Paola Bottelli, Il Sole 24 Ore 7/11/2014, 7 novembre 2014
QUATTRO CAPI SU DIECI SONO PRODOTTI ALL’ESTERO
L’industria italiana della moda produce quattro capi su dieci fuori dai confini nazionali: il segmento uomo e la maglieria oltrepassano la media, mentre il segmento donna, l’abbigliamento e la calzetteria sono di poco sotto.
Il dato, elaborato dal Sole 24 Ore sulla base delle statistiche di Sistema moda Italia, non può meravigliare più di tanto gli addetti ai lavori. E, anzi, rischia di apparire sottostimato rispetto alla tendenza consolidata sia da parte delle aziende del lusso sia da parte dei marchi che presidiano il lusso accessibile e il segmento medio-fine del mercato.
Ogni impresa, infatti, va alla ricerca delle fonti di approvvigionamento più convenienti, soprattutto in termini di costo del lavoro: Paesi a minor impatto della manodopera rispetto al nostro, tra cui spiccano la Romania e l’Est europeo, l’area del Mediterraneo e l’Asia, in primis la Cina.
Domenica scorsa, la puntata della trasmissione "Report" dedicata alla moda ha creato scalpore mettendo tra l’altro a confronto il costo dichiarato di un piumino Moncler prodotto in una regione della Moldavia con la cifra espressa sul cartellino in negozio: è bene sottolineare che i ricarichi dell’industria del lusso - e non solo di quella - uniti ai costi della materia prima, dei trasporti, della logistica, del marketing, della comunicazione (così importante nel settore) formano un prezzo che deve rispettare l’equilibrio fra domanda e offerta. L’unica legge, in pratica, che regola il mercato per questo genere di beni: se il consumatore desidera ardentemente quel brand, può essere pronto a pagare anche più del valore comunemente percepito.
Ma il lusso non dovrebbe essere tutto made in Italy? Soltanto qui in Italia c’è ancora quella filiera talmente unica - dal tessile all’abbigliamento, dalla concia alle scarpe e alla pelletteria, passando per occhiali e gioielli - da garantire quasi 20 miliardi di surplus della bilancia commerciale a fine 2014. Una filiera di know how che infatti suggerisce ai colossi francesi (oltre che americani, inglesi e di altre nazionalità) di acquistare intere fabbriche qui da noi o affidarsi a laboratori di terzisti più o meno in esclusiva. Dunque il rischio è che, per assicurarsi margini appetitosi, le aziende italiane facciano produrre all’estero cospicui volumi, mentre i francesi - che pure quei margini devono esibire nel conto economico - "occupino" l’intera capacità produttiva made in Italy.
Certo, se il consumatore dei mercati emergenti (ma anche di quelli maturi) vuole la qualità made in Italy, può essere che non pochi protagonisti del settore decidano di affidarsi al cosiddetto "reshoring", cioè il rimpatrio delle produzioni delocalizzate. Se ne parla molto, in realtà soprattutto negli Usa (e per tutti i settori manifatturieri), ma in Italia e nel resto d’Europa questa formula è ancora agli albori.
Ad analizzare il fenomeno è Uni-Club MoRe Back-Reshoring Research Group, formato da cinque Università italiane, che ha raccolto da fonti diverse oltre 400 casi di diversi Paesi registrati tra il 2009 e oggi: la radiografia riguarda sia il back-reshoring, cioè lo spostamento delle produzioni da aree lontane come la Cina e il Sud-Est asiatico direttamente in Italia, sia il near-reshoring, cioè il trasloco dall’Asia verso Paesi più vicini all’Italia, come l’Est europeo o il Maghreb.
«Il risultato - spiega Marco Ricchetti di Hermès Lab - è che le industrie italiane di tutti i settori che hanno fatto operazioni nei due diversi filoni sono 91 e di queste 42 riguardano il tessile-abbigliamento. I motivi principali del rientro o del riavvicinamento sono da ricercare essenzialmente nel differenziale salariale tra Paesi occidentali e Cina, che si è progressivamente ridotto, mentre i costi di trasporto e logistica sono aumentati. Inoltre, l’allargamento degli standard tipici del fast fashion anche a molte altre aziende, incluse quelle del lusso, sembra favorire la creazione di aree regionali di scambio».
Se il back-reshoring è così attivo negli Stati Uniti il motivo va ricercato anche nell’impatto dei cambi. «Dal 2002 a oggi - conclude Ricchetti - il dollaro si è svalutato di oltre il 30% rispetto allo yuan cinese che, sommato agli aumenti dei salari in corso nella Repubblica popolare, suggerisce con forza ai produttori Usa di rimpatriare le proprie attività. Nello stesso periodo, per contro, l’euro si è rivalutato del 5% sulla moneta cinese, rendendo più complesse le decisioni in merito al reshoring».
A meno che non sia proprio il consumatore a pretendere il "vero" made in Italy. Come già fa con i marchi più esclusivi.
Paola Bottelli, Il Sole 24 Ore 7/11/2014