, può portare felicità nella nostra vita. È un paradosso, non lo si capisce da giovani. Ci si arriva con gli anni».
Che reazione ha avuto quando l’hanno inserita nella Rock’n’Roll Hall of Fame? Sorpreso?
«Un po’ sì. Ma è stato come un ritorno a casa. Credo che la confraternita musicale abbia aperto le braccia. Per accogliermi di nuovo».