Elizabeth Royte, National Geographic 11/2014, 5 novembre 2014
QUANTO CI COSTA LO SPRECO ALIMENTARE
Siamo nel pieno della stagione della lattuga nella valle di Salinas, in California, dove si produce il 70 per cento circa degli ortaggi a foglia verde venduti negli Stati Uniti. Nel corso della mattinata, una processione di camion carichi di insalata parte dagli stabilimenti agroindustriali della vallata in direzione nord, est e sud.
Nel frattempo un altro camion, un portacontainer, arriva alla centrale di smistamento dei rifiuti di Sun Street, non lontano dall’abitato di Salinas. Il conducente si ferma su una pesa, poi deposita il malconcio container su una piattaforma. Un colpo di leva, uno sbuffo di aria compressa, e 25 metri cubi di lattughe e spinaci piombano a terra, formando un enorme mucchio alto circa due metri. Confezionati in cassette e buste di plastica, gli ortaggi appaiono freschissimi e in perfette condizioni. Eppure sono condannati alla discarica per una serie di difetti: confezioni sbagliate o non correttamente sigillate, contenuto diverso da quello indicato sull’etichetta, involucri strappati...
Chiunque veda una scena simile non può fare a meno di rammaricarsi: distruggere una montagna di cibo intatto è un peccato, anzi un delitto. Eppure non è che una piccola parte dello spreco. Nel corso della giornata, la centrale di smistamento riceverà altri 10-20 carichi analoghi di ortaggi perfettamente commestibili, provenienti dalle aziende di produzione e confezionamento della zona. Da aprile a novembre, il dipartimento preposto allo smaltimento dei rifiuti solidi della valle di Salinas manda in discarica da due a quattro tonnellate di verdure appena raccolte. E questo è solo uno dei molti centri di smistamento rifiuti delle vallate agricole della California.
La FAO, che tiene il conto della produzione e del consumo di alimenti sul nostro pianeta, ha calcolato che ogni anno un terzo della produzione alimentare mondiale destinata al consumo umano va perduta nelle varie fasi della catena di fornitura, che inizia nelle aziende dei coltivatori e degli allevatori, passando attraverso gli impianti di lavorazione e confezionamento per poi raggiungere i mercati all’ingrosso e al dettaglio, gli esercizi di ristorazione e infine le cucine delle nostre case. Il totale degli scarti ammonta a 1.300 milioni di tonnellate, sufficienti a nutrire tre miliardi di persone.
Le perdite e gli sprechi di prodotti alimentari avvengono per cause diverse, a seconda dei luoghi di produzione. In generale, nelle nazioni industrializzate gli sperperi sono maggiori nelle fasi di commercializzazione e di consumo, mentre nei paesi in via di sviluppo, che spesso mancano delle infrastrutture necessarie per far giungere a destinazione i prodotti in buone condizioni, la dispersione avviene per lo più nella fase di produzione, in quella successiva al raccolto e in quella di lavorazione.
Prendiamo l’esempio dell’Africa: nei paesi subsahariani le carenze dei sistemi di stoccaggio e di trasporto fanno sì che il 10-20 per cento dei cereali soccomba a nemici come muffe, roditori e insetti. Stiamo parlando di derrate per un valore di 3 miliardi di euro, sufficienti a sfamare per un anno 48 milioni di bocche.
Anche l’India ha problemi simili, che risultano in una percentuale di scarti di frutta e ortaggi del 35-40 per cento sul totale prodotto. Se non si possono conservare, sterilizzare, inscatolare, imbottigliare, non c’è modo di trasformare le eccedenze di alimenti deperibili in prodotti più durevoli o a lunga conservazione. Le deficienze dei sistemi di trasporto ferroviario o su gomma rallentano il viaggio dei pomodori verso i mercati; la frutta mal confezionata si trasforma in poltiglia; gli ortaggi appassiscono o marciscono per mancanza di ripari freschi e ombreggiati.
Nei paesi industrializzati, grazie all’elevato grado di efficienza delle pratiche agricole, agli impianti di refrigerazione onnipresenti e alla buona qualità delle strutture di stoccaggio, trasporto e comunicazione, la maggior parte delle derrate alimentari prodotte (a parte le montagne di scarti che finiscono in discarica) riesce a raggiungere i punti di vendita; ma da quel momento in poi le cose peggiorano nettamente. Sempre secondo i dati FAO, nei paesi industrializzati si buttano ogni anno 670 milioni di tonnellate di alimenti, cioè quasi l’equivalente dell’intera produzione alimentare dell’Africa subsahariana.
Molte calorie vanno perdute nei ristoranti che servono porzioni eccessive o allestiscono buffet luculliani; all’ora della chiusura i dipendenti buttano nelle pattumiere tutti gli avanzi, comprese pietanze intatte. Anche se si adoperano affinchè non si sappia in giro, è stato calcolato che le rivendite alimentari degli Stati Uniti buttino via mediamente 19 milioni di tonnellate di alimenti ogni anno. Ciò avviene anche perché i gestori acquistano sistematicamente più del necessario, per timore di rimanere a corto di questo o quel prodotto. Intere partite di piselli in perfetto stato finiscono nella spazzatura per far posto a nuovi arrivi di piselli del tutto identici. La catena britannica Tesco, che pure da qualche tempo si era pubblicamente impegnata a ridurre lo sperpero alimentare, ha ammesso di aver scartato nei suoi supermercati del Regno Unito più di 50 mila tonnellate di derrate alimentari nel corso dell’ultimo anno fiscale.
Anche noi consumatori abbiamo la nostra parte di colpa: compriamo troppo, perché a ogni angolo di strada ci vengono offerti prodotti alimentari in confezioni seducenti, a prezzi relativamente bassi. E una volta acquistate le vivande non le conserviamo in maniera adeguata. Prendiamo troppo alla lettera l’etichetta “da consumarsi preferibilmente entro la data X”, senza considerare che quella data ha poco a che fare con la sicurezza alimentare, ma si limita a indicare il periodo di massima freschezza del prodotto. Spesso dimentichiamo alimenti in fondo al frigo, al ristorante non ci facciamo incartare gli avanzi e buttiamo tranquillamente nella pattumiera una pietanza che magari abbiamo appena assaggiato.
Ovunque avvenga lo sperpero alimentare, il risultato è sempre lo stesso: ogni alimento scartato è perduto per sempre, e non servirà da nutrimento per nessuno. Una famiglia statunitense di quattro persone spreca annualmente cibo per un valore medio di 1.000 euro. E sprecare cibo significa anche sprecare le ingenti quantità di combustibile, acqua, prodotti agrochimici, terra e manodopera utilizzati per produrlo. Per esempio nel 2007 è finita in discarica una quantità di prodotti agricoli equivalente alla produzione di 1,4 miliardi di ettari di terreno, una superficie superiore a quella del Canada. Ma il costo ambientale degli sperperi è ancora più ingente, perché alla fine i prodotti inutilizzati, interrati in condizioni di anossia, generano metano, il cui effetto serra è anche maggiore di quello dell’anidride carbonica. Se il cibo fosse una nazione, sarebbe la terza in classifica mondiale per emissioni di gas serra, dopo Stati Uniti e Cina, per via delle emissioni rilasciate nell’atmosfera dalle discariche di rifiuti alimentari.
La soluzione più logica sarebbe semplicemente mangiare ciò che produciamo, il che è anche il requisito di base per un sistema alimentare sostenibile. Ma le logiche ineluttabili dell’economia sembrano fatte apposta per sbarrare la strada alle soluzioni semplici. È evidente che per ogni confezione di yogurt scartata da un consumatore che rispetti la data di scadenza indicata, il negoziante ne venderà una in più. Per i supermercati può essere più conveniente buttare intere cassette di mele invendute che ribassarne il prezzo, con il rischio di non vendere più le mele a prezzo pieno. Di norma, le grandi aziende agricole commerciali mettono a coltura il 10 per cento in più del necessario per non rischiare di venir meno ai contratti con i rivenditori. Nel timore di saturare il mercato, con conseguente calo dei prezzi, gli agricoltori decidono spesso di abbandonare nei frutteti e nei campi enormi quantità di prodotti. Può anche accadere che il costo della manodopera per la raccolta superi il valore di mercato della frutta e degli ortaggi, che a volte vengono semplicemente distrutti passando con gli aratri sulle colture. Se da un lato il progresso tecnologico riversa sui mercati quantità sempre maggiori di cibo, l’abbondanza che ne consegue mantiene bassi i prezzi, incoraggiando lo sperpero.
I dati dello sperpero di alimenti su scala mondiale sono sconvolgenti, ma c’è un aspetto positivo: esistono infinite possibilità di porre rimedio a questo stato di cose. Un solo esempio: nei paesi in via di sviluppo, alcune ONG riforniscono i piccoli coltivatori di contenitori per lo stoccaggio, sacchi multistrato per le granaglie, strumenti per l’essiccazione e la conservazione e rudimentali impianti di refrigerazione e confezionamento. Il risultato è una drastica riduzione degli sprechi: basti citare il caso dei pomodori afghani, le cui perdite sono scese dal 50 per cento al 5.
In alcuni casi, sono gli agricoltori stessi che imparano a conservare o a confezionare i loro prodotti per conservarli più a lungo. «In passato, per i contadini dell’Africa orientale il problema non si poneva: nel giro di tre mesi consumavano tutto ciò che avevano prodotto», spiega Stephanie Hanson dell’ONG One Acre Fund. «Ora sono in grado di aumentare la loro produzione, e devono apprendere nuove tecniche di stoccaggio». Grazie ai 18 mila silos in metallo forniti dalla FAO alle piccole aziende agricole afghane, i loro scarti di cereali e legumi sono scesi dal 15-20 per cento a meno del 2 per cento. Oltre tutto, le migliori possibilità di conservazione nei silos consentono ai coltivatori di spuntare prezzi più remunerativi per i loro prodotti: il doppio, o anche il triplo di quanto riescono a ottenere al momento della mietitura o del raccolto, quando il mercato è saturo.
Negli Stati Uniti l’attenzione che i media, le autorità e i gruppi ambientalisti stanno dedicando al fenomeno dello sperpero di alimenti ha indotto un numero crescente di ristoratori a cercare di quantificare i propri scarti: un primo passo di importanza cruciale per ridurre lo sperpero alimentare. In alcuni ristoranti europei sono state sperimentate addirittura maggiorazioni dei prezzi a carico dei clienti che lasciano il cibo nel piatto.
Più a monte nella catena della produzione alimentare, alcuni coltivatori stanno collaborando con produttori di conserve e succhi di frutta per dar vita a un mercato secondario che utilizzi le partite di frutta con piccole imperfezioni. Nel Regno Unito, dove il governo ha dichiarato che il problema dello spreco di prodotti alimentari è una priorità nazionale, un collettivo di cittadini denominato Feeding the 5000 raccoglie dalle aziende di produzione e confezionamento prodotti di alta qualità scartati dai supermercati e li utilizza per allestire pranzi succulenti offerti gratuitamente a 5.000 fortunati commensali, con l’obiettivo dichiarato di sensibilizzare il pubblico e divulgare soluzioni creative. Tristram Stuart, explorer in residence di National Geographic, fondatore di Feeding the 5000 e autore di un libro uscito in Italia con il titolo Sprechi. Il cibo che buttiamo, che distruggiamo, che potremmo utilizzare, ha proposto ai negozianti di offrire a prezzi scontati i prodotti con data di scadenza ravvicinata e di chiedere ai fornitori un’equa partecipazione ai costi derivanti da ordini sovradimensionati. Invita inoltre le industrie alimentari e i rivenditori a rendere pubblici i dati sui prodotti scartati o distrutti. Raccogliendo questa sfida, la Tesco ha deciso di ridimensionare l’assortimento di panetteria, di esporre le banane in apposite amache protettive e di abolire la data di scadenza per frutta e ortaggi. Inoltre sta incrementando gli acquisti diretti dai produttori di frutta, che in tal modo arriva più fresca sugli scaffali e può essere conservata più a lungo.
Con un’iniziativa recente, denominata The Pig Idea (letteralmente “l’idea suina”, ma per assonanza anche “la grande idea”), Stuart cerca di far pressione sui governi dell’Unione Europea affinché venga abolito il divieto di alimentare i maiali con derrate alimentari di scarto, varato nel 2001 in seguito a un’epidemia di afta epizootica nel Regno Unito, che allora fu imputata agli avanzi crudi usati come foraggio nelle porcilaie. Secondo Stuart, la raccolta e la sterilizzazione degli alimenti scartati dagli esercizi commerciali servirebbe non solo a ridurre i costi degli allevamenti, ma anche a salvare vaste estensioni di foreste tropicali, sacrificate alla produzione di soia per i suini. Ne sarebbero avvantaggiati anche i commercianti, che ora pagano un prezzo per lo smaltimento dei loro scarti. Secondo i calcoli dell’UNEP, il Programma delle Nazioni Unite per l’ambiente, se le eccedenze alimentari che oggi buttiamo fossero usate come foraggio, i cereali così economizzati a livello mondiale basterebbero a nutrire tre miliardi di esseri umani.
Utilizzare i prodotti in eccesso per l’alimentazione animale è indubbiamente una soluzione razionale, sia dal punto di vista economico che da quello ecologico. Ma è altrettanto evidente che sarebbe meglio mettere il cibo superfluo a disposizione degli 842 milioni di bocche affamate sul nostro pianeta. Solo negli Stati Uniti, 49 milioni di persone vivono in una condizione definita ufficialmente “insicurezza alimentare”, ossia non sanno se e come riusciranno a mettere insieme un pasto per il giorno successivo.
L’organizzazione di beneficenza Feeding America stima che entro la fine dell’anno distribuirà ai bisognosi circa due milioni di tonnellate di alimenti, offerti in gran parte da industrie, supermercati, grossi produttori e dal governo federale. Ma esistono anche iniziative spontanee, nate dalla buona volontà di piccoli gruppi di volontari che ripuliscono i campi dopo il raccolto, recuperando così migliaia di tonnellate di prodotti che consegnano a banche alimentari, mense gratuite e altre organizzazioni benefiche. E in alcune grandi aziende agricole della California è stato adottato un programma di “raccolta simultanea”, in cui i prodotti vengono ripartiti in confezioni diverse: quelli impeccabili destinati alla commercializzazione; gli altri, con piccoli difetti, destinati alle banche alimentari.
Il primo passo da compiere per ridurre seriamente lo spreco di alimenti è sensibilizzare l’opinione pubblica affinché prenda coscienza del problema. La maggioranza tende a chiudere gli occhi davanti a questa realtà, spesso arrivando addirittura a negarla. Ma in seguito all’aumento dei prezzi dei generi alimentari l’atteggiamento sta gradualmente cambiando. Inoltre si sta diffondendo una consapevolezza sempre maggiore del rischio che il cambiamento climatico incida negativamente sulla produzione alimentare e della necessità di ricavare sempre più calorie – con metodi sostenibili – dai terreni che coltiviamo.
Quello delle eccedenze alimentari può apparire come un problema “di lusso”, da primo mondo. Ma resta il fatto che la nostra società non può più tollerare queste cornucopie di abbondanza destinate fin dal principio a finire in discarica. È un sistema troppo costoso, che sta distruggendo il nostro pianeta, mentre milioni di esseri umani soffrono la fame. «Lo sperpero di alimenti è un problema stupido», ha detto Nick Nuttall del Programma ONU per l’ambiente. «Ma i problemi stupidi sono i più amati dalla gente, perché sanno che in qualche modo si possono sempre risolvere».