Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2014  novembre 07 Venerdì calendario

RENZO PIANO E IL PIÙ GRANDE MUSEO D’ARTE ANTICA, MODERNA E CONTEMPORANEA, DA LUI CREATO NEL CUORE DI HAVARD, L’UNIVERSITÀ PIÙ FAMOSA D’AMERICA E DEL MONDO

«È come imbattersi in una piazza rinascimentale di Montepulciano, nel cuore di Harvard. Una prospettiva singolare. È la prova di quanto sia ammirata qui in America la visione italiana della città, della civitas. Non voglio solleticare il nostro ego nazionale, però va pur ricordato che i nostri talenti non sono affatto disprezzabili». Renzo Piano inaugura oggi la sua nuova creatura. Un oggetto sorprendente: un grande museo d’arte antica, moderna e contemporanea, nel cuore dell’università più famosa d’America e del mondo. Harvard ha accumulato in quasi quattro secoli di storia innumerevoli donazioni di opere d’arte di grande valore, una stratificazione di lasciti da parte di generazioni di grandi mecenati americani che vi hanno studiato. Finora questo tesoro era sparpagliato in tre sedi diverse e seminascosto, da oggi ha un degno contenitore. È la “scatola” di legno ideata da Piano, leggerissima e fatta in uno speciale legno chiaro dell’Alaska. Che si fonde con due edifici preesistenti, li illumina con immense vetrate aperte sul cielo, e affianca un palazzo di Le Corbusier. È singolare che la regina delle università di élite, famosa soprattutto perché nella sua Business School forma la classe dirigente americana e globale, abbia deciso di investire tanto nell’arte e nell’umanesimo. In questa intervista in anteprima a Repubblica, Piano ci spiega la genesi del progetto. Chi lo avrebbe mai detto, Harvard ha una specie di tesoro del Louvre, e non lo sapeva nessuno...«La storia di questa università coincide con quella del capitalismo americano. Non a caso, tra i mecenati che hanno contribuito alla costruzione del museo ci sono cognomi che tutti conoscono come Rockefeller e Pulitzer. La ricchezza di queste collezioni è entusiasmante. C’è arte antica, dall’India all’Egitto, dal buddismo cinese a quello giapponese. L’Italia è ben rappresentata, da Fra Angelico a Bernini. E poi la pittura olandese del Seicento con gli impressionisti francesi, l’arte astratta degli anni Venti, la Bauhaus. Finora di tutto questo si poteva vedere una minima parte. Sono 250.000 opere d’arte».E il “contenitore” del nuovo museo, in parte viene da Montepulciano. Ci racconti questa strana storia...«Comincia alla fine dell’Ottocento con un architetto americano che s’innamora di un palazzo rinascimentale di Montepulciano. E si mette in testa di rifarne la facciata qui, identica. Poteva essere un’operazione kitsch, come se ne fecero tante nell’America di allora, piena di complessi d’inferiorità culturale, impegnata a scopiazzare stili euro- Invece la riproduzione della facciata di Montepulciano è stata rigorosa, anche nei materiali usati: travertino della cava di Tivoli. La facciata è stata replicata quattro volte, fino a formare il quadrilatero di una piazza all’italiana. Proprio quello che mi serviva. L’ho pulita, alleggerita, rialzata, bagnata di luce naturale. Ora, se ti corichi a terra al centro del museo vedi... Montepulciano, e là sopra il cielo!».L’idea della città all’italiana risponde a una richiesta dei committenti. L’università vuol fare la pace con Cambridge-Boston?«Harvard è stata a volte accusata di arroganza. Non è facile il rapporto con i vicini di casa, quando si è l’università numero uno, polo d’attrazione della élite. Con Cambridge-Boston i rapporti sono stati di amore-odio. Per fare questo museo hanno scelto me perché sentivano bisogno di un europeo, portatore di cultura umanistica, per pacificarsi con la città».E qual è il suo ramoscello d’ulivo?«Un museo che più aperto non si può. Il pianterreno è uno spazio aperto, non si paga biglietto, lo si può attraversare anche solo per spostarsi da una parte all’altra del campus e della città. Questo piano è dedicato alla comunità cittadina, si fa invadere e abbracciare dagli abitanti. Secondo e terzo piano sono per l’esposizione delle collezioni. Il quarto è dedicato allo studio: lì si insegna ad amare l’arte, e a insegnare l’arte. Il quinto è il laboratorio di restauro, ben visibile per il pubblico che può ammirare le tecniche di recupero delle opere antiche».Tra le sue opere più importanti, in questo momento due hanno per committenti le università: Harvard e Columbia.«L’istruzione universitaria resta uno dei punti di forza dell’America. Loro sono interessati a inventare un nuovo tipo di campus urbano, non separato dal tessuto sociale. Investire nella bellezza è un modo per dialogare con la società civile». Lei cominciò, per così dire, con il Centre Pompidou di Parigi. C’è una continuità?«Quando costruisci un museo, devi far respirare la mente. L’emozione della visita a tante opere d’arte affatica testa e gambe. Ci vogliono spazi di riposo, di raccoglimento. Il museo non dev’essere magniloquente, non deve intimidire. In questo caso mi sono fatto aiutare dal legno di cedro giallo dell’Alaska, un materiale naturale che respira, la pelle dell’edificio. Questa parte la chiamano barn, che evoca il granaio, il fienile, il deposito di una fattoria del New England».
Federico Rampini, la Repubblica 7/11/2014