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 2014  novembre 07 Venerdì calendario

MR. BESTELLER I PRESUME


CITTÀ DEL CAPO. «Nel lasciare disposizioni per il suo funerale, un americano ha chiesto che lo seppellissero insieme a tutti i miei romanzi. Così la sua famiglia mi ha inviato la foto. Vuole vederla? L’avverto, è un po’ raccapricciante...». Wilbur Smith, 81 anni, festeggia mezzo secolo d’attività e 122 milioni di copie vendute nel mondo, eppure ha l’aria di essere ancora sbalordito di quel successo non programmato. «Sei mesi fa una giornalista della Bbc ha battezzato suo figlio ‘‘Wilbur”, in mio onore. Mentre un ragazzo australiano, che per una bravata ha perso una gamba, mi ha scritto di aver ritrovato la forza di vivere seguendo l’esempio di un mio eroe di guerra, mutilato dall’esplosione di una mina. Mi commuove pensare che i fan mi prendano così sul serio. Sono un cantastorie, ma mi trattano come un profeta».
«Perché sei fantastico, amore mio» lo interrompe la moglie Niso (quarta Signora Smith, di 39 anni più giovane), porgendogli uno smartphone. «Leggi il messaggio Facebook ricevuto stanotte». Lui obbedisce: La ringrazio per il suo ultimo romanzo. Ho trascorso 27 anni nell’Esercito britannico, sempre ispirato dai suoi libri. Ora, in pensione, soffro di disturbo post traumatico da stress e solo le sue storie mi danno gioia. I coniugi Smith si baciano soddisfatti.
Sono nel giardino della loro villa, un grappolo di edifici bianchi con piscina e campo da tennis in una delle zone più esclusive di Città del Capo, barricati dietro un muro di cinta con filo spinato, che una squadra di operai neri sta alzando ancora, per renderlo sempre più invalicabile. Dentro, grate alle finestre, allarmi, uomini di guardia: in effetti, solo il diamante al dito di Niso, delle dimensioni di una noce, meriterebbe una scorta armata.
Sul tavolo, tra le chicchere e i piattini del tè, c’è il nuovo romanzo di Smith, Il Dio del deserto (Longanesi, pp. 496, euro 19,90): il quinto volume del ciclo sull’antico Egitto che, tra amori ardenti e stragi di invasori, vergini da custodire e intrighi da sventare, sortilegi, profezie e riti magici, ripropone la figura di Taita, l’eunuco nato schiavo e arrivato a reggere nell’ombra le sorti del Nilo, il filosofo poeta che tutto fronteggia e risolve. «Taita è il mio alter ego» sbotta Smith. Poi frena: «Non che io mi senta una creatura così superiore. Ma mi piacerebbe esserlo. Come me, Taita è svettato dall’ombra al successo. Come me, adora l’avventura e non ammette il fallimento. Odia o ama. Senza sfumature intermedie».
Le sfumature non sono mai state il punto forte di Wilbur Smith: i critici hanno parlato di trame un po’ schematiche, personaggi poco sfaccettati, esplosioni caricaturali di sesso e violenza. Una delle chicche: «La sferza lo colpì al viso e gli fece schizzare fuori dall’orbita il bulbo oculare destro che, ancora attaccato al nervo ottico, gli penzolò sulla guancia». Ma il re indiscusso dell’avventura, il Salgari dei giorni nostri, se la ride di gusto: più di cento milioni di lettori in 36 Paesi del mondo, dall’lslanda al Giappone, non possono aver preso tutti la stessa cantonata. E nessuno dei suoi 36 romanzi è mai andato fuori catalogo: un vero primato. Come il successo in Italia – Paese di non lettori per eccellenza – dove Wilbur Smith è lo scrittore più venduto, con un record di 24 milioni di copie.
«Noi e voi, africani e italiani, abbiamo molto in comune: i nostri scambi risalgono ad Annibale e continuano tuttora nel viavai del Mediterraneo» spiega l’autore, nato e cresciuto nella Rhodesia Settentrionale (l’attuale Zambia) e trasferitesi poi in Sudafrica. «Ci piacciono le belle donne, il sesso e il successo, il machismo, il buon vino. E parlare a voce alta». Tutti ingredienti della ricetta Smith, un nome che è una garanzia di rassicurante normalità, l’equivalente del nostro Rossi. Niso si intrufola: «Tesoro, fai vedere la medaglia che ti ha dato l’anno scorso il sindaco di Milano». Docile a quella creaturina esile e determinata che lo ancora alla giovinezza, lui esibisce il Sigillo della città conferitegli da Pisapia. Mentre lei rintraccia le statuette dorate del dio Pan, che l’editore Pan Macmillan dona ai propri autori ogni volta che un titolo raggiunge in paperback il milione di copie: «Il mio Wilbur ne ha conquistate 27. Ian Fleming, con il suo James Bond, solo cinque».
In futuro i numeri sono destinati a crescere in modo esponenziale. Una schiera di ghost writer sta ora riadattando tutti i suoi romanzi per un pubblico tra i 12 e i 18 anni: spurgandoli dalle scene di sesso e farcendo di eroismi l’avventura. E nel 2012 Smith ha lasciato il suo vecchio editore inglese per firmare un contratto con HarperCollins, che gli consente di far scrivere dei coautori, limitandosi a dare al loro testo un tocco finale «alla Wilbur Smith» (si parla di un accordo da 19 milioni di euro per sei titoli). Il Dio del deserto, giura, è di suo pugno. Ma il prossimo racconto sarà a quattro mani. «Ho ancora molte idee e il tempo stringe. Niso mi ha convinto: la formula ha funzionato anche per un celebre autore con le mie stesse iniziali, W.S., che pare si servisse di scrittori fantasma. Sa di chi parlo?» Non intende mica William Shakespeare, vero? «Proprio lui».
Ma a mollare un po’, Smith, non ci pensa proprio? «Ho visto autori di bestseller tirare i remi in barca: il pubblico ti dimentica subito e il passo successivo è il cimitero. È Niso a tenermi in pista». E in forma: Wilbur dimostra dieci anni di meno. La quarta signora Smith gli ha ritoccato il vecchio aspetto impiegatizio con jeans Dolce & Gabbana e nuca rasata alla Bruce Willis. Ha acquistato tapis-roulant e cyclette (si intravedono dalle finestre). E, inesausta, organizza viaggi. L’estate scorsa in Canada a pesca di salmoni, ottobre negli States a pubblicizzare il libro, novembre in Botswana per un safari fotografico, dicembre in Giappone a sciare: «Avevo uno chalet in Svizzera, ma non più: Niso preferisce i grandi alberghi alla noia di gestire troppe case. E ho venduto un’isola nelle Seychelles: Niso è allergica al corallo».
Collabora anche al lavoro di suo marito, signora Smith? «Non certo alla confezione dei suoi romanzi. Ma faccio tutto il resto, perché lui debba solo pensare a scrivere. È come se fossi il direttore generale della Smith Enterprise. Mi occupo del benessere di Wilbur e curo il marchio: i contratti, la pubblicità, la complessa contabilità con le case editrici di 36 Paesi. La salute dei conti in banca». Lui interviene raggiante: «Il denaro che guadagno va tutto a Niso, che è bravissima ad amministrarlo». Mr. & Mrs. Smith si sono conosciuti nel 2000, in una libreria di Londra: lei, 28 anni, nata e cresciuta nel Tagikistan sovietico (il suo nome completo è Mokhiniso Rakhimova), stava acquistando un thriller di Grisham. Lui, 67 anni, tre mogli e 27 bestseller alle spalle, le ha messo in mano una suspense firmata Smith e l’ha invitata a pranzo. Poco dopo erano sposati. Morale della favola: può valere la pena entrare in libreria a comprare un libro.
In fondo quella con Niso è solo l’ultima, baldanzosa, avventura di una vita così ricca di rischi e colpi di scena da far apparire monotoni i romanzi di Wilbur Smith. Che ancora in fasce è sopravvissuto alla terribile malaria cerebrale, a 16 anni alla poliomielite (tutt’oggi zoppica), a 20 alla Bilharzia (verme dei fiumi che attacca l’intestino). Che è cresciuto nel ranch del padre: 12 mila ettari di foresta e savana e, a curare il bestiame, cinquanta dipendenti neri. Che ha imparato a usare il fucile a 8 anni, a guidare la jeep a 9, a cavarsela da solo a 12: «Una notte che i miei genitori non c’erano, tre leoni hanno ucciso 12 dei nostri capi. Li ho affrontati mentre li stavano sbranando. Uno mi ha caricato: ho ammazzato prima lui poi gli altri».
Era bravo Wilbur con le armi: «Uno dei miei compiti, da ragazzino, era proteggere dai coccodrilli il bestiame che si abbeverava al fiume. Le scaglie degli alligatori si intravedevano sotto il fango e... pum!». Con buona pace degli animalisti. «Ho ucciso sei elefanti in vita mia e sono convinto che legalizzare la caccia sia un modo per preservare la specie. Chi fa un safari punta ai maschi anziani e inutili. I cacciatori di frodo sparano alle bestie giovani, per venderne la carne». E non sparare per niente? Smith sgrana gli occhi stupefatto. Basta leggere i suoi libri per scoprire che il politically correct non è la sua qualità principe, non solo nei confronti degli animali. La sfida più eccitante? «Quella con il bufalo. Dicono che è difficile ucciderlo. Non è vero: è difficile convincerlo che è morto. Perché se non lo fai secco al primo colpo, torna a prenderti. Alle spalle. E sono guai. Ne ho stesi più di cinquanta in vita mia».
La bestia più pericolosa? «L’uomo. Ho conosciuto il rumore delle pallottole sparate contro di te, quando ho combattuto nella guerra civile in Rhodesia». Exploit virili di famiglia. Nonno cacciatore e guerriero: comandò una batteria di mitragliatrici nella guerra anglo-zulu. Padre macho, facile alla cinghia, accanito nemico dei libri, roba da donnette. Per fortuna c’era la madre, avida lettrice, che ogni sera gli leggeva magnifiche storie. Perché anche per sopravvivere ad anni di collegio, in una sorta di Eton del Sudafrica, ci volle coraggio: «Giù frustate, inverni artici, cibo da schifo. E durante le vacanze universitarie, papà voleva che guadagnassi due soldi sulle baleniere. O nelle miniere d’oro».
Il tutto per approdare a un noiosissimo lavoro di contabile del fisco. Per scrivere un primo romanzo rifiutato da ogni casa editrice d’Africa e d’Europa («Volevo che contenesse tutta la saggezza dell’umanità, senza aver conosciuto altro che la boscaglia»). Per sposarsi così giovane da ritrovarsi separato con due figli a 24 anni. «Pagare gli alimenti mi ridusse in bolletta. E non potendo permettermi neanche una birra, passavo le serate a tentare un secondo romanzo». Questa volta scrive della sua Africa. È la svolta. E una nuova avventura: lascia la vita da travet per scrivere a tempo pieno. Risposarsi e separarsi di nuovo, dopo un terzo figlio.
Con Niso che entra ed esce dalla stanza, cambiando abiti e gioielli a ogni scatto del fotografo, i suoi matrimoni passati sono no comment. Soprattutto quello con la terza moglie Danielle, compagna per trent’anni, a cui i libri venivano dedicati come oggi a Niso, e a quei tempi era presentata come indispensabile collaboratrice nelle ricerche per i suoi romanzi. Danielle è morta di cancro al cervello, dopo sei anni di calvario. Ma è venuto fuori che ha fatto di tutto per allontanare da Wilbur i suoi tre figli e avvicinarlo invece al proprio, Dieter, avuto da precedenti nozze. «I miei figli sono per me dei veri estranei» ammette il padre. E contro Dieter si scaglia Niso: «Dopo il nostro matrimonio ha fatto di tutto per distruggere la carriera di Wilbur in tribunale: sosteneva che a scrivere i suoi romanzi era stata sua madre, nell’ombra, e che quindi gli spettava la metà dei diritti d’autore. Un inferno. Ma abbiamo stipulato un accordo».
Faide per una torta troppo ricca. Prima dell’incontro con Niso ci fu addirittura una escort che ricattò lo scrittore a mezzo stampa. Lui ne ride: «Sono un uomo: ha solo pubblicizzato la mia virilità». In fondo a vincere su tutto e tutti è stata la Smith Enterprise, come la chiama Niso. «Sono la donna più fortunata del mondo: ho più gioielli di quanti ne possa mai indossare».
E lui: «La mia adorata moglie si preoccupa così tanto per me da non volere che vada con lei in Tagikistan: ha paura che venga rapito...». Sembra di essere in un romanzo di Wilbur Smith.
Antonella Barina