Tonia Mastrobuoni, La Stampa 6/11/2014, 6 novembre 2014
ISMAIL ALLA SBARRA A STOCCARDA. «FATEMI USCIRE DALL’INFERNO JIHAD»
Entra in aula con un sorriso: è sbarbato, i capelli cortissimi, indossa un vestito blu e una camicia bianca. Si aggiusta la cravatta, piega la testa d’un lato e saluta con un cenno della mano, addirittura un labiale, «tutto ok?», e di nuovo un grande sorriso. In realtà, c’è poco da ridere. Ismail Issa è l’imputato principale di uno dei più drammatici processi dell’anno. Rischia dieci anni di carcere: è accusato di essere un terrorista Isis, di aver combattuto in Siria e aver reclutato altri fondamentalisti in Germania. Ha persino coinvolto un fratello, Ezzeddine, coimputato nel processo. Oggi fa il bravo ragazzo e rivela la strategia difensiva dopo due battiti di ciglia. Un anno di carcere ed è il ritratto del pentimento.
Lo grida quasi, in questa prima, attesa udienza nell’aula bunker di Stammheim: «Là fuori, in Siria, altro che 72 vergini: c’è solo sangue e merda». I salafiti che lo accompagnarono nel 2013 alla Mecca, dove lo convinsero ad unirsi successivamente agli jihadisti, gli fecero «il lavaggio del cervello». Uno dei più famosi predicatori tedeschi, Sven Lau, gli disse «come fai a startene in Germania, quando i tuoi fratelli e le tue sorelle muoiono in Siria?». E lui, in quei mesi passati nei dintorni di Aleppo, nei combattimenti porta a porta, ha combinato «solo schifezze», dice.
Vuole che «il processo finisca il prima possibile», sogna di riabbracciare la sua fidanzata in Libano, sogna un lavoro, «magari in un’organizzazione per il recupero dei giovani che rischiano di diventare come me». Racconta dettagli drammatici della sua vita privata: la madre è siriana, quando i genitori fuggirono nel 1985 dalla Tripoli libanese assediata dalle truppe di Assad, un fratello morì, nonni e zii furono rapiti e sbattuti in carcere. La nonna fu violentata ripetutamente dai miliziani: «In sua presenza - sussurra Ismail - non si poteva mai nominare Assad. Fu costretta a prendere psicofarmaci per il resto della sua vita».
A tratti Ismail gigioneggia, esagera, «so che potrei fare anche qualcosa nel management internazionale, vedete anche voi che so parlare, no?». I giudici tedeschi non fanno una grinza ma non sembrano apprezzare troppo. «Lei si contraddice», scuote la testa Wilke, «come fa a dire che è andato in Siria per ragioni umanitarie?», lo incalza. E non sono magistrati qualsiasi: siamo nel carcere di massima sicurezza in cui negli Anni 70 si celebrarono i grandi processi della Raf, ma dove avvenne anche l’inquietante catena di suicidi di Ulrike Meinhof, Andreas Baader e degli altri membri del gruppo terroristico tedesco. Gli stessi giudici hanno celebrato in questi ultimi anni uno degli ultimi processi a un’ex Raf, Veronica Becker.
Ma Ismail è qui perché è stato catturato il 13 novembre del 2013 a una stazione di servizio di Stoccarda mentre tornava in Siria con un complice, l’afghano Mohammad Ayubi, il terzo imputato del processo. Aveva la macchina piena di medicinali, mimetiche, orologi, un binocolo a raggi infrarossi da riportare ad Aleppo, ma gli inquirenti gli stavano addosso da giorni, leggevano i suoi messaggi WhatsApp, ne avevano intercettato uno in cui annunciava il viaggio di ritorno e lo avevano arrestato.
L’ex commesso di fast food si era unito alla causa jihadista l’estate precedente, anche per sfuggire alle droghe, ed era stato portato clandestinamente in Siria attraverso la Turchia e addestrato per un mese in un campo vicino ad Atman, guidato da una figura di spicco del terrorismo islamico, il ceceno Emir Abu Abdullah ash-Shishani, capo della brigata Muhajiren. Dopo aver imparato a usare le armi, era stato mandato a combattere vicino a Anadan, dove si era ferito una mano: perciò era stato mandato in Germania a fare acquisti. E dai messaggi intercettati in quel periodo, il ventiquattrenne sembrava contrariato all’idea di abbandonare i combattimenti. Fatti che stridono con l’immagine che il ragazzo cresciuto a Stoccarda vuole trasmettere nell’aula di Stammheim.
Il dramma ormai, ma anche la sua salvezza, sono le ultime file dell’aula bunker. Nelle prime ci sono una quindicina di giornalisti e una manciata di curiosi, per il resto le sedie gialle sono vuote. L’avvocato di Ismail Issa, Stefan Holoch, annuisce lentamente: «Sa cosa vuol dire? Che nessuno è venuto a trovarlo, neanche i parenti. Vuol dire soprattutto, che per i salafiti e i fondamentalisti è già un traditore». Ma vuol dire anche, spiega, che «ha fornito elementi utili, che gli inquirenti non conoscevano». Holoch spera dunque in un giudizio meno duro, spera di evitargli la pena massima di dieci anni di carcere. Ma intanto, tra i musulmani, è finito tra due fuochi. I fondamentalisti lo odiano perché lo ritengono una spia, i curdi perché ha combattuto con chi sta assediando Kobani. «Io voglio solo riprendermi la mia vita», dice. Non sarà facile.