Marco Damilano, L’Espresso 7/11/2014, 7 novembre 2014
ADDIO LIVORNO BELLA
La grande ciminiera dell’Eni brilla nel buio, gli operai la vedono dirimpetto, dallo stabilimento in dismissione, un avamposto nel deserto che avanza, via Enriquez è la frontiera che divide la grande fabbrica agonizzante dalla prossima che sta per entrare in pericolo. E un vecchio pino marittimo, stremato, piegato da bandiere rosse e striscioni, dalla sconfitta.
Livorno delle baracchine e dei Fossi, Livorno di Giorgio Caproni «d’aria e di barche odorava», ma da qui è lontana, il mare non si vede, neppure si sente. «Siamo a Fort Alamo», dice l’operaio anziano Franco Rossi davanti ai cancelli. Tute, felpe, cappellini, sedie di plastica. Sono le sei di sera quando i 413 lavoratori della Trw ricevono la lettera con cui la direzione del personale comunica che non saranno pagati i turni di notte, incollata sulla bacheca, sopra un comunicato in cui pochi mesi fa «la formidabile azienda Trw» vantava «il grande successo», «gli importanti risultati raggiunti». «Hanno portato un pullman carico di direttori da tutta Europa, ci presentavano come un modello», raccontano gli operai. Ora, invece, si chiude.
Fine della Trw, la fabbrica simbolo della Livorno industriale dal 1936, quando si chiamava Spica, Società pompe iniezione Cassani, ribattezzata la Spiga. E chiusura di un’epoca nella città dei portuali e dell’industria di Stato. Nell’Italia dell’autunno caldo, dei 160 tavoli di crisi aperti al ministero dello Sviluppo, da Taranto a Genova a Piombino, degli operai della ThyssenKrupp di Terni senza stipendio che finiscono sulle prime pagine perché picchiati dalla polizia e per l’incapacità del ministro Angelino Alfano, Livorno è un laboratorio in cui si sperimenta come il lavoro abbandoni una città. E come crisi economica, crisi sociale e crisi politica si stiano drammaticamente intrecciando. «Una crisi che va oltre le dinamiche congiunturali e assume tratti strutturali con forti riflessi per il mercato del lavoro e, più in generale, per la tenuta sociale», si legge nell’ultimo rapporto della regione Toscana. E dire che per il Censis Livorno era una delle città più vitali d’Italia, con il centro di robotica sul porto e l’indonesiano Bachtiar Karim che produce olio da palma e biodiesel. Invece è un vulcano pronto a esplodere. Anche nella mirabolante epoca della stazione Leopolda, il treno Renzi che qui non si è mai fermato.
Livorno città fredda. Di cattivo umore. Saracinesche abbassate, 314 negozi hanno chiuso per sempre dall’inizio del 2014. Gente per strada nelle ore del lavoro, il tasso di disoccupazione è il 16,1 (rispetto al 7,9 toscano), quello giovanile è del 58,8 tra i giovani sotto i 24 anni e del 26,9 tra i trentenni. Striscioni in città. Fino a qualche settimana fa il visitatore era accolto dalla scritta d’epoca sulle mura “Msi fuorilegge”, mai cancellata, il biglietto da visita dei livornesi. Da qualche giorno sono cominciati ad apparire strani graffiti, mai visti nel resto d’Italia: “Renzi il Gattopardo”, “Renzi uguale Dc uguale mafia”, “No Jobs Act”. Gli stencil, i calchi con il volto del premier e la didascalia “Il mostro di Firenze”. Sugli ex cantieri Orlando, sulla cinta muraria che divide il porto dal centro storico, nel cuore del quartiere Venezia dove c’è lo scheletro del teatro San Marco, in cui il 21 gennaio 1921 - a malapena c’erano il rullino e il gettone, figuriamoci l’iPhone - nacque il Pci, «per rompere le catene di un duro servaggio», recita la lapide, davanti a una lacera bandiera rossa. A mezz’asta.
Per giorni la città è stata invasa dall’immondizia, sulla facciata del municipio ci sono i segni dell’ultimo lancio di uova, in piazza c’è lo striscione «Nogarin sei peggio di Renzi». I lavoratori della Cooplat, la cooperativa che raccoglie i rifiuti, invadono il primo piano, vogliono parlare con il sindaco: «Dobbiamo metterci le scarpe buone per vederlo?». Qualcuno prova ad assaltare la macchina del primo cittadino.
Filippo Nogarin, sindaco da cinque mesi, è l’uomo del Movimento 5 Stelle che ha mandato all’opposizione la sinistra da sempre al potere nelle sue diverse reincarnazioni, dal Pci al Pd. «Il caso non esiste, lo dico da uomo di scienza. Non è un caso che tocchi a me gestire questa situazione», dice. «C’è una congiura delle polveri contro di me? Forse sì». Si è messo alla testa degli operai e si scaglia contro gli spazzini, «dobbiamo intervenire sul servizio, ci sono indici di assenteismo intollerabili», prova a cavalcare il caos. Ostenta un’invidiabile serenità, si fa fotografare mentre si tuffa in slip nella piscina comunale Camalich ristrutturata, identico al Vittorio Gassman sul trampolino della scena finale di “C’eravamo tanto amati” di Ettore Scola, pronto a lanciarsi nella modernità. O nel delirio.
Livorno è l’esempio di come il lavoro si ritiri da un territorio. Come la città di Flint del film di Micheal Moore sulla crisi della General Motors in Michigan, più graduale ma più drammatica, o, se si preferisce, come la Bulgaria o la Romania dopo la caduta del Muro, quando crolla un sistema economico e non è pronta una classe dirigente di ricambio. C’era una volta Livorno, la città più comunista e più americana d’Italia, «di gente poco sentimentale: di acutezza ebraica, di buone maniere toscane, di spensieratezza americanizzante», scriveva Pier Paolo Pasolini. La città del grande patto che reggeva la Repubblica tra sindacati, imprese, partiti, governo. Il Pci era il padre-padrone, i sindacati trattavano, la Dc mediava, l’Iri portava le commesse. Il simbolo di quell’epoca di felicità privata e di debito pubblico era il Cantiere, passato dai fratelli Orlando all’Ansaldo e alla Fincantieri, oggi al gruppo Azimut Benelli del deputato di Scelta civica Paolo Vitelli che ha messo in mobilità 49 lavoratori. Un sistema già finito negli anni Ottanta, ma la città era sopravvissuta grazie a un’ondata di liquidità e di benessere, generata dagli ammortizzatori sociali dell’epoca, molto generosi, gli investimenti immobiliari e la rendita del risparmio. Un neo-capitalismo di massa, un laissez faire al cacciucco, specchio di quello nazionale, arricchitevi, fate circolare i soldi. Tutto gestito dal centrosinistra discendente del Pci.
I primi segnali di crisi arrivano alla metà degli anni Duemila, prima della recessione. Il passaggio brusco dalle industrie di Stato alle multinazionali straniere senza volto. Dalla politica nazionale, con i suoi riti, il gioco delle compensazioni tra i poteri locali, il partito e il sindacato, alla lettera di licenziamento che arriva direttamente nella cassetta della posta, chissà se è questa che chiamano disintermediazione. «La Trw è il punto di arrivo di una parabola di quasi ottant’anni, niente racconta meglio l’evoluzione della nostra industria», spiega Mauro Zucchelli che sul quotidiano della città “Il Tirreno” racconta l’avanzata della crisi. L’ex Spica viene acquistata dall’Alfa Romeo di Stato, poi dalla Fiat, negli anni ‘90 viene ceduta a due multinazionali che la dividono in due, la Delphi e la Trw. Fanno componentistica d’auto, sistemi di guida, la scatola sterzante. La Delphi chiude nel 2006, un anno prima dello tsunami finanziario che travolge l’America e poi l’Europa, la Trw lotta per sopravvivere. Il 25 per cento degli occupati livornesi lavora in una multinazionale, all’industria pubblica oltre all’Eni, resta la Wass, gruppo Finmeccanica, Sistemi Avanzati Subacquei, fabbrica siluri e controsiluri. Lo Stato arretra e vende agli stranieri. L’incubo per l’ultima generazione di operai livornesi non è la Cina ma la Polonia, che sembra l’Italia del boom economico, la Livorno degli anni Cinquanta, più concreto ora che la Trw è stata comprata dalla tedesca Zf. Perfino le Moto Fides, che portano nel nome lo stemma di Livorno, sono in mano ai tedeschi della Pierburg.
«Negli anni ‘90 Livorno era una fabbrica, ora è un deserto. Non chiudi noi, chiudi una città», dice Stefano Sodano, operaio della Trw iscritto alla Fiom. «Le multinazionali vengono, dissanguano il territorio, prendono quello che vogliono e se ne vanno. Dovrebbero essere obbligate a presentare piani industriali con incentivi su costi energia e rifiuti. L’articolo 18 non c’entra nulla. A Livorno la prospettiva dell’abolizione non serve ad attrarre investimenti, né la sua esistenza ha difeso il nostro posto di lavoro». Il 16 settembre ha chiuso la Mtm, la maxi-fabbrica delle auto Gpl che aveva assunto 900 lavoratori grazie agli incentivi statali. Già si prepara la crisi futura, ampiamente annunciata, il grande stabilimento dell’Eni dirimpettaio della Trw, 1200 lavoratori, 470 nella raffineria. L’ente fa circolare la voce di una possibile cessione, si fa avanti il compratore, il finanziere anglo-americano Gary Klesch che già ha provato a rilevare la Lucchini di Piombino e l’Alcoa di Portovesme. A smentire ci pensa Nogarin, con un comunicato, dopo un incontro con Klesch. «È venuto da me a protestare perché viene messo in discredito», dice il sindaco. «Io sono sconcertato da come si pensi di sgretolare e mettere in vendita l’Eni di Mattei. Il mio cuore batte per l’impresa pubblica nazionale». E il sito “SenzaSoste”, voce critica e lucida, annuncia il prossimo fronte, l’impatto sulla città del crollo del Monte dei Paschi: «Decenni di politica in discrezione, in segreto, ci lasciano senza strumenti per prendere decisioni».
Sulla Trw sta salendo la tensione. C’erano anche gli operai di Livorno al ministero dello Sviluppo economico il giorno degli incidenti di piazza con la polizia che caricava i lavoratori di Terni. «Siamo preoccupati per l’atteggiamento irresponsabile dell’azienda che ha ottenuto dai lavoratori e dal territorio ogni risposta e che ora valuta di chiudere in tempi rapidi», ammette l’assessore al Lavoro della regione Toscana Gianfranco Simoncini. La regione ha chiesto al governo per Livorno il riconoscimento di area complessa di crisi: «Il porto ha avuto difficoltà, l’Eni ci preoccupa, l’industria fa fatica, in una zona che ha una storia produttiva completamente diversa dal resto della Toscana. Serve una risposta complessiva». In città c’è stata l’irruzione in corteo all’assemblea di Confindustria e l’occupazione della sede, il trattenimento forzato del direttore dello stabilimento, altre azioni si annunciano in vista di uno sciopero cittadino annunciato per il 15 novembre. È venuta la leader della Cgil Susanna Camusso, accolta senza entusiasmi. Molto affollata l’assemblea ai cancelli con il capo della Fiom Maurizio Landini che ha citato lo slogan del suo maestro Claudio Sabattini: «Restare in piedi un minuto più dell’avversario». Mentre l’altra sponda, la Livorno della politica, si consuma nelle sue divisioni.
Il vecchio Pd ex Pci-Ds non si è ancora ripreso dalla storica sconfitta elettorale. Il nuovo Pd di Renzi non è mai nato, chissà se ha voglia di farlo. E i veleni scorrono indisturbati nei canali dove passava l’Annina di Giorgio Caproni: «Per una bicicletta azzurra/Livorno come sussurra!». A Livorno si sussurra che Nogarin stia cercando l’accordo con il gruppo perdente del Pd guidato dall’ex candidato sindaco Marco Ruggeri. «Faranno l’accordo per nominare il nuovo presidente dell’autorità portuale», si dice, la poltronissima ora occupata da Giuliano Gallanti. Nogarin ha già lanciato segnali di continuità con il passato: il capo di gabinetto Massimiliano Lami, è lo stesso delle giunte di centro-sinistra, il nuovo dirigente generale del Comune è Sandra Maltinti che fu arrestata (e poi prosciolta) all’Elba. A Livorno si sussurra molto sull’ex sindaco Alessandro Cosimi, personalità forse troppo ingombrante per una covata di dirigenti senza carisma, trasformato dopo il voto nel capro espiatorio. È tornato alla professione, medico anatomopatologo, sarebbe l’uomo giusto per fare l’autopsia al cadavere del Pd livornese. Nelle ultime elezioni provinciali, con i sindaci e i consiglieri comunali che votavano per se stessi, il Pd ha fatto l’accordo con Forza Italia, presidente della Provincia è stato nominato il sindaco di Rosignano Alessandro Franchi, segretario del partito sarà il sindaco di Colle Salvetti Lorenzo Bacci, renziano doc, nella nuova provincia c’è un solo consigliere di Livorno città. Organigrammi manovrati da Firenze, da Stefano Bruzzesi, il nuovo uomo forte del partito toscano, il responsabile enti locali del Pd che ha stretto l’accordo con Denis Verdini sulla nuova legge elettorale toscana, ieri era con Lamberto Dini, oggi con Renzi. I livornesi sospettano che da Firenze sia partito l’ordine di spazzare via quel che resta del Partitone rosso che a Livorno prese vita. Emarginare le figure forti come Cosimi, spezzare l’antica Ditta senza costruire una classe dirigente alternativa. Puntare sul vuoto. Dismettere il Partito, come se fosse una vecchia fabbrica. È questa la strategia di Renzi il Gattopardo delle scritte sui muri? In città si sussurra, ed è l’ultima folata di vento, che proprio da qui, in vista delle elezioni regionali, prenderà corpo una nuova separazione. Sarebbe la seconda scissione di Livorno e, come diceva il vecchio barbone, la storia si ripete in farsa. Ma non è commedia la fine del lavoro, la luce che si spegne negli stabilimenti. A Livorno come in Italia.