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 2014  novembre 07 Venerdì calendario

PARLIAMO UN PO’ DI FIORI. L’ANARCHICO HIBISCUS TARDIVO, CHE CAMBIA COLORE OGNI GIORNO. BIANCO QUANDO SBOCCIA, ASSUME VIA VIA TUTTE LE TONALITÀ DEL ROSA FINO AL ROSSO

Chi lavora in giardino sa bene quanto sia importante capirsi: i nomi botanici fugano le incomprensioni, gli errori e le conseguenti delusioni. E soprattutto parlano chiaro: se considerati con attenzione possono rivelare informazioni importanti, spesso essenziali, e molte volte divertenti. Come l’ibisco che ho trovato alla mostra mercato di Masino, il cui nome è già tutto un programma: l’Hibiscus mutabilis «Immutabilis», eccezione dell’eccezione.
Tra i più rustici del loro genere, gli ibischi «mutabilis» sono anche quelli a fioritura più tardiva: iniziano a sbocciare nell’estate inoltrata, ma è d’autunno che danno il loro meglio. Se poi la stagione è mite,continuano a fiorire ininterrottamente fino a dicembre, e non soltanto in Riviera, ma anche nei freddi giardini del Nord, piantati in un posto caldo e riparato, possono portare un tocco di esotismo, forse un po’ incongruo, ma proprio per questo curioso ed affascinante.
Ma venendo al nome, si dice «mutabilis» perché il fiore, effimero come in tutti gli ibischi, cambia colore giorno dopo giorno: quando si schiude è di un bianco candido, per poi assumere tutte le tonalità del rosa e arrivare fino al lampone e, nella varietà «rubra», al rosso scarlatto. Fiori chiari, appena sbocciati, convivono sulla pianta con altri scurissimi ed ormai già quasi appassiti.
Proveniente dalla Cina, fu portato in Europa verso la fine del XVII secolo da Costantinopoli, dove da più di cento anni i suoi famosi cugini, gli Hibiscus rosa-sinensis, allietavano i ricchi ed esotici giardini del Sultano. Dall’Europa arrivò negli Stati Uniti e lì fu vero successo, tanto che il suo nome comune è proprio quello di «Confederate rose», il fiore della allora neonata Confederazione. Altro nome comune è «Cotton rose», per via dell’ovario lanuginoso in cui maturano i semi. D’altronde la famiglia non è la stessa di quella del cotone?
Tra tutti gli Hibiscus mutabilis ne esiste uno più anarchico degli altri, che ama andare contro regole ed eccezioni, non mutando affatto colore: per l’appunto l’Hibiscus mutabilis «Immutabilis», che nasce, vive e muore sfoggiando un rosa magenta intenso, brillante e stabile.
Me lo ha proposto e consigliato Davide Picchi, del vivaio La Casina di Lorenzo, in Lucchesia: è una recentissima selezione, dalle foglie profondamente palmate e dal fiore grande e semplice, forse un po’ più robusto degli altri. Oltre al lungo e precoce periodo di fioritura, ha molte altre qualità. Se ben nutrito e soprattutto se molto innaffiato, cresce vigoroso e veloce, raggiungendo anche i tre metri d’altezza.
A differenza degli altri ibischi (soprattutto quelli «mutabilis»), anticipa la fioritura di un buon mese, iniziando a sbocciare già in luglio, senza nulla togliere al successivo show autunnale. Vuole un terreno umido e fertile, posizioni soleggiate e protette nei giardini più freddi, mentre al caldo tollera anche un’ombra leggera e luminosa. Dove d’inverno gela è spesso coltivato come un’erbacea perenne, perdendo la parte aerea ogni anno: un’adeguata pacciamatura comunque può fare dei veri miracoli.
Quella degli ibischi, nel mio giardino, è una vecchia storia. Il caldo e soprattutto la siccità di luglio ed agosto si sono sempre comportati da crudeli giustizieri. Da poco tempo una piccola perdita d’acqua ha reso umido ed agibile un lembo altrimenti insignificante del mio orto: approfittando della perdita e ad una certa distanza dall’Hibiscus mutabilis «Immutabilis», è stato piantato un piccolo gruppo di Hibiscus «Old Yella», un ibrido a grandi fiori molto pallidi, color della luna, arrivati pure loro da pochi mesi da un vivaio svizzero.
Spavaldi e robusti, e soprattutto molto fioriferi, quasi quasi riescono a non far rimpiangere i freddolosi e troppo delicati (per il posto!) Hibiscus rosa-sinensis: belli e qui impossibili, se non coltivati in vaso e ritirati a fine autunno in una serra fredda e luminosa.
Paolo Pejrone, La Stampa 7/11/2014