Flavio Pompetti, Il Messaggero 6/11/2014, 6 novembre 2014
IL DECLINO DI BARACK, DA STAR AD ANATRA ZOPPA
La Obamania era esplosa sei anni fa con la gente per le strade a gridare il suo nome, gli slogan entrati nella Storia, “yes we can”, “change”, “hope”. Si era rinnovata quattro anni dopo, nonostante le incertezze che già erano affiorate nel primo mandato. Ma a guardare il presidente ieri, nella sala stampa della Casa Bianca, assediato dalle domande-accusa dei giornalisti, appesantito dalla sconfitta del suo partito e dalla responsabilità che tanti pongono sulle sue spalle, è impossibile non chiedersi dove è finito l’entusiasmo, cosa ne è dell’innamoramento collettivo, e come è stato possibile gettare alle ortiche l’enorme credito politico con il quale il presidente era salito alla Casa Bianca. Lo stile del presidente è rimasto intatto negli anni: uguale è l’energia che emana dal suo corpo atletico, appena invecchiato dalla canizie che affligge ogni presidente a fine del suo mandato. Intatta è la superiore capacità oratoria e argomentativa, che piega ogni critica e ogni attacco sul crinale della razionalità. Ma quella che una volta gli era accreditata come autorità morale nei suoi discorsi, viene letta oggi come un segno di austerità aristocratica, di disprezzo dell’interlocutore. Il presidente è rimasto solo, aggrappato alle sue idee che non si prestano al contraddittorio, e che troppo spesso si sbriciolano nel percorso farraginoso dell’applicazione.
Per esempio la battaglia che Obama ha scelto di affrontare per prima, e per la quale ha pagato un prezzo altissimo: quella sulla riforma sanitaria. Un progetto ambizioso, sul quale si erano infrante le fortune politiche di decine di altri politici democratici prima di lui. Il presidente intendeva legare a questa riforma la memoria storica del suo mandato, e in effetti Obama ha vinto la sua battaglia, ma a costo di infliggere ferite profonde nel Congresso tra alleati e opposizione. Poi, con il processo di applicazione, sono arrivati gli errori e i ritardi, e le critiche abrasive dei media. Chi oggi ha un’assicurazione medica grazie alla nuova legge se ne dichiara soddisfatto. Ma il danno di immagine è stato grande, e ha permesso all’opposizione di cavalcarla.
Dopo questo primo trauma politico, c’è stato l’irrigidimento nei rapporti istituzionali con il Congresso, che è esploso nel dibattito sul bilancio e sul rifinanziamento del debito pubblico nel 2011. Certo, l’inflessibile opposizione repubblicana si è spinta fino alla cecità dell’autolesionismo quando si è arrivati al crinale dell’insolvibilità del Tesoro americano. Ma all’intransigenza dei suoi interlocutori Obama ha risposto a sua volta esibendo un disprezzo e un rifiuto della mediazione che agli americani è sembrato poco adatto a un politico che deve governare.
Sul piano internazionale era andato tutto bene nel primo mandato: la sensazione di una maggiore sicurezza interna, il ridimensionamento di Al Qaeda, fino all’uccisione di Osama Bin Laden, erano un argomento forte della propaganda obamiana, così come i rapporti ricuciti con gli alleati europei dopo gli anni difficili di George W. Bush. Poi però si è alzato il vento delle primavere arabe, che ha sconvolto il paesaggio del Medio Oriente facendo crollare i vecchi assetti, trascinando nel caos un paese cruciale come la Siria, e lasciando il campo aperto alla crescita di una nuova minaccia, il Califfato. Così la promessa mantenuta del ritiro militare dall’Iraq da successo che era si è trasformata in una colpa, con Obama che si ritrova a doversi giustificare per l’avanzata dell’Isis e a rielaborare una strategia per tutta l’area. E come se non bastasse, ecco arrivare i guai anche dalla Russia: il presidente che aveva giocato la carta epocale di una riappacificazione con l’ex nemico della Guerra fredda non aveva fatto i conti con l’ambiguità di Putin, e quando questa si è manifestata con la crisi Ucraina la mano tesa del presidente americano è diventato motivo di imbarazzo per l’intero paese.
A suo credito Obama dopo sei anni di presidenza può vantare le ottime performance dell’economia americana dopo l’epoca nera di Bush: pil in piena ripresa e disoccupazione sotto il 6%. Ma i numeri non sono bastati, anche perché le disuguaglianze tra ricchi e poveri non sono diminuite. La vecchia regola che fece la fortuna di Clinton, «it’s the economy, stupid», questa volta non ha funzionato. Così i repubblicani sono riusciti nell’impresa di vincere nonostante i successi economici della Casa Bianca, cavalcando il malcontento di un paese che in fondo si trova ancora in una condizione di forte privilegio sulla scena internazionale, ma i cui abitanti non hanno modo di rendersene conto.