varie 7/11/2014, 7 novembre 2014
ARTICOLI SUL CASO JUNKER DAI GIORNALI DEL 7/11/2014
PAOLO BIONDANI, VITTORIO MALAGUTTI E LEO SISTI, L’ESPRESSO -
C’è un buco nero nel cuore dell’Europa, un piccolo Stato grande come la provincia di Bergamo, ma con la metà degli abitanti, appena 550 mila. È il Lussemburgo, membro fondatore dell’Unione europea, stretto tra Francia, Germania e Belgio. È un Paese ricco, ricchissimo. La sua fortuna sono le tasse. Quelle degli altri. Nel senso che da almeno mezzo secolo è diventato la meta preferita delle aziende alla ricerca di un trattamento fiscale di favore.
Dalle multinazionali alle banche, dalle imprese famigliari ai grandi marchi della moda, migliaia di società hanno trovato rifugio all’ombra del fisco leggero dell’unico Granducato superstite sulla carta geografica del mondo. Un sistema cresciuto anche grazie al lungo governo di Jean-Claude Juncker, premier per diciotto anni e ora alla guida della Commissione europea. I documenti che "l’Espresso" pubblica in esclusiva per l’Italia raccontano nei particolari il funzionamento di una macchina che ha consentito al più piccolo Stato dell’Ue di accumulare una ricchezza straordinaria, con reddito pro capite di oltre 100 mila dollari, il più alto del mondo, quasi il triplo di quello italiano.
Sono 28 mila pagine di dossier confidenziali che descrivono gli accordi siglati da oltre 300 società di tutto il mondo, tra cui molte italiane, con le autorità lussemburghesi. Grazie a queste intese, il peso delle tasse è stato ridotto in misura sostanziale, se non azzerato. Il materiale presentato nell’inchiesta de "l’Espresso" è stato raccolto da un network giornalistico americano, The International Consortium of Investigative Journalists (ICIJ), e viene pubblicato in contemporanea da 26 testate di diversi Paesi. I contratti sono tutti siglati Pricewaterhouse (Pwc), la multinazionale della revisione di bilancio e della consulenza che ha assistito le aziende nel negoziato con il governo del Lussemburgo.
Nei file troviamo alcuni dei marchi più conosciuti del business mondiale: da Amazon a Ikea, da Deutsche Bank a Procter & Gamble, da Pepsi a Gazprom, fino alle italiane Finmeccanica e Intesa e ai fondi di Deutsche Bank e di Hines che nel nostro Paese hanno realizzato affari miliardari transitando dal Lussemburgo per risparmiare sulle tasse. Il sistema funzionava, e ancora funziona, secondo un tacito, reciproco accordo. Le aziende spostano nel Granducato flussi finanziari per centinaia di miliardi di dollari e in cambio hanno la possibilità di un trattamento tributario d’eccezione. A farne le spese sono i Paesi d’origine delle società, costretti a rinunciare al gettito sugli affari dirottati nel paradiso fiscale. Secondo ICIJ, sui 95 miliardi di dollari di profitti che le grandi società americane hanno realizzato oltremare nel 2012, passando per il Granducato, hanno lasciato al Fisco del Lussemburgo poco più di un miliardo di dollari, appena l’1,1 per cento.
IL JOLLY VINCENTE
La carta jolly del Lussemburgo, il cuore del reticolo di norme che giocano a suo favore, sono i "tax ruling", altrimenti definiti anche "advanced tax agreement" (ATA). I contratti che "l’Espresso" ha potuto consultare riguardano solo una parte delle migliaia e migliaia di ruling siglati. I testi ottenuti dal network giornalistico ICIJ sono relativi alle transazioni preliminari presentate, per l’approvazione, dalla Pricewaterhouse, a nome dei propri clienti, al "bureau d’imposition", conosciuto in gergo come "sociétés 6". In genere vanno da 20 a 100 pagine, a volte molte di più, specialmente quando vengono riportate, come promemoria, precedenti richieste. I protocolli descrivono architetture finanziarie molto complicate, con rimandi a testi di legge e intese internazionali. Molto spesso si fa ricorso a strumenti finanziari ibridi - è il caso dei prestiti infragruppo - che in sostanza permettono di schivare le tasse sia nel Paese di origine di chi li utilizza, sia, in pratica, in Lussemburgo.
RIFUGIO SOTTO ASSEDIO
I ricchi affari della piazza finanziaria del Lussemburgo, cresciuta anche negli ultimi anni nonostante la crisi internazionale, hanno finito per provocare la reazione dei suoi grandi vicini. E sono partiti gli attacchi, soprattutto dall’interno della Ue. Il Granducato è sotto assedio. Paesi europei come Francia, Germania, Italia e anche gli Stati Uniti, sembrano decisi a chiudere le falle dell’evasione e dell’elusione fiscale internazionale. D’altra parte le cifre parlano chiaro. Ogni anno dai conti dell’Unione spariscono 1.400 miliardi di euro. Pochi mesi fa la Commissione di Bruxelles si è scagliata contro il meccanismo dei "tax ruling" mettendo sotto inchiesta Amazon e Fiat Finance, accusate di aver spuntato un aiuto di Stato illegale. Il mese scorso, poco prima di lasciare l’incarico, il responsabile Ue della concorrenza, lo spagnolo Joaquin Almunia, ha voluto mettere in chiaro che «con bilanci pubblici così striminziti è importante che le grandi multinazionali versino la loro giusta quota di tasse». Sotto tiro sono entrati così anche i già citati strumenti finanziari ibridi. Entro il 2015 il trattamento fiscale di questi titoli dovrà essere uniforme in tutti i Paesi dell’Unione europea, Lussemburgo incluso. Del resto Algirdas Semeta, commissario uscente alla tassazione, è stato chiaro: «Quando si abusa di regole per evitare di pagare qualunque tassa, allora dobbiamo cambiarle».
Fin qui le dichiarazioni d’intenti e i primi, ancora parziali, interventi concreti. Certo è che per un paradossale scherzo della storia, alla presidenza della Commissione europea, chiamata a serrare le fila nella lotta ai paradisi fiscali, è approdato all’inizio di novembre Jean Claude Juncker, primo ministro del Lussemburgo dal 1995 al 2013, dominus e in parte artefice di un sistema fiscale che ha consentito al Granducato di arricchirsi alle spalle del resto del mondo.
LA DIFESA DUCALE
Nel marzo scorso Juncker aveva rilasciato un’intervista dai toni accesi al settimanale tedesco "Der Spiegel", in cui respingeva sospetti e attacchi. «L’affermazione dei socialisti francesi che io favorisco attivamente l’evasione fiscale è un insulto contro il mio Paese e la mia persona», ha scandito il politico più potente del Lussemburgo, designato al vertice della Commissione dai capi di Stato e di Governo dei Paesi dell’Unione e poi confermato dal Parlamento con i voti dei popolari e di gran parte dei socialisti. A luglio, però, mentre si avvicinava il voto per la nomina al vertice della Commissione, i toni di Juncker si sono addolciti e in un discorso tenuto a Bruxelles ha promesso di «combattere evasione ed elusione fiscale (…) per introdurre principi etici nello scenario fiscale europeo».
Il pressing ai confini del Lussemburgo ha però già portato risultati fino a qualche tempo fa impensabili. A metà ottobre, i ministri delle Finanze dei 28 Paesi Ue hanno trovato un compromesso sullo scambio automatico di informazioni fiscali. E per la prima volta anche il Lussemburgo si è impegnato a collaborare con le autorità degli altri Stati membri impegnati in indagini sull’evasione tributaria. L’accordo non entrerà in vigore prima del 2017 e alcuni esperti nutrono dubbi sulle modalità con cui l’intesa di massima raggiunta a livello politico sarà poi tradotta in norme concrete. È la prima volta, però, che il segreto bancario viene messo in discussione dai Paesi, come anche l’Austria, che all’interno della Ue avevano fin qui trovato ogni scappatoia legale per non allinearsi alla posizione comune. I politici del Granducato si stanno preparando ai tempi nuovi. Si spiega anche così l’offensiva di pubbliche relazioni lanciata dal ministro delle Finanze lussemburghese Pierre Gramegna, che il prossimo 2 dicembre sarà in Italia, a Milano, per illustrare alla comunità finanziaria i numeri e le occasioni d’affari del suo Paese. Il mese scorso però lo stesso Gramegna ha ribadito: «Il Lussemburgo non è un paradiso fiscale. Lo dico forte e chiaro».
ITALIAN CONNECTION
Questione di punti di vista. L’Unione europea sembra decisa a metter fine alla disparità di trattamento che hanno fin qui consentito al Paese di Juncker di attirare enormi flussi capitali in fuga dalle tasse. Moltissime le società italiane, anche se di recente la pressione della nostra Agenzia delle Entrate ha convinto molti imprenditori, alcuni grandi nomi come Prada e Dolce & Gabbana, a fare marcia indietro verso l’Italia. Nei documenti riservati della Price compare una folta rappresentanza tricolore. Oltre alle società già indicate, l’elenco comprende altre banche, come Unicredit e Sella. Ma soprattutto la Hines, il grande gruppo Usa che a Milano ha realizzato investimenti miliardari per ridisegnare un intero quartiere del centro città. C’è anche la N&W Global Vending di Valbrembo, citata con il "Project Neptune". È l’operazione che ha portato nel 2008 la numero uno nelle macchine di distribuzione di cibo e bevande ad essere acquistata da Barclays e Investcorp, una finanziaria del Bahrein, con interessi negli Stati del Golfo. Menzionato anche il gruppo Rinascente Upim finanziato nel 2009 dal braccio immobiliare della Deutsche Bank, la Deutsche Bank Real Estate Global Opportunities IB Fund. Incursioni in campo immobiliare sono state fatte in Italia anche dal gruppo inglese European Property Investors. Un altro business del 2010 in Lussemburgo riguarda Sportfive Group, leader mondiale delle agenzie di diritti per il calcio, legato a 250 club e a una decina di campionati nazionali. In Italia cura i diritti di marketing e commerciali di Sampdoria, Atalanta e Juventus. Nei file ottenuti da "l’Espresso" ci sono operazioni che riguardano il nostro Paese condotte da trentuno società di tutti i settori: una parte viene descritta nell’articolo a seguire, le altre saranno pubblicate nelle prossime settimane.
MULTINAZIONALI CHE PASSIONE
La crema dei più grandi gruppi mondiali è di casa in Lussemburgo, dove si mettono a punto piani per cospicui finanziamenti. La palma va a Procter & Gamble (Gillette, prodotti di bellezza, igiene orale, profumi): quasi 80 miliardi di dollari a suon di certificati che coinvolgono anche la filiale italiana di Roma. Segue l’americana Abbott Laboratories (prodotti farmaceutici): oltre 50 miliardi di dollari. E, ancora, tra i tanti protagonisti, Bayerische Landesbank (l’ottava banca tedesca): 500 milioni di euro; Carlyle Group (private equity): 240 milioni di sterline e 150 milioni di dollari; Eon Group (tedesco, energia, gas): 2,55 miliardi di euro; Gazprom (la più grande compagnia russa, gas): 4 miliardi di dollari; Glaxo Smith Kline (farmaceutica): 6,25 miliardi di sterline; Heinz (Usa, food company): 5,7 miliardi di dollari; il fondo Permira, che controlla Hugo Boss insieme ad alcuni membri della famiglia Marzotto: 284 milioni di sterline. Ma gli accordi sono relativi anche ad altri colossi, come il fondo Blackstone, Accenture e Burberry. Un esempio? Stando ai file esaminati dal network, nel 2009 Amazon grazie alla deduzione di royalties per molte centinaia di milioni ha dichiarato per le sue attività europee profitti per soli 14,8 milioni di euro, limitandosi a pagare 4,1 milioni di tasse nel Granducato.
PRICEWATERHOUSE
Il colosso della revisione scrive nel suo sito di essere il più grosso fornitore di servizi professionali del Lussemburgo. E giorno dopo giorno continua a crescere. Attualmente è forte di 2.455 dipendenti, ma l’anno scorso aveva previsto di assumere ancora entro la fine del 2014. In risposta alla richiesta di commenti ricevuta da ICIJ, Pricewaterhouse ha ribattuto che la documentazione utilizzata è «datata», composta di informazioni «rubate»: inoltre, «il furto è all’esame delle competenti autorità». La multinazionale ha poi ribadito che le sue consulenze fiscali rispettano «le leggi internazionali, europee e locali». E che, nella sua attività si attiene al «codice di condotta della società».
"MONSIEUR RULING"
"Sociétés 6" è, come s’è visto, l’ufficio delle imposte familiare ai manager della Pricewaterhouse. Che qui entrano per discutere delle loro proposte fiscali. Ed è qui che per più di vent’anni ha regnato Marius Kohl, 61 anni, arbitro e giudice unico, soprannominato "monsieur ruling", in pensione dal 2013. Di recente l’ha intervistato il "Wall Street Journal". Dipingendolo così: porta capelli raccolti con un codino, occupava una stanza modesta, ingentilita da un calendario Pirelli, dono dell’azienda di pneumatici che a lui si era rivolta per alcune questioni. Al giornale Usa ha dichiarato: «Il lavoro che ho fatto ha certamente portato benefici al Paese, per quanto forse non in termini d’immagine». È stato definito «il guardiano dell’unica porta attraverso cui le società possono entrare nel paradiso fiscale del Lussemburgo». Aveva la mano rapida, monsieur Kohl. In un solo giorno, è riuscito a firmare ben 39 pareri positivi, lui che sovrintendeva alla gestione di migliaia di "tax agreement". Una velocità costante, tradotta in 548 "comfort letters", ovvero il timbro ufficiale dell’approvazione finale, in otto anni: una ogni cinque giorni. Per la gioia della finanza mondiale in cerca di risparmi fiscali.
*****
IVO CAIZZI, CORRIERE DELLA SERA
Lo scandalo provocato dall’inchiesta giornalistica Luxleaks, che ha rivelato favoritismi fiscali concessi dal Lussemburgo a centinaia di società straniere per ridurre al massimo le tasse da pagare in altri Paesi, ha aperto un delicato caso politico in Europa. Al centro c’è il neo-presidente della Commissione europea, il lussemburghese Jean-Claude Juncker, che nei circa 20 anni da premier e ministro delle Finanze del Granducato, è stato il principale promotore del regime locale da paradiso fiscale con rigido segreto bancario. E che ora, da uomo-simbolo dell’Ue, dovrebbe guidare l’azione contro gli stessi privilegi fiscali concessi da capo del governo.
Nell’Europarlamento il leader dei liberali, l’ex premier belga Guy Verhofstadt, ha chiesto che la Commissione europea si presenti «immediatamente» all’Assemblea Ue per spiegare se i favoritismi fiscali denunciati dal Consorzio internazionale di giornalisti investigativi di Washington «rispettano la legge europea» e se «il sistema scelto dal Lussemburgo è legale o meno». Il presidente degli eurodeputati socialisti Gianni Pittella ha sollevato un problema di «credibilità di Juncker» perché «deve mostrare da che parte sta: dalla parte dei cittadini o degli evasori fiscali delle aziende?». Il ministro delle Finanze francese Michel Sapin ha tuonato che «non è più accettabile» alcun sistema di «ottimizzazione fiscale». Anche da Belgio, Germania e Olanda sono arrivate proteste contro il Granducato.
Juncker, quando era presidente dell’Eurogruppo dei ministri finanziari, ha sostenuto le misure di austerità volute dalla cancelleria tedesca Angela Merkel, che hanno provocato aumenti delle tasse ai cittadini di Paesi membri in difficoltà. Al tempo stesso da premier concedeva «lettere di conforto» a un’infinità di società straniere per garantire pagamenti ridotti al Fisco (in alcuni casi, secondo Luxleaks, anche solo l’1%). Gli eurodeputati del M5S, parlando di «scandalo vergognoso», hanno sottolineato questa «ennesima contraddizione dell’Europa, che sceglie di farsi guidare da un personaggio che ha avuto come scopo politico quello di far guadagnare il suo Paese sulle spalle degli altri partner europei».
Juncker è stato difeso dal leader del suo partito Ppe, Manfred Weber, che gli ha espresso «pieno sostegno» e ha escluso che le rivelazioni di Luxleaks possano riguardare personalmente «il presidente della Commissione», considerato motivato a «combattere l’evasione delle tasse e la frode fiscale». L’ex premier lussemburghese è invece rimasto in silenzio, cancellando la partecipazione a una conferenza. Il suo portavoce ha ricordato che la Commissione «sta già agendo» contro Irlanda, Olanda e Lussemburgo per aiuti di Stato illegali relativi a favoritismi fiscali. Nel mirino ci sono le sedi nel Granducato di Fiat Finance e Amazon. Luxleaks ha fatto emergere altri grossi nomi di multinazionali come Pepsi Cola o Ikea. Ma le inchieste della Commissione Ue, ereditate dal neo commissario per la Concorrenza, la danese Margrethe Vestager, appaiono destinate a moltiplicarsi perché le stime parlano di decine di migliaia di società straniere domiciliate in Lussemburgo (tra cui moltissime italiane).
Il premier lussemburghese Xavier Bettel si è difeso sostenendo che la normativa fiscale del Granducato è simile a quella di altri Paesi Ue con regimi privilegiati per le imprese ed è in regola con le leggi internazionali. Ma il caso politico resta aperto e dagli sviluppi imprevedibili nell’europarlamento e nel Consiglio dei governi Ue. I 28 ministri finanziari dell’Ecofin sono stati sollecitati da più parti ad occuparsi dello scandalo Luxleaks già nella loro riunione di oggi a Bruxelles.
Ivo Caizzi
*****
MARIO GEREVINI, CORRIERE DELLA SERA
Raccontano i vecchi frequentatori delle banche e delle fiduciarie lussemburghesi che una volta per strada c’erano le macchinette tritacarte. Tedeschi, francesi, belgi e molti italiani erano clienti abituali degli studi professionali e delle finanziarie del Granducato. Poi la tecnologia si è evoluta e con essa la finanza.
Ma il Lussemburgo è sempre rimasto lì in mezzo: crocevia di grandi capitali, non sempre tracciabili né puliti, un paradiso fiscale in giacca e cravatta, ben più sofisticato ed efficiente delle «rozze» Cayman o di Panama o delle Isole Vergini Britanniche. E ben più aderente alle norme internazionali. Un sistema fiscale societario concorrenziale e una notoria riservatezza attirano «clienti» da tutto il mondo. Tant’è che il Paese di Jean-Claude Junker ha più holding che abitanti. Sono migliaia le società targate «Lux» che controllano interi gruppi industriali di altri Paesi o le loro attività in Europa, da cui poi incassano i dividendi con vantaggi fiscali enormi: Amazon, Apple, Starbucks solo per fare tre nomi al centro delle indagini per possibili trattamenti fiscali di favore e non conformi alle regole Ue.
Per stare in Italia, la Luxottica, la multinazionale fondata da Leonardo Del Vecchio, è controllata dalla lussemburghese Delfin che cinque anni fa ha chiuso un contenzioso con il Fisco versando oltre 200 milioni. Qualcuno, poi, ricorderà che la famosa scalata alla Telecom di Roberto Colaninno ed Emilio Gnutti venne lanciata radunando la cordata intorno alla società Bell, sede nel Granducato. E quando vendettero Telecom alla Pirelli di Marco Tronchetti Provera fecero un’enorme plusvalenza lussemburghese. Anche in quel caso il Fisco italiano chiese il conto. Russi e cinesi oggi sono di casa negli uffici dei consulenti lussemburghesi. Il China Investment Corporation, fondo sovrano al servizio del Pcc, ha «impiantato» in totale riservatezza il suo hub societario europeo nel Paese di Henri Albert Gabriel Felix Marie Guillaume, cioè il Granduca Enrico. I bilanci della holding Land Breeze controllata da Pechino sono impressionanti: 7,3 miliardi di dollari di patrimonio, con partecipazioni anche in Indonesia, finiti in Lussemburgo.
La burocrazia è efficiente e non eccessiva, i servizi bancari sono tra i migliori al mondo, la normativa garantisce certezza nel tempo, il Fisco è gentile e le sue leggi — secondo gli esperti — sono flessibili quel tanto che basta per essere interpretate dai funzionari del Granducato. Questo è il punto: un’interpretazione forse troppo elastica e allo stesso tempo mirata, fuori dai binari comunitari, utilizzata come leva per attirare più «clienti» possibile e favorire le grandi multinazionali che portano soldi.
*****
VIVIANA MAZZA, CORRIERE DELLA SERA
L’inchiesta «Luxemburg Leaks» è il risultato del lavoro di 80 cronisti di 26 Paesi, che fanno parte dell’International Consortium of Investigative Journalists (Icij), una rete di reporter che collaborano su progetti di giornalismo investigativo. Per sei mesi hanno spulciato 28.000 pagine di documenti riservati che provano le agevolazioni sulle tasse garantite dal Lussemburgo a oltre trecento aziende. L’Icij, che conta uno staff di appena 10 persone, ha fornito i documenti ai giornalisti delle testate e tv (che includono Guardian , Le Monde , Süddeutsche Zeitung e L’ Espresso ) trasferendoli in forma elettronica e rendendoli facilmente consultabili; ha inoltre condiviso i contatti con esperti fiscali in grado di analizzarli. Nel 2012 una parte dei documenti era stata usata dal giornalista francese Edouard Perrin di France 2 e dalla Bbc , ma la maggior parte non era mai stata esaminata prima. «A fare il lavoro sono stati i reporter delle varie testate — spiega al telefono dal quartier generale a Washington il direttore di Icij, Gerard Ryle, ex giornalista investigativo del Sydney Morning Herald —. Noi siamo una specie di collante tra di loro». I cronisti hanno, a loro volta, condiviso e messo in comune le informazioni raccolte, ed è per questo che tra i partner non ci sono testate in competizione: «Per evitare l’esigenza di fare lo scoop alle spese degli altri». L’inchiesta doveva uscire tre settimane fa ma la pubblicazione è stata rimandata perché non era completa. Icij è stato fondato nel 1997 e fa parte dell’organizzazione no-profit Center for Public Integrity. All’inizio lo staff lavorava direttamente alle storie, ma negli ultimi tre anni il modello scelto è stato quello di fornire gli strumenti a giornalisti esterni (160 in totale, in oltre 60 Paesi). Le storie — una o due l’anno — sono «globali»: spesso indagini su corruzione e crimini transnazionali «su cui i media da soli non sono in grado di lavorare». Negli ultimi due anni, Icij ha condotto altre due inchieste sui paradisi fiscali (e ce n’è un’altra in «lavorazione»). Si è occupato anche di inchieste su temi diversi, come il traffico illegale di tessuti umani usati nell’industria sanitaria e cosmetica.
Viviana Mazza
*****
MARCO ZATTERIN, LA STAMPA -
«Tutti comportamenti legali, pratiche conformi alle norme internazionali», giura il ministro delle Finanze lussemburghese, Pierre Gramegna. L’ondata di rivelazioni giornalistiche sulla natura dei patti fiscali «segreti» siglati dal 2002 al 2010 tra 340 multinazionali e il piccolo Granducato ha sollevato un inevitabile polverone e spinto nell’angolo Jean-Claude Juncker, da sei giorni presidente della Commissione Ue dopo vent’anni al comando del principale paradiso fiscale europeo. Mentre il continente cerca di uscire dalla crisi e chiede sacrifici ai cittadini, l’evidenza di come il Paese si sia arricchito consentendo alle multinazionali di pagare meno tasse rischia di minare Juncker nel nuovo ruolo a Bruxelles.
Il nome in codice è «LuxLeaks», titolo che tiene insieme 28 mila pagine di documenti raccolti da un network giornalistico americano, The International Consortium of Investigative Journalists, e pubblicato in contemporanea da 26 testate (per l’Italia, L’Espresso). Il faldone informatico svela come alcuni fra i più grandi gruppi mondiali - da Amazon a Ikea, da Deutsche Bank a Finmeccanica - abbiano siglato «accordi fiscali anticipati» (tax ruling), pratica legale che permette di conoscere in anticipo le imposte da pagare e ottenere garanzie giuridiche. Il sistema influenza anche la ripartizione dei profitti e consente, a chi vuole, di minimizzare il gettito. La britannica Dyson, che produce aspiratori vari, risulta essere riuscita a ridurre gli esborsi sino all’1% dei guadagni.
Succede così da sempre. In Lussemburgo non si va per la buona cucina o il bel tempo. Dei 326 miliardi di investimenti stranieri diretti arrivati in Europa nel 2013, ben 240 sono passati per il Granducato, dove il Pil pro capite e più che doppio di quello tedesco e francese, e vale oltre tre volte quello italiano, anche se la disoccupazione in settembre era al 7,2%, segno che i miliardi ci sono però non transitano tutti nelle tasche della gente comune. Paradiso fiscale, dunque. Anche se negli ultimi anni l’apertura alla trasparenza è stata significativa e - assicura il ministro Gramegna - «col 2015 s’inizia lo scambio automatico sui conti e finisce il segreto bancario».
Sinora è andata diversamente. Il corriere americano FedEx, ad esempio, ha creato due filiali in Lussemburgo verso le quali ha fatto confluire i ricavi conseguiti in Messico, Francia e Brasile dalla controllata con sede in Hong Kong. In cambio, il Granducato ha accettato di percepire un’imposta di appena lo 0,25%. E’ un caso limite, se ne deduce, non il solo, sebbene non sia detto che le condizioni fossero uguali per tutti. Comunque, nell’elenco dei «contrattualizzati» appaiono anche nomi italiani, da Finmeccanica a Intesa Sanpaolo, passando per Banca Sella, il gruppo immobiliare Hines, poi Unicredit e Ubi Banca.
I file sono «fuggiti» dagli uffici della PriceWaterhouse&Coopers. Il Lussemburgo ha detto che la pubblicazione di informazioni fiscali riservate «è illegale» e minaccia di andare in Tribunale. Anche la responsabile per la Concorrenza, Margarethe Vestager, avrà parecchio lavoro, mentre quello per la Fiscalità, Pierre Moscovici, promette «un’azione senza reticente contro evasione ed elusione». L’esecutivo ha già avviato un’inchiesta su Irlanda, Olanda e Lussemburgo per presunto abuso di aiuto di stato. Il problema è che il presidente Juncker viene di lì. Lo si sapeva quando è stato eletto. «Sono sereno - fa sapere con un aggettivo che non porta bene -. La Vestager farà il suo dovere». Difesa d’ufficio. La destra al parlamento Ue chiede le dimissioni, i socialisti lo invitano a riferire in aula. Il sospetto che la tempistica di LuxLeaks non sia causale dilaga, anche se l’inchiesta giornalistica è cominciata in maggio. Juncker è un bersaglio facile che - come molti avevano avvertito - avrebbe rischiato grosso a Bruxelles.
*****
BEDA ROMANO, IL SOLE 24 ORE -
Il nuovo presidente della Commissione europea, l’ex premier lussemburghese Jean-Claude Juncker, era sotto pressione come non mai ieri dopo che una inchiesta giornalistica ha rivelato che il suo paese per 10 anni ha concesso accordi fiscali tanto generosi quanto controversi a centinaia di imprese multinazionali. Nel disperato tentativo di calmare le acque, il Granducato ha ammesso che la situazione è «insostenibile». La vicenda ha suscitato reazioni contrastanti nel Parlamento europeo.
Il Consorzio internazionale di giornalisti d’inchiesta, un organismo con sede negli Stati Uniti, ha avuto accesso a 28mila pagine di documenti riservati dai quali risultano intese fiscali attraverso le quali aziende internazionali hanno trasferito denaro nel Granducato per pagare meno imposte. «In alcuni casi, i documenti mostrano che le società hanno pagato sui profitti trasferiti in Lussemburgo un’aliquota inferiore all’1%», si legge nell’inchiesta pubblicata ieri in vari giornali. Il Granducato è «pronto a collaborare con la Commissione» nell’indagine sul trattamento fiscale di cui avrebbero goduto centinaia di società, ha detto ieri a Bruxelles il ministro delle Finanze lussemburghese Pierre Gramegna, prima di una riunione dell’Eurogruppo. «La situazione di società che pagano poco o niente al fisco è insostenibile anche riguardo ai nostri contribuenti. Il Lussemburgo non è soddisfatto di questa situazione. Ciò che è legale oggi può rivelarsi come eticamente non compatibile».
Da tempo molti paesi europei - non solo il Lussemburgo ma anche l’Irlanda o l’Olanda - offrono accordi fiscali generosi alle multinazionali, pur di attirare il loro denaro a casa propria in un contesto nel quale il reddito non è più necessariamente generato su un preciso territorio.
Il Granducato - già oggi oggetto di una indagine per illegittimi aiuti di stato concessi ad Amazon e Fiat - si è trasformato in vent’anni da centro agricolo e siderurgico a piazza finanziaria (si veda Il Sole/24 Ore dell’8 ottobre).
L’inchiesta giornalistica, durata sei mesi, ha messo in luce un’abitudine, probabilmente legale ma incredibilmente radicata: circa 550 accordi fiscali a favore di oltre 340 società tra il 2002 e il 2010. Tra queste vi sarebbero Pepsi, IKEA, FedEx o Accenture, ma anche 31 società italiane o con attività in Italia. Gli accordi fiscali scoperti dal Consorzio internazionale di giornalisti d’inchiesta riguardano intese messe a punto dalla società di consulenza PwC. È possibile che ve ne siano quindi molte altre.
La vicenda sta indebolendo Juncker, premier del Lussemburgo tra il 1995 e il 2013. Anche se legali, gli accordi gettano una ombra sulla sua credibilità. Come è possibile chiedere ai partner tagli di bilancio quando il proprio paese concede alle multinazionali aliquote bassissime, alla stregua di un paradiso fiscale? Alcuni osservatori si chiedevano ieri se la vicenda non porterà allo sblocco di un progetto legislativo presentato nel 2011 e che introdurrebbe una base imponibile comune per l’imposta delle società.
Ieri il portavoce della Commissione Margaritis Schinas ha sofferto nel difendere l’operato del nuovo presidente. Ha ricordato che Bruxelles non ha competenza fiscale. Può solo indagare su aiuti di stato illegittimi. «La Commissione sta già investigando su numerosi casi sospetti e continuerà a farlo nei prossimi cinque anni». La nuova commissaria alla Concorrenza Margrethe Vestager ha aggiunto che Bruxelles deciderà presto se le nuove informazioni richiederanno «una reazione formale della Comissione».
Dal canto suo, il Granducato ha confermato ieri che intende accettare lo scambio automatico di informazioni sul risparmio dal 1° gennaio. «Un passo considerevole per il nostro paese che ha il segreto bancario da decenni», ha precisato Gramegna.
«La credibilità di Jean-Claude Juncker come nuovo presidente della Commissione europea è a rischio», ha detto il capogruppo socialista al Parlamento europeo Gianni Pittella. Il suo omologo popolare Manfred Weber ha invece affermato di avere «piena fiducia» nell’ex premier.
*****
ADRIANA CERRETELLI, IL SOLE 24 ORE -
Tra scontri e lanci di lacrimogeni, a Bruxelles ieri hanno manifestato in 100.000 contro il rigore, i tagli per 11 miliardi del nuovo governo di Charles Michel. "Le Soir", il principale quotidiano francofono del Paese, titolava a 5 colonne: «Così il Lussemburgo aggira il fisco belga».
Sta quasi tutto qui, tra le tensioni sociali anti-rigore che aumentano in tutta l’eurozona, fragilizzata da recessione, deflazione e disoccupati record, e le rivelazioni del Lux-leaks sul quasi azzeramento delle tasse a favore, non certo dei cittadini, ma delle società con sede nel Granducato, il nuovo paradigma esplosivo che potrebbe investire l’eurozona. E non risparmiare neppure la stabilità delle sue banche che proprio in Lussemburgo hanno uno dei loro "santuari " preferiti: protetto, sia pure ancora per poco, da segreto bancario e fisco compiacente oltre che consumato artefice di finanza creativa, derivati e simili sfuggiti, come dovunque in Europa, agli esami su qualità degli attivi di bilancio e stress test che hanno nei giorni scorsi preceduto l’avvento dell’Unione bancaria europea. Ovviamente di mezzo ci sono anche l’ex-premier Jean-Claude Juncker, la nuova Commissione Ue che presiede e una possibile crisi inter-istituzionale qualora l’inchiesta in corso a Bruxelles da pura verifica circa l’esistenza o meno di illeciti aiuti fiscali di Stato si trasformasse in una valanga politica fuori controllo. Rischio remoto? Difficile dirlo. La Commissione guidata da un altro lussemburghese, Jacques Santer, cadde per quasi niente: un favoritismo da quattro soldi al dentista del commissario francese Edith Cresson. Oggi l’eurozona è stressata da sei anni di rigore da cavallo, che in qualche paese sta riportando crescita, ma nel complesso l’ha ridotta all’area economica che nel mondo cresce meno di tutte le altre. Le cure dimagranti dei bilanci e le riforme non sono finite, al contrario sono la "condicio sine qua non" per sperare in un piano Ue di investimenti da 300 miliardi in 3 anni, in una boccata di ossigeno per la crescita europea. Tra le misure sollecitate da Bruxelles e condivise dai Governi c’è la lotta all’evasione e all’elusione fiscale: un tasto sensibile nell’immaginario collettivo perché una sorta di compensazione per i sacrifici fatti e la garanzia di equità nei confronti di tutti i contribuenti. Ma qui il terreno si fa molto scivoloso. Prima di tutto perché il Lussemburgo non è l’unico imputato di eccesso di generosità fiscale nei confronti delle multinazionali per attirarne i capitali. Gli siedono accanto, nell’inchiesta in corso, Irlanda e Olanda. E altri potrebbero aggiungersi in futuro: Gran Bretagna, Malta, Cipro e lo stesso Belgio. E poi perché i regimi societari iper-agevolati in Europa non sono affatto vietati. I tentativi di armonizzare la pressione fiscale su questo fronte sono finora miseramente falliti, nonostante i ricorrenti assalti di Germania e Francia. Risultato: la concorrenza tra i vari sistemi fiscali è prassi lecita e consolidata, che ha tra l’altro l’implicito vantaggio di stimolare il calo della pressione in Europa: oggi supera di circa 10 punti quella degli Stati Uniti, per non parlare degli emergenti. Un evidente handicap competitivo. La questione che il nuovo resposabile Ue alla Concorrenza, la danese Margrethe Vestager, dovrà dirimere è stabilire se le agevolazioni concesse in Lussemburgo, come in Irlanda e Olanda, contengano o no aiuti pubblici illeciti in quanto distorsivi della concorrenza sul mercato interno. I bilanci nazionali affamati di risorse e il drenaggio di capitali favorito dalla globalizzazione e sempre più incontrollabile spingono i Governi Ue e Ocse a una stretta nelle regole. Le piazze in rivolta sono l’altra molla ad agire. Fino a far saltare la Commissione Juncker? «Ci sono troppi paesi in ballo nella vicenda. Ormai con le "confort letters" la Gran Bretagna batte l’Olanda» dice un esperto Ue. Molti però si chiedono come Juncker, con un passato da "vampiro" fiscale ai danni dei partner, possa oggi avere la statura morale per distribuire pagelle e sacrifici a molte delle sue vecchie vittime. Non ci fossero molti vampiri in Europa, e di tutti i tipi, il rilievo sarebbe ineccepibile. Purtroppo invece non è facile tranciare giudizi nei meandri delle troppe contraddizioni europee.
*****
STEFANO FELTRI, IL FATTO QUOTIDIANO -
Il neopresidente della Commissione europea Jean Claude Juncker si deve dimettere? Guardiamo la situazione in astratto: documenti ufficiali dimostrano che il titolare di una delle più importanti cariche europee nella sua passata vita politica è stato responsabile di accordi segreti con grandi multinazionali che grazie a queste intese sono riuscite a sottrarre decine di miliardi di tasse ai Paesi in cui avrebbero dovuto pagarle. Questo è, in sintesi, il risultato dell’inchiesta del Consorzio Internazionale per il Giornalismo Investigativo: 340 aziende hanno spostato una parte delle loro sedi legali in Lussemburgo per fare “ottimizzazione fiscale”, cioè per pagare meno tasse usando metodi quasi leciti. Due di queste corporation – Amazon e Fiat – sono già sotto inchiesta dalla Commissione europea guidata proprio da Juncker.
Se si guardano i numeri, probabilmente ha fatto più danni alle finanze pubbliche europee Juncker che qualunque evasore fiscale. Eppure non se ne possono pretendere le dimissioni, come fa per esempio il Movimento Cinque Stelle. Perché era tutto noto: basta leggere la brochure promozionale del Luxembourg Stock Exchange, la Borsa del Granducato, per vedere che questo ricchissimo staterello non ha pudore nel presentarsi come uno snodo fondamentale per le imprese che devono eludere il fisco. Perfino Finmeccanica ha usato il Lussemburgo per pagare meno tasse allo Stato italiano, suo primo azionista (il nuovo management spiega che in futuro non succederà più). Quando il Partito Popolare e poi il Consiglio e il Parlamento europeo hanno individuato in Jean Claude Juncker il successore di José Barroso alla Commissione, hanno applicato una specie di condono fiscale. O almeno morale. L’Europa accetta al suo interno quello che gli economisti chiamano arbitraggio fiscale o, meglio, “beggar thy neighbour” (frega il tuo vicino). La prosperità di nazioni sempre pronte a criticare la bassa competitività dei Paesi mediterranei indebitati si fonda quasi esclusivamente sulle furbate fiscali: Olanda, Gran Bretagna e soprattutto Irlanda hanno fatto della bassa imposizione fiscale la fonte della crescita. Uno sviluppo ammirato e celebrato ma che è soltanto l’altra faccia della colossale imposizione fiscale lamentata altrove, soprattutto in Francia e Italia. Lo scandalo “LuxLeaks” non è una notizia. La sanzione morale che comincia a colpire le aziende che aggirano il fisco in Europa invece è una cosa nuova. Juncker dovrà tenerne conto.
*****
DAVID CARRETTA, IL MESSAGGERO -
Nella prima settimana del suo mandato, Jean-Claude Juncker, la “vecchia volpe” della politica europea diventata presidente della Commissione, è già in bilico, dopo che ieri è scoppiato lo scandalo del Luxleaks. Migliaia di documenti riservati rivelano che almeno 300 multinazionali hanno beneficiato del regime fiscale favorevole del Lussemburgo, di cui Juncker è stato primo ministro per 18 anni, per eludere le tasse in altri Paesi. Un sistema che l’ex premier del Gran Ducato ha attivamente promosso, trasformando il suo Paese in un grande centro finanziario oggettivamente opaco.
Se la caduta del presidente della Commissione è improbabile, quantomeno non è alle viste, diversi Paesi intendono approfittare della sua posizione di debolezza per ottenere concessioni dall’esecutivo comunitario. Ma lo scandalo Luxleaks mostra soprattutto una gestione del potere quantomeno spregiudicata. Juncker «è una personalità imprevedibile, la cui concezione dell’Europa si fonda su unico principio: il dominio della coppia franco-tedesca», spiega un diplomatico.
Prima della sua nomina a presidente della Commissione europea, quando David Cameron aveva annunciato il suo voto contrario definendolo un «uomo del passato», i tabloid britannici lo avevano descritto come un pericoloso federalista, che beve cognac a colazione ed è pronto a cacciare il Regno Unito dall’Unione Europea.
All’inizio, anche il presidente del Consiglio Matteo Renzi era sembrato sbarrargli la strada chiedendo una «pagina nuova» per la Commissione, nella quale difficilmente poteva rientrare chi è stato per otto anni alla presidenza dell’Eurogruppo. Alla fine, la vecchia volpe c’è la fatta: forte del sostegno dell’Europarlamento, Jean-Claude Juncker è stato «eletto», per così dire, presidente della Commissione, nonostante i malumori dei capi di Stato e di governo. Compresa la cancelliera tedesca Angela Merkel, che avrebbe preferito la francese Christine Lagarde, attuale direttrice del Fondo monetario internazionale.
DEMOCRISTIANO VECCHIO STILE
Figlio di un sindacalista arruolato a forza nella Wermacht tedesca durante la seconda guerra mondiale, Juncker è un democristiano vecchio stile, con una forte attenzione al sociale. Dalla battuta facile, il nuovo presidente della Commissione è particolarmente apprezzato da giornalisti e funzionari di Bruxelles. Ma nella sua lunga storia politica – 18 anni come primo ministro, gran parte dei quali ha conservato per sé il portafoglio delle Finanze – non ha esitato a compromettere i suoi valori per fare ricco il Gran Ducato o compiacere gli azionisti di maggioranza della Ue: Germania e Francia. Dopo aver contribuito a redigere il trattato di Maastricht, nel 2003 Juncker votò per permettere a Parigi e Berlino di violare il Patto di Stabilità. Ricompensato con la presidenza dell’Eurogruppo nel 2004, chiuse entrambi gli occhi sui trucchi di bilancio della Grecia, salvo poi acconsentire alle insistenti richieste di austerità che venivano dal Nord Europa per il Sud spendaccione.
Nel frattempo, nelle riunioni dell’Ecofin difendeva quel segreto bancario che ha permesso al suo paese di diventare la cassaforte dei principali evasori fiscali di Belgio, Francia e Germania. Il Lussemburgo, un paese grande come la provincia di Ancona, grazie a tutto ciò si è così trasformato in un paradiso fiscale legalizzato, con redditi medi sopra i 100 mila euro l’anno.
QUESTIONE PERSONALE
Nonostante tutto ciò, Lo scandalo Luxleaks difficilmente porterà alla caduta di Juncker. Paradossalmente, a numerosi Stati membri fa comodo avere un presidente della Commissione debole sin dall’inizio del suo mandato. La Francia intende difendere Juncker per tentare di ottenere concessioni sul deficit, nel momento in cui altri paesi chiedono di sanzionare Parigi per la palese violazione del Patto di Stabilità. Il Luxleaks «è un riflesso del passato, dobbiamo guardare al futuro, abbiamo fatto passi da gigante nella lotta all’evasione e l’ottimizzazione fiscale», ha detto ieri il ministro francese dell’Economia, Michel Sapin. Juncker ha dato ordine ai suoi di fare quadrato: la nuova commissaria alla Concorrenza, Margrethe Vestager, che è considerata una dura e avrà il compito di indagare sulle pratiche fiscali del Lussemburgo, ha chiesto di «non farne una questione personale».
David Carretta