Massimo Borgnis, Chi 5/11/2014, 5 novembre 2014
VI SVELO L’ALTRA PARTE DI ME
[Alfonso Signorini]
MILANO – NOVEMBRE
Tutto avrei immaginato nella mia carriera tranne che un giorno avrei intervistato il mio direttore. Perché? Perché non si fa, semplicemente. Non è nelle regole del gioco. Ma quando si ha un capo come il mio, le regole... beh, sono poche e tutte messe lì apposta per essere infrante. Del resto l’occasione era unica: raccontare, per una volta, lui, il mio capo. Alfonso Signorini, sotto una luce diversa da quella che voi lettori siete abituati a conoscere. Raccontare la persona che noi vediamo ogni giorno, dall’altra parte delle pagine patinate di “Chi”. Quella con cui ognuno di noi, qui dentro, ha condiviso gioie e dolori, musi lunghi e risate, scherzi e litigate. Quella persona che, anche noi, credevamo di conoscere. Ma, giusto per confermarci che con lui nulla è sicuro. Alfonso ha pensato bene di scrivere un’autobiografia nella quale si mette a nudo con una tale brutale sincerità, da spiazzare anche chi, come noi, pensava di conoscerlo, se non bene, almeno abbastanza. È un libro spiazzante, anche se molto divertente, perché stravolge completamente i parametri con cui siamo abituati a giudicarlo. Ci sono sì, i mille aneddoti sul mondo del gossip, del giornalismo, della televisione e della politica che costituiscono il suo mondo professionale. Ma questa volta il personaggio pubblico Signorini lascia il posto all’uomo, che racconta senza filtri né pudori, la sua storia privata, l’altra faccia di sé. Una storia che, sorprendentemente, è tenuta insieme dal filo rosso di un amore che viene da lontano e non si è ancora interrotto.
Domanda. Chi conosce il Signorini pubblico inevitabilmente è portato a pensare che il motore della tua vita e della tua camera sia stato l’ambizione, il desiderio di raggiungere la fama, il potere, la ricchezza. Dopo aver letto il libro si intuisce invece che il motore di tutta la corsa è stato l’amore: l’amore dei tuoi genitori che ti ha dato la forza di volare, l’amore che ti ha spinto alle scelte più coraggiose. Che cos’è per te l’amore?
Risposta. «Innanzitutto, vera la premessa. Io credo che l’ambizione sia una delle disgrazie peggiori che possano capitare nella vita di una persona, perché ti rovina, distrugge le emozioni. Non è facile prenderne atto perché è molto subdola. Non è una malattia manifesta, è una febbricola latente e quando ti prende, te la tieni e ti consuma. Io non sono ambizioso, lo dico con grande sicurezza, e questo lo considero una grande fortuna, perché mi ha sempre fatto fare scelte non condizionate da traguardi che dovevo raggiungere a tutti i costi. Intendiamoci, ho sempre avuto degli obiettivi in testa, ma ho sempre ragionato solo per l’entusiasmo che questi obiettivi mi portavano».
D. Quindi per amore.
R. «Sì, esatto, per amore. Che cos’è l’amore? È un atteggiamento di grande apertura nei confronti del prossimo e della vita. Che ti mette una disposizione d’animo molto positiva nei confronti di chi ti è vicino. La posizione di chi ascolta, ma non giudica. Di chi accoglie, pur conservando la legittima libertà di critica».
D. Questo concetto di amore è molto simile a quello che i tuoi genitori hanno dato a tua sorella e a te. Loro sono il filo rosso che lega tutto il tuo libro, tutta la tua vita, anche ora che non ci sono più.
R. «I miei genitori non hanno avuto consapevolezza della loro importanza. Vivevano, amavano, si amavano e ci amavano. Ma nella loro meravigliosa incoscienza hanno saputo dipingere un quadro bellissimo. Con grande spontaneità e naturalezza. Erano persone semplici, ma nel senso più bello del termine. E la mia non è un’idealizzazione, è proprio la consapevolezza di avere avuto due esempi di grande trasparenza».
D. Un amore solido, sempre presente, mai invadente.
R. «Oddio anche un po’ invadente. La mamma rompeva, eccome. Ma nelle scelte importanti non sono mai stati invasivi. Anzi, quando non approvavano, e non hanno approvato quasi niente, hanno sempre avuto il buon senso di farsi da parte lasciandomi vivere».
D. E questo ci porta al secondo mito legato al personaggio Signorini: quello di essere un astuto calcolatore, un cinico che si muove a colpo sicuro, abituato a navigare come uno squalo nelle acque agitate del potere. Eppure leggendo questo libro si scopre che le scelte più importanti della tua vita sono andate totalmente controcorrente. Hanno seguito la passione piuttosto che il calcolo.
R. «Esatto. Oppure anche la follia, o l’incoscienza».
D. A cominciare dalla scelta dell’indirizzo di studi. Vieni da una famiglia con ideali molto pratici, di quelle che sognavano un figlio ragioniere con il posto fisso da impiegato. Tu invece hai scelto il liceo classico e la facoltà di Lettere.
R. «Una rottura evidentissima, perché il classico, nella mentalità estremamente concreta di mio padre, era innanzitutto la scuola delle femmine. Lui la pensava così e non si sa nemmeno perché. Anche la facoltà di Lettere ai suoi occhi era roba per femmine. Io, poi, ci ho messo, come sempre, del mio. Non ho mai osato dire ai miei che volevo fare il giornalista. Dicevo loro che volevo fare il professore. Però per dare un’espressione alla mia inclinazione, avrei potuto scegliere un indirizzo di comunicazioni sociali. Anche perché allora la Cattolica era la prima delle università italiane che aveva la scuola di giornalismo. Io invece ho scelto tutt’altra cosa, la filologia, le biblioteche, i codici medioevali: tutto quello che mi portava a un prolungamento di quella solitudine, della mia cameretta piena di sogni, che io mi porto sempre dentro»,
D. Quando eri l’inviato di punta di “Chi”, hai mollato tutto per un nuovo amore, la televisione. Ti sei trasferito a Roma per fare l’autore televisivo. Un salto nel buio che ti è quasi costato la carriera.
R. «Vero, quando ho mollato “Chi” è stato lanciarsi verso un nuovo amore. Oltre alla passione c’è stata anche un’incoscienza di fondo perché tanto normale non sono, ma mi sta bene non esserlo. Ha ragione Marina Berlusconi quando mi dice: “Tu sei un artista”. Io mi considero un artista, perché gli artisti hanno una marcia in più e quella io ce l’ho, non voglio fare il finto modesto. È anche vero, però, che quella marcia che ti permette di viaggiare più veloce, ti fa soffrire di più. Quando ho fatto queste scelte azzardate avrei dovuto avere più la testa sulle spalle, cosa che io non ho ancora oggi. Avrei dovuto sedermi e pensare: “Allora, la posta in gioco è questa, quello che perdo è questo, che cosa ho da guadagnare?”. Ecco, questo ragionamento non l’ho mai fatto».
D. Come si dice in giurisprudenza avresti agito “da buon padre di famiglia”...
R. «Esatto, e forse non è un caso che io non abbia una famiglia (sorride, ndr). In questi momenti c’è sempre una pazzia di fondo. Certo, alla fine mi è andata bene. Però c’è stato un momento in cui è andata molto male. In televisione le cose non funzionarono e per me le porte in Mondadori si erano chiuse. Silvana Giacobini, il direttore che a “Chi” mi ha formato e lanciato, aveva emesso un diktat durissimo. Non potevo nemmeno mettere piede qui dentro. Per questo adesso mi fa ridere quando dicono di me; “Signorini in Mondadori può fare quello che vuole. È il direttore inamovibile”. Altro che inamovibile. Per un anno e mezzo era vietatissimo persino parlarmi al telefono. Sono uscito da quell’esperienza con le ossa rotte. Ecco, una cosa che mi farebbe piacere venisse fuori da questo libro è il concetto della costruttività della fatica. Io considero il fatto di non dover ringraziare nessuno un grande lusso. È chiaro, fatichi dieci volte di più: ma la fatica è costruttiva ed è la stessa cosa che io insegnavo ai miei allievi. La fatica dello studio, perché la vita è faticosa. È bellissima, ma faticosa».
D. Nel libro, come nella vita quotidiana, citi spesso la frase latina: “Ognuno è fabbro della sua fortuna”.
R. «Sì, perché il fabbro si fa venire i calli alle mani pestando il ferro davanti a una fornace accesa. La sua opera, anche la più banale, è fatica, sforzo, sudore. Così è la vita, non ti regala nulla. Ed è giusto che sia così. Giustissimo che non faccia sconti. Anzi, ti fa pagare spesso conti molto salati. Proprio per questo a me piacerebbe che dal libro venisse fuori la storia di una persona che sì ha costruito, ma sotto questa costruzione c’è tanto lavoro, tanto sudore. E qualche lacrima».
D. Hai scritto che il tuo unico rimpianto è di aver sprecato troppo tempo. Perché?
R. «Ho sprecato tanto tempo prezioso con persone di cui non me ne fregava niente. L’ho buttato in serate, in cene, in vacanze e in chiacchierate interminabili. Intendiamoci, e lo scrivo chiaramente anche nel libro, tutto sommato è andata bene così. Se non avessi perso quel tempo, adesso non starei dove sto, non avrei costruito la mia rete di contatti. Per carità, non rinnego niente. Però, quando sei arrivato a determinati risultati, grazie a questa grande fatica che hai fatto, ti rendi anche conto che hai lasciato per strada tante cose che non tornano più. E come te ne rendi conto? Dalle facce invecchiate dei tuoi genitori, dai bambini che crescono intorno a te e diventano adulti, dalla tua stessa faccia che diventa più vecchia. A quel punto dici no. A quel punto devi recuperare. E se ce la fai, sei un uomo fortunato. È a quel punto che vinci i pudori».
D. Due anni fa al culmine di tutto, la vita ti ha presentato il conto: doppio e salatissimo. Prima la mamma se ne è andata, e con lei l’ultimo baluardo del tuo piccolo mondo antico...
R. «Lei da quando papà se n’è andato si è lasciata morire. È diventata la mia bambina e me la sono coccolata fino all’ultimo, fino alla fine. C’era uno strano legame tra di noi. Speciale, come quello che mio padre aveva con mia sorella e che io non avevo con lui. Una comunione, una totale sintonia. Che ancora oggi continua, grazie a Dio. Il giorno in cui è mancata, io ero stato il mattino a trovarla in ospedale. E lei stava anche benino, tanto che i medici mi avevano detto che erano contenti perché mostrava segnali di ripresa. Prima di andare via l’avevo coccolata e accarezzata. Lei mi aveva detto: “Amore, quando ci vediamo?” e io le avevo riposto: “Presto, domani”. Poi io sono venuto in redazione e ho fatto la riunione. Terminata la riunione ho avuto all’improvviso la netta sensazione che la mamma stesse morendo. Ho fatto chiamare il mio autista, Davide, che stava mangiando in mensa. Me l’hanno passato al telefono e lui, per rassicurarmi, mi ha detto: “Ma dottore, siamo appena andati questa mattina, stava meglio”. Ma io sono stato irremovibile: “Mi porti subito dalla mamma”. E sono andato da lei. Avevo ragione: la mamma ha fatto in tempo a stringermi la mano e a dirmi: “Dove sei, dove sei?” e poi mi ha lasciato. Quando un rapporto così forte si interrompe ti manca tutto».
D. Poi la seconda sberla: la leucemia, contro la quale hai dovuto combattere a lungo.
R. «Quando la mamma se n’è andata ero già malato. Ma non volevo far vedere la mia sofferenza. Non ne ho parlato quasi con nessuno. La malattia è qualcosa che ti mette di fronte, di colpo, alla tua fragilità. Per fortuna non ho dovuto fare trapianti e ho reagito bene alle cure, ma la situazione era da mettersi le mani nei capelli e io non ne ho (ride, ndr). L’ho combattuta a modo mio, con un pizzico di follia. Non volevo stare lontano dalla redazione perché era la mia ragione di vita. Mi imbottivo di farmaci e andavo avanti. Ecco, quando dico che la vita è la cosa più bella del mondo qualcuno può obiettare che poi arrivano incidenti come questi. Eppure io ho imparato a prendere atto di quella che sembrerebbe una bestemmia: sono arrivato a benedire il dolore. Perché comunque il dolore costruisce sempre, non annienta mai. Lo dico senza retorica. Quando prendi delle medicine pesanti tutto sono fuorché retorica. Sono cose vere, difficili da smaltire, difficili da conviverci. Il fatto che la tua vita dipenda da una pastiglia è una cosa molto pesante da accettare. Però io ho ringraziato Dio per questo incidente, primo perché comunque mi ha dato la possibilità di vivere e poi mi ha dato il miracolo di vedere delle cose che prima non avevo la capacità di vedere».
D. Hai riscoperto l’amore per te stesso, l’unica persona alla quale lo avevi negato.
R. «Ho imparato a coccolarmi, ad ascoltarmi. Ho imparato a dire no, anche a costo di perdere occasioni prestigiose o redditizie. Ma ho anche riscoperto l’amore per gli altri. Il mio compagno Paolo lo amo molto più profondamente di un tempo. Anche se magari non stiamo sempre insieme, se facciamo due vite completamente diverse, perché lui ha il suo lavoro (è imprenditore e senatore, ndr) e io ho il mio. Quello che conta è la qualità del rapporto. Come quello con mia sorella e mia nipote. Intendiamoci non sono tutte rose. Naturalmente hai i tuoi giorni no, quando sei inverso e non puoi spiegare perché lo sei. Sono dei momenti critici, bisogna accettarli, Però complessivamente, arrivi a dire che è un bel vivere».
D. Adesso il cerchio si è chiuso. Sei pronto a trasferire questo bagaglio di vita a qualcun altro?
R. «La vita di ciascuno di noi, nessuno escluso, è esemplare, nel bene e nel male. Se hai la fortuna di poterla raccontare e di saperla raccontare, nelle sue luci e nelle sue ombre, perché non farlo? Certamente questo libro non è scritto con lo spirito di chi si vuole mettere in cattedra, sia chiaro. Io non voglio insegnare niente a nessuno anche perché sono il primo che di certezze non ne ha. Però quelle poche certezze che ho acquisito, mi piace dividerle con i miei lettori».
D. Tu dici che non sai cosa sia esattamente l’amore. Però, dopo tante prove e tribolazioni, incertezze e dubbi, adesso l’amore l’hai trovato.
R. «Sì, la mia situazione sentimentale si è stabilizzata. Ripeto, ancora adesso non ti so dire cosa sia l’amore. Da una parte per me è fiducia, è lasciarsi andare. Questo è un amore che puoi condividere con tutti. Poi con il mio compagno, l’amore in realtà è intimità. Paolo e io siamo due persone che si vogliono un bene dell’anima. Io non riuscirei più a stare senza di lui e lui non riuscirebbe più a stare senza di me. Ecco, per semplificare, l’amore è svegliarsi al mattino e pensare: “Meno male che ci sei”».
Poi Alfonso sorride. Uno dei quei sorrisi maliziosi che anticipano inevitabilmente una delle sue stoccate. E infatti: «Come con te. Massimo: magari non ho voglia di ascoltarti, ma meno male che ci sei».