Andrea Tarquini, il Venerdì 7/11/2014, 7 novembre 2014
TATTICA DEL SALAME COSÌ ORBÁN SOGNA LO STATO ILLIBERALE
BERLINO. «Internet libero», «giù le mani della rete», «i contatti umani appartengono a noi, non al potere» gridavano a migliaia in piazza i giovani in centro, domenica 26 settembre. Sfidavano l’ultima misura del governo, la tassa annunciata sull’uso del web, un tanto a gigabyte. Due giorni prima, nell’ambasciata americana il diplomatico più alto in grado lanciava attacchi durissimi: «Con questa politica liberticida, questo Paese non potrà continuare a lungo a essere un alleato attendibile, un partner con cui avere rapporti normali». Dove siamo? Forse in Iran, a Hong Kong o in Venezuela. No, siamo in Ungheria, Paese membro dell’Unione europea e della Nato. Un passo dopo l’altro, rafforzato dalla vittoria alle elezioni locali, il popolare premier-autocrate Viktor Orbán prepara l’ennesimo giro di vite. E con poche eccezioni la Ue dei potenti, a cominciare da Angela Merkel, tace.
«La tassa su internet serve al consolidamento dei conti pubblici, e adegua il fisco ai nuovi comportamenti, il web è usatissimo» dicono i portavoce ufficiali. E assicurano: «Sarà deducibile dalle tasse». Per le aziende, almeno. Ma non convincono: proprio internet, mi dicono giornalisti critici, è il luogo dove l’informazione libera nell’Ungheria di Orbán, o meglio quel che ne resta, ha più spazio e più audience. E allora la tassa può strozzare economicamente i siti di news indipendenti. Pubblicità col contagocce ai media cartacei non filogovernativi, frequenze negate alle radio libere, adesso il colpo alla rete.
Mátyás Rákosi, il feroce «piccolo Stalin» ungherese, dittatore del dopoguerra, parlava di «tattica del salame»: affetta l’opposizione, o il «nemico di classe», una fetta dopo l’altra. La tattica di Orbán evoca quel sinistro ricordo, suggeriscono gli intellettuali perseguitati e tollerati dalla vecchia dittatura, emarginati e licenziati dalle università oggi, come Agnes Heller indagata per «malversazione» dopo aver ordinato traduzioni critiche dei filosofi della Grecia antica per l’università. Tassa un tanto a gigabyte, vuol dire anche, tecnicamente, la possibilità di controllare cosa scarichi dalla rete, su quali siti navighi.
In Cina, in Iran, nella Turchia di Erdogan, è normale. «Ma purtroppo Orbán è coerente» afferma un diplomatico europeo. Pochi mesi fa, parlando a un pubblico di suoi fan a Tusnad, nella zona della Romania dove vive una forte minoranza magiara, aveva esposto la sua teoria: ci vuole «uno Stato illiberale che abbia i suoi valori costitutivi nelle fondamenta e nei valori della Nazione», perché «il liberalismo non è mai stato adatto a servire l’idea nazionale, e meno che mai a incoraggiare gli ungheresi nel loro desiderio di preservare le loro ricchezze e le loro idee. E allora è il momento di dire la verità». Fascismo al gulash al posto del «morbido» socialismo al gulash di Kádár, ironizzano le vignette sui media tedeschi. Merkel no, lei tace, e la Fidesz, il partito di Orbán, siede tranquillo nei ranghi dei Popolari europei.
Silenzio in Europa sulla prossima tassa su internet, a parte poche eccezioni come l’attenta commissaria europea uscente per l’agenda digitale Neele Kroes, che ha denunciato la nuova stretta. Si muove sul serio, e alza la voce, solo l’America di Obama. Ha appena stilato una lista di sei altissimi leader e funzionari pubblici ungheresi, dichiarati persona non grata negli States in quanto ritenuti colpevoli o correi di gravi casi di corruzione. I nomi dei sei sono segreti, ma secondo quel che resta a Budapest dei media indipendenti, alcuni di loro sono persone vicinissime a Orbán, fino all’amicizia personale. Péter Szijjártó, ministro degli Esteri magiaro, è volato a Washington per protestare, e il Segretario di Stato John Kerry si è rifiutato di riceverlo.
La replica indiretta del potere di Budapest è venuta pochi giorni dopo: alla Magyar Rádio és Televízió, la radio-tv pubblica saldamente in mano ai governativi, è stata messa a capo dei programmi religiosi e delle trasmissioni per l’estero Beatrix Siklósi, una giornalista nota per le sue frequenti, battute razziste contro i rom e per aver invitato anni fa in studio lo storico negazionista britannico David Irving. La battuta preferita della signora Siklósi: «Guardate, una casa in fiamme, neri, zingari e musulmani bruciano, si salva tra gli inquilini solo una coppia bianca, sapete perché? Perché non erano in casa, loro vanno a lavorare». L’Unione europea ha da poco confermato il suo semaforo verde alla sua nuova tranche di aiuti (fondi di coesione) all’Ungheria, per l’esattezza 21,9 miliardi di euro che Bruxelles verserà a Budapest di qui al 2020. Soldi dei contribuenti europei all’autocrate che vede i suoi interlocutori preferiti nel mondo a Teheran, Ankara, Mosca e Pechino. Quindi anche soldi vostri, cari lettori.