Massimo Gaggi, Corriere della Sera 7/11/2014, 7 novembre 2014
I REPUBBLICANI VINCESSERO LE ELEZIONI A MAGGIO, QUANDO È FALLÌ IL TENTATIVO DEI TEA PARTY DI BATTERE ALLE PRIMARIE MOLTI POLITICI DELLA VECCHIA GUARDIA, SOSTITUENDOLI COI LORO CANDIDATI RADICALI
I repubblicani le elezioni (soprattutto il controllo del Senato) non le hanno vinte il 4 novembre, ma a maggio, quando è fallito il tentativo dei Tea Party di battere alle primarie molti politici della vecchia guardia moderata, sostituendoli coi loro candidati radicali. Ammaestrato dall’esperienza del 2010 – quando i conservatori persero il seggio senatoriale del Delaware per il rifiuto degli elettori di votare Christine O’Donnell, pasionaria dei Tea Party tanto ruspante quanto impreparata che aveva soffiato la candidatura all’ex governatore Michael Castle – questa volta l’establishment del partito si è mosso per tempo, sbarrando la strada agli «integralisti».
A differenza dell’Europa, l’America per ora sembra aver imbrigliato i movimenti più estremi e i gruppi xenofobi, ma questo dipende anche dalla peculiarità di un sistema bipartitico nel quale le primarie sono sacre e il finanziamento della politica segue percorsi tortuosi. L’allarme, a destra, scattò un anno fa quando i Tea Party presero di mira addirittura Mitch McConnell, il leader del nuovo Senato repubblicano che stamattina avvierà il negoziato con Obama nel primo confronto bipartisan post elettorale. In Kentucky i Tea Party lo etichettarono come il loro «nemico numero uno» per la sua disponibilità a negoziare e gli opposero Matt Bevin, un uomo d’affari. Appoggiato finanziariamente da miliardari radicali come i fratelli Koch, Bevin diventò subito popolare presentando McConnell come un politicante debole e inconcludente, ormai trasferito in pianta stabile a Washington.
Una raffica di sondaggi negativi per McConnell e altri candidati finiti sotto attacco, fece capire al Partito repubblicano che rischiava grosso. Il senatore tornò nel suo Stato e iniziò una campagna capillare mobilitando tutti i possibili centri di potere. Contemporaneamente il partito oppose alla campagna mediatica sostenuta in Kentucky e in altri Stati dai finanziatori dei Tea Party una controcampagna televisiva ancor più massiccia costruita con furbizia e spregiudicatezza da Karl Rove, lo stratega delle vittorie elettorali di George Bush, e da altri esponenti dell’apparato repubblicano. Il tutto finanziato coi soldi dei SuperPAC, i comitati d’azione politica alimentati in modo assai poco trasparente da ricchi supporter dei due partiti: organismi che, in teoria, dovrebbero condurre solo battaglia politiche di principio, senza entrare direttamente nelle contese elettorali.
In realtà i candidati dei Tea Party sono stati demoliti proprio ricorrendo agli «spot negativi» finanziati anche da questi SuperPAC. Il 22 maggio, quando si è votato in Kentucky per le primarie, Bevin è stato spazzato via da McConnell, che ha vinto con ampio margine (60 a 36). La stessa situazione si è ripetuta in altri Stati: respinti gli attacchi a Lindsay Graham in South Carolina, a Lamar Alexander in Tennessee e a Pat Roberts in Kansas. David Perdue in Georgia ha resistito a tutti gli assalti dei radicali e l’altro ieri è riuscito a imporsi sulla democratica Michelle Nunn che, pure, era la favorita. Particolarmente importanti le vittorie dell’establishment sull’ala estrema in West Virginia e North Carolina. Se non avessero schierato due moderati come Shelley Capito e Thom Tillis, i repubblicani non sarebbero riusciti a conquistare gli indipendenti e a strappare questi due seggi controllati fino a ieri dai democratici. L’unico agguato davvero riuscito ai radicali è stato quello contro Eric Cantor, ex numero 2 dei repubblicani alla Camera.
L’ultima battaglia i moderati l’hanno vinta in Mississippi, dove è stato sconfitto Chris McDaniel. La questione non erano tanto i voti (i democratici qui non avrebbero mai vinto) quanto l’esclusione di un personaggio «radioattivo» come McDaniel che, con le sue sortite razziste e sessiste, avrebbe esposto tutto il fronte conservatore agli attacchi democratici.