Chip Brown, National Geographic 11/2014, 5 novembre 2014
MORTE SULLA MONTAGNA
La mattina del giorno più tragico nella storia della vetta più alta del mondo. Nima Chhiring, uno Sherpa di 29 anni del villaggio di Khumjung – guance bruciate dal sole e zazzera di capelli neri– si mise in marcia alle tre per andare a lavorare. Sulla schiena portava una bombola di gas da cucina da 29 chili. Dietro di lui il campo base dell’Everest, un villaggio temporaneo in cui i membri di una quarantina di spedizioni internazionali dormivano nelle tende o si agitavano insonni nell’aria rarefatta a quota 5.270 metri. Più in alto, sulla montagna, una striscia di luci nel buio: erano le lampade frontali sui caschi di oltre 200 portatori, Sherpa e nepalesi, che percorrevano in fila indiana la cascata Khumbu. Considerata tra i tratti da scalare più pericolosi del mondo, almeno tra le montagne frequentate regolarmente dagli alpinisti, la cascata è un ripido labirinto di crepacci, ghiaccio contorto e seracchi in continuo movimento che precipita per 610 metri riversandosi in una gola tra la cresta ovest dell’Everest e il Nuptse, la vetta di 7.861 metri che sovrasta il Campo Base.
Quel 18 aprile molti Sherpa colleghi di Nima Chhiring si erano già incamminati da tempo sulla cascata. Dopo la consueta colazione a base di tè e tsamba, un impasto a base di farina d’orzo, si erano caricati in spalla i materiali preparati il giorno prima. Alcuni trasportavano corde, pale, chiodi da ghiaccio e altri attrezzi utili a predisporre la linea di corde fisse lungo l’ascesa agli 8.850 metri dell’Everest. Altri avevano tutto il necessario per allestire i quattro campi intermedi da lì alla vetta: sacchi a pelo, tende da adibire a mensa, tavoli, sedie, pentole e persino stufe, tappeti e fiori di plastica per rendere più accogliente l’ora del pasto per i loro clienti.
Qualcuno aveva ancora addosso le tracce della farina d’orzo tostata con cui gli Sherpa si erano cosparsi la faccia a vicenda il giorno prima, durante le puja, i riti con cui avevano chiesto a Jomo Miyo Lang Sangma, la dea dell’Everest, di proteggere la salita e di concedere loro una lunga vita. Diversi portatori erano già saliti e scesi più volte lungo la via che, all’inizio di aprile, era stata allestita da un gruppo di Sherpa specializzati detti Icefall Doctors, i dottori della cascata. La via, una sequenza di corde fisse e scale di alluminio che scavalcavano crepacci e dirupi, non era molto diversa rispetto alle passate stagioni, ma passava più vicino alla cresta ovest, spesso bersagliata dalle valanghe e minacciata da una grossa massa di ghiaccio sospesa, 300 metri più in alto.
Anche con 45 chili di carico sulle spalle, la maggior parte degli Sherpa era in grado di raggiungere il Campo 1 – una marcia in salita di 3,3 chilometri – in meno di tre ore e mezza. Dopo un’ora di cammino Nima Chhiring, che lavorava per una spedizione cinese, arrivò nel cosiddetto “Campo di popcorn”, un tratto particolarmente ripido di ghiaccio frantumato, attraversato da parecchie scale. Più avanti lo aspettava il “Campo di calcio”, uno spiazzo pianeggiante dove gli scalatori si fermano spesso per una pausa ed è facile sentire il brontolio del ghiacciaio Khumbu che avanza alla velocità di circa un metro al giorno. Sopra il Campo di calcio c’è un’altra zona critica di blocchi di ghiaccio grandi come case e torri precarie ma, superata quella, il viaggio di Nima Chhiring sarebbe diventato più agevole, visto che poi il Khumbu si appiattisce in una vasta pianura bianca nota come Western Cwm.
Erano circa le sei quando, passato il Campo di calcio, Nima Chhiring raggiunse la base di una scarpata di ghiaccio alta 12 metri. Qui cominciò goffamente ad arrampicarsi su tre scale di alluminio legate tra loro, con il pesante carico sulle spalle, i ramponi di metallo attaccati agli scarponi e un bloccante in mano da agganciare e sganciare man mano che proseguiva sulla corda fissa. Arrivato in cima vide con sgomento che decine di portatori erano ammassati su una cengia non più grande della saletta di un ristorante. Qualcuno stava in piedi a fumare, altri aspettavano in fila il loro turno di scendere giù per un fosso su due scale legate tra loro. Almeno una volta, quella mattina, i movimenti del ghiaccio avevano fatto sganciare gli ancoraggi dalla base della scala, e il traffico si era bloccato. Alle cinque il ritardo si era accumulato, anche se la scala era stata rifissata. E un’ora dopo, all’arrivo di Nima Chhirring, gli ancoraggi si erano di nuovo sfilati.
«Credo che ci fossero un centinaio di persone bloccate lì», racconta lo Sherpa; «molti stavano scendendo tenendosi alla corda. Ci sarebbe voluta almeno mezzora per proseguire. A quel punto ho cominciato ad avere paura».
«Mi piange l’orecchio»
I NEPALESI CREDONO che sentire un ronzio acuto nelle orecchie sia un segnale di pericolo imminente. Lo chiamano kana runu, l’orecchio che piange. Nima Chhiring, che aveva scalato l’Everest tre volte, sapeva bene che un orecchio che piange non va ignorato. Doveva prendere una decisione: continuare diligentemente l’ascesa fino al Campo 1 o lasciare lì la bombola di gas e tornare giù? Cercò di mettersi in contatto via radio con il suo sirdar, il caposquadra, ma l’uomo era andato a prendere rifornimenti a Namche Bazar. Nima Chhiring riuscì soltanto a parlare con il cuoco del Campo Base: gli spiegò che gli piangeva l’orecchio, e per questo aveva deciso di lasciare il carico agganciato alle corde fisse e tornare giù. Altri Sherpa gli chiesero cosa stesse facendo.
«Glielo dissi: “Mi piange l’orecchio, vedrete che tra poco sapremo che è accaduto qualcosa di brutto”», ricorda. «“Io torno indietro, dovreste farlo anche voi”». Saranno state le sei e un quarto.
La notizia del kana runu di Nima Chhiring si sparse tra gli Sherpa. Cinque portatori che avevano superato le tre scale posarono il carico e iniziarono a scendere. Altri due, rimasti bloccati sotto le tre scale, decisero di tornare indietro perché gli si stavano congelando i piedi. Altri ancora non se la sentirono di cambiare programma sulla base di un presentimento o di un piede infreddolito. Nel tratto fra la cengia affollata e il Campo di calcio, Nima Chhiring incontrò diversi Sherpa: qualcuno lo conosceva, come Phurba Ongyal, 25 anni, di Pangboche, che aveva detto alla sorella che quella sarebbe stata la sua ultima stagione sull’Everest; Lhakpa Tenjing, 24 anni, che aveva una moglie e una figlia di due mesi a Khumjung; e Ang Tshiri, che a 56 anni era uno degli Sherpa più anziani che ancora andassero in montagna, diretto verso la cascata per quella che assicurava sarebbe stata la sua ultima ascesa; dopo aver fatto il cuoco per 13 anni al Campo 2, aveva deciso di ritirarsi nel suo ristorante di Thamo, che si chiamava appunto Camp II. Nima Chhiring vide anche Dorje Sherpa, 39 anni, fratellastro di Ang Tshiri, che viveva con la famiglia in una casupola a Tarngga, a due o tre giorni di cammino dall’Everest.
«Nima Chhiring mi disse di non salire», racconta Mingma Gyaljen Sherpa, 33 anni, di Namche Bazar, chiamato da tutti Babu, che quel giorno era diretto al Campo 1 con bombole d’ossigeno e altri materiali. «Ma io dovevo proseguire, avevo l’attrezzatura dei clienti. Non ho avuto problemi sulla scala, quando sono passato alle 6.34 non era rotta. Ma cerano altri Sherpa poco esperti che aspettavano di scendere ed erano molto lenti».
Il Campo Base e la cascata Khumbu erano ancora nell’ombra, ma, molto più in alto, le dimore delle divinità sherpa risplendevano di luce. Su tutto l’Everest si preannunciava una mattinata stupenda. Durò solo altri undici minuti.
«Non avevo dove scappare»
L’ANFITEATRO DI MONTAGNE che circonda il Campo Base dell’Everest è talmente vasto che spesso gli scalatori vedono le valanghe ancora prima di sentirne il rumore. Poi, come il tuono che segue il lampo, arriva il sibilo che accompagna le cateratte di neve e ghiaccio e roccia che piombano giù per i precipizi e le pareti delle valli sospese. Ma la valanga del 18 aprile fece un rumore diverso, soprattutto per gli Sherpa che si trovavano sulla cascata. Quasi tutti lo hanno descritto allo stesso modo: un tuuung profondo, come il colpo di un martello contro una campana imbottita per smorzarne il suono o il vibrare della corda di un gigantesco contrabbasso.
Una sezione di ghiaccio che aveva la forma di un enorme canino, alta 34 metri e pesante tra le 7 e le 14 mila tonnellate, si staccò dal versante occidentale dell’Everest e precipitò giù, rompendosi in pezzi e spingendo davanti a sé un muro di vento. Tra gli Sherpa c’è chi dice che, ingrossandosi e acquistando velocità, la valanga impiegò pochi minuti a raggiungerli; altri raccontano che fu una questione di secondi. Almeno una ventina di portatori si trovava esattamente sulla traiettoria della valanga; molti altri erano ai margini, più in alto o più in basso.
Alle 6.45 Kurt Hunter, direttore dell’agenzia di spedizioni alpinistiche Madison Mountaineering al Campo Base, stava parlando via radio con Dorje Khatri, 46 anni, sirdar della ditta e noto sindacalista: ognuna delle nove volte che aveva scalato l’Everest, aveva piantato sulla vetta uno striscione con le rivendicazioni dei lavoratori. Khatri aveva appena superato le tre scale legate tra loro. All’improvviso Hunter sentì «urla e un gran frastuono», poi «il silenzio assoluto». Quando il rombo della valanga raggiunse il Campo Base, l’uomo uscì di corsa dalla tenda delle comunicazioni e vide la parte superiore della cascata avvolta in una nuvola ribollente.
Intanto, nella sua affannata discesa verso il Campo Base, Nima Chhiring aveva raggiunto in una decina di minuti il Campo di calcio. Sentendo il tuuung ebbe conferma dei suoi peggiori timori. Nel giro di pochi secondi fu ricoperto di brina gelata: fu uno dei tanti sopravvissuti che riuscirono a rimettersi in piedi barcollando, come fantasmi avvolti in un lenzuolo di neve e ghiaccio. Pemba Sherpa, un giovane ma esperto portatore del villaggio di Phortse, aveva appena raggiunto il Campo di calcio assieme a un cliente dell’Alaska con cui era partito alle quattro del mattino per un’escursione di acclimatamento. Colpito da una folata di vento, Pemba alzò lo sguardo e vide «un blocco di ghiaccio grande come una casa» che rotolava giù dalla cresta ovest. Mentre il cielo si oscurava, i due fuggirono di nuovo verso il basso, riparandosi dietro una formazione di ghiaccio.
Karna Tamang, guida di 29 anni che aveva all’attivo cinque scalate dell’Everest, aveva lasciato il Campo Base alle tre del mattino. Aveva oltrepassato da cinque minuti la scala rotta quando sentì il tuuung. «Non avevo dove scappare», ricorda. «C’era un vento spaventoso. Per proteggermi mi sono inginocchiato accanto a un grosso blocco di ghiaccio, riparandomi il volto. Sono rimasto coperto da cinque centimetri di neve».
Babu Sherpa e altri cinque portatori erano a un minuto dalla scala rotta. «Ci siamo rannicchiati tutti insieme. Quando la neve si è diradata, ho guardato giù ma dietro di me non c’era più nessuno», racconta.
Quindici minuti prima della valanga, Chhewang Sherpa, un diciannovenne che lavorava per una società neozelandese, aveva superato il tratto con la scala rotta. Era alla sua prima spedizione sull’Everest e stava salendo insieme al cognato Kaji Sherpa, 39 anni e padre di tre figli. Kaji si stava inerpicando su un piccolo pendio di ghiaccio, agganciato alla corda fissa con la sua corda di sicurezza. Quando la valanga li raggiunse, Chhewang ebbe la prontezza di sganciarsi dalla corda fissa e correre via per andare a rannicchiarsi sotto il suo carico. Suo cognato, invece, fu colpito da un blocco di ghiaccio che recise la sua corda di sicurezza e gli fece perdere conoscenza. Chhewang riuscì ad afferrarlo e a trascinarlo fino a un punto più sicuro, poi gli versò addosso la bevanda calda che aveva nel thermos nella speranza di farlo rinvenire.
«Kaji rinvenne lentamente», racconta. «Aveva una radio, ma fui io a schiacciare il pulsante per parlare perché lui non poteva muovere le braccia. Disse: “Vi prego, salvatemi!” Se non lo avessi preso, non lo avremmo ritrovato mai più, perché il crepaccio è profondissimo».
Pasang Dorje Sherpa, un ventenne che lavorava per la Alpine Ascents International (AAI), un’agenzia di Seattle, stava salendo assieme a due colleghi sherpa, Ang Gyalzen e Tenzing Chottar. Pasang era alla seconda stagione sull’Everest. Trasportava un grande palo per la tenda da adibire a mensa, un rotolo di tiranti e un thermos. Quando si sentì il tuuung, lui e Ang Gyalzen erano a circa 45 secondi dalla scala rotta; il loro compagno era pochi passi più indietro.
Tenzing, 29 anni, era un altro novellino dell’Everest. Aveva completato il corso base e quello avanzato di alpinismo al Khumbu Climbing Center ed era felice di avere un lavoro per mantenere gli anziani genitori e il figlio di tre mesi. Il giorno prima, dal Campo Base, era riuscito a telefonare alla moglie Pasi a Kathmandu.
«Vidi il ghiaccio arrivare e pensai “Siamo spacciati, sto per morire”», ricorda Pasang Dorje. «Il vento mi spingeva. Mi tuffai dietro un grande seracco. Se non fossi stato agganciato alla corda fissa sarei stato spazzato via».
Il ghiaccio investì il palo della tenda, che lo colpì in testa, distrusse il thermos e tagliò la corda. Un pezzo di ghiaccio bucò la giacca a vento di Ang Gyalzen. Quando la nuvola assassina si diradò, un paio di minuti più tardi, i due Sherpa si abbracciarono, poi si guardarono intorno inorriditi. Quello che prima era un ampio precipizio che poteva essere superato solo con corde e scale adesso era pieno di blocchi di ghiaccio grandi come tavoli e divani. «Tenzing! Tenzing!», urlarono, ma invano.
Avvisato da Michael Horst, una guida che aveva visto la valanga dal Campo Base, Lakpa Rita, il sirdar dell’agenzia, si infilò in fretta e furia gli scarponi. Collegò una lunga antenna alla radio e cercò di mettersi in contatto con i suoi uomini che quella mattina lavoravano sulla cascata: 33 portatori sherpa, un cuoco e due addetti alla cucina. Alla fine riuscì a parlare con Pasang Dorje, il quale gli disse che dietro di lui c’erano cinque o sei Sherpa sepolti dalla neve, probabilmente erano morti.
«Ero agitatissimo», racconta Pasang Dorje. «Ho visto uno Sherpa che vomitava sangue, un altro ferito che aveva gli occhi tutti bianchi e chiedeva dell’acqua. Siamo riusciti a tirarlo fuori. Non so neppure come si chiamava. I miei amici piangevano quasi tutti».
«Ho cercato di trattenere le lacrime»
Erano circa le sette del mattino quando gli Sherpa e le guide occidentali che al momento del disastro avevano raggiunto il Campo 1 si rimisero in marcia per tornare giù a dare una mano. Al Campo Base, i fratelli Lakpa e Kami Rita decisero di affrontare la scalata di due ore per raggiungere l’area dell’impatto; lo stesso fecero Horst, Ben Jones, Damian Benegas e altre guide occidentali. Sacchi a pelo, pale e attrezzature da soccorso furono trasportate fino alle tre piattaforme di atterraggio per elicotteri del campo. Caroline Blaikie e Mike Roberts della neozelandese Adventure Consultants e Joe Kluberton, direttore del Campo Base per la AAI, si misero alla radio; sulle onde viaggiavano le voci degli Sherpa che si affannavano a comunicare la loro posizione e le condizioni di salute. Il numero dei morti era ancora incerto.
«Salendo, incontravamo tanti Sherpa feriti che venivano giù», ricorda Lakpa Rita. «Avevano lividi, perdevano sangue dalla testa; qualcuno zoppicava perché era stato colpito da blocchi di ghiaccio. Offrivo il mio aiuto, ma loro rispondevano: “No, quelli rimasti lassù hanno più bisogno di noi”. Ma io sapevo che chi era rimasto sepolto aveva pochissime possibilità di essere ancora vivo. In quelle condizioni si può resistere per 15 minuti al massimo».
Lakpa Rita impiegò quasi un’ora per salire dal Campo di calcio al luogo dell’impatto. La zona era riconoscibile dal sangue sulla neve. Sul posto cerano una cinquantina di Sherpa: qualcuno scavava con vanghe d’acciaio, altri cercavano di rompere i massi di ghiaccio a martellate, altri ancora restavano seduti, inebetiti dal dolore e dallo choc. Quattro corpi erano stati coperti con un telo da tenda grigio. Alla loro vista, Lakpa Rita si mise a sedere e cominciò a piangere.
«Ho cercato di trattenere le lacrime davanti agli altri, ma non ci sono riuscito», racconta.
Quando si sentì pronto a sollevare il telo e guardare i morti, scoprì che nessuno indossava la giacca dell’AAl. A quel punto si mise a scavare anche lui. Altri due cadaveri furono liberati dal ghiaccio, poi un altro: Ang Tshiri, il cuoco. «Era uno dei miei», dice Rita.
Intanto al Campo Base, in mezzo al susseguirsi di notizie, voci non confermate, comunicazioni via radio cariche di tensione e telefonate di gente in preda al panico, nove medici di varie spedizioni si radunarono nell’ambulatorio da campo della Himalayan Rescue Association. Cinque portatori che erano stati colpiti con violenza ma erano riusciti ad allontanarsi dalla cascata furono medicati lì nella tenda. Per altri tre fu necessario il trasporto in elicottero fino a un ospedale.
Sul luogo dell’impatto Damian Benegas cominciò a contare le vittime, e alle 9.09 comunicò via radio che i morti erano almeno dieci. Due elicotteri della Simrik Air, pilotati dal neozelandese Jason Laing e dal nepalese Siddhartha Gurung, atterrarono al Campo Base. Sull’elicottero di Laing salì l’americana Melissa Arnot, alpinista con cinque scalate dell’Everest all’attivo e infermiera di formazione, che alle 10.05 arrivò al sito dei soccorsi con le forniture mediche. Alle 10.49 quattro Sherpa erano stati portati via dalla cascata Khumbu: presentavano fratture alle gambe, ferite al bacino, all’addome e alla testa ed emorragie interne. Tra loro c’era Kaji Sherpa, che fu trasportato fino a un ospedale di Kathmandu con un polmone perforato e due costole rotte. Poco dopo le 11 tutti i feriti erano stati riportati al Campo Base.
A quel punto le squadre di soccorso cominciarono a recuperare i cadaveri. Dalle 11 alle 14 Laing sorvolò per 12 volte lo spettrale scenario della via dell’Everest con il suo Eurocopter AS350 B3e rosso, nero e argento, per poi tornare indietro con un corpo senza vita che penzolava da un cavo di 30 metri. Le salme furono deposte nella più bassa delle piattaforme d’atterraggio del Campo Base, dove furono marcate con un numero scribacchiato su un pezzo di nastro adesivo e poi avvolte in teli cerati. Di tanto in tanto Sophie Wallace, medico della spedizione di Adventure Consultants, era costretta a stendersi sui corpi per evitare che la corrente d’aria generata dal rotore dell’elicottero facesse volar via i teli.
L’identità delle vittime fu confermata da colleghi o parenti che lavoravano anche loro sulla montagna. Pemba Tenjing, che non aveva notizie di suo padre Ang Tshiri, si affannò a scendere dal Campo 1: scoprì la verità riconoscendo le sue scarpe. Dawa Nuru Sherpa, un veterano con 13 scalate all’attivo, capì che Ang Tshiri era morto quando vide la sua mano che spuntava dalla neve. Il cuoco era suo cugino: Nuru lo riconobbe dal callo al pollice sinistro, dovuto al continuo sfregamento dei fili di lana di yak che l’uomo era solito intrecciare.
Per timore che la cresta ovest dell’Everest franasse di nuovo, le tristi operazioni di recupero furono sospese alle 14,10: con il caldo del pomeriggio la cascata poteva diventare più instabile. Il corpo di Dorje Khatri, rimasto incastrato nel ghiaccio a testa in giù in un crepaccio sopra le tre scale, fu recuperato soltanto il giorno dopo. Tre dispersi furono dichiarati morti presunti. Le sedici vittime erano tutti Sherpa o nepalesi di altre etnie. Erano morti mentre lavoravano duro per mandare i figli a scuola, costruirsi una casa nuova o comprare le medicine per anziani genitori malati di asma. Ventotto bambini e ragazzi avevano perso il padre. Undici portatori erano morti nello stesso posto, la cengia di ghiaccio dove erano fermi in attesa di scendere lungo la scala che adesso non esisteva più.
«Credo che sia andata così», dice Lakpa Rita: «hanno tentato di scappare, e quando si sono resi conto che non ce l’avrebbero fatta si sono stretti l’uno accanto all’altro». L’orrore di quel giorno superò quello di altri incidenti avvenuti sull’Everest, comprese le catastrofi del 1922, 1970 e 1974, che pure avevano fatto strage tra gli Sherpa. L’impatto della tragedia si sarebbe fatto sentire ancora a lungo.
Tensioni e polemiche
I GIORNI SUCCESSIVI ALLA VALANGA furono un caotico avvicendarsi di puja, funerali, riunioni, domande, voci incontrollate, richieste, provocazioni e scoperte. La stagione delle scalate doveva proseguire? O era più giusto interromperla? Per quanto tempo era opportuno osservare il lutto? Russell Brice di Himalayan Experience ed Eric Simonson di International Mountain Guides concessero ai numerosi Sherpa dei loro team un permesso di quattro giorni per rivedere le famiglie. Non tutti se la sentirono di tornare al lavoro. Un portatore sherpa raccontò che una donna aveva minacciato di suicidarsi se il marito fosse tornato sulla montagna.
Lakpa Rita capì subito che per l’AAI la stagione era finita: non poteva chiedere ai suoi di riprendere il lavoro dopo la morte di cinque colleghi, quando c’erano ancora dei corpi sepolti nel ghiaccio. Gli Sherpa che lavoravano per altre ditte accettarono di continuare, ma cominciarono a sentire le pressioni degli attivisti, per i quali la tragedia doveva essere un’occasione per esigere migliori condizioni di lavoro per le guide. Molti Sherpa furono indignati dal risarcimento offerto dal governo nepalese: circa 325 euro a famiglia, una somma che non bastava nemmeno a ripagare le spese dei funerali.
Già da qualche tempo gli Sherpa della nuova generazione sembravano aver assunto un atteggiamento diverso, più deciso e determinato a farsi valere. Ne fu un esempio la cosiddetta rissa scoppiata lo scorso anno tra tre noti alpinisti europei e una squadra di Sherpa che stava fissando le corde sopra il Campo 2. Nei giorni successivi alla valanga, le tensioni di cui si era già avuto sentore emersero in tutta la loro forza. Addolorati e arrabbiati, gli Sherpa bloccarono quella che per il governo nepalese è una macchina da soldi: le attività sull’Everest fruttano ogni anno più di tre milioni di dollari in permessi e creano un indotto economico che secondo gli operatori stranieri sfiora i 12 milioni di euro. Come ha scritto sul suo blog uno Sherpa di Kathmandu: «Le cose che non potevamo cambiare ci hanno fatto capire quali sono le cose che possiamo effettivamente cambiare».
Domenica 20 aprile, due giorni dopo la valanga, responsabili delle spedizioni, soccorritori e persone colpite dalla tragedia si riunirono nella tenda del Sagarmatha Pollution Control Committee (SPCC), un’organizzazione non profit nepalese che coordina gli Icefall Doctors e si occupa dello smaltimento dei rifiuti sull’Everest. Tra gli Sherpa intervenuti c’erano anche Pasang Bhote, membro della direzione dell’Associazione alpinistica nepalese, e Pasang Tenzing, uno scalatore di 29 anni che aveva raggiunto la vetta dieci volte e lavorava per la Jagged Globe, un’agenzia britannica. L’assemblea redasse un documento con 13 richieste per il governo, tra cui l’aumento delle coperture assicurative e la destinazione di una quota più alta dei proventi dei permessi al fondo di solidarietà per le famiglie dei lavoratori morti o feriti in montagna.
Lunedì 21 aprile le commoventi immagini dei funerali degli Sherpa svoltisi a Kathmandu furono trasmesse in tutto il mondo e il giorno dopo il Campo Base fu teatro di un’affollata puja officiata da 22 lama. Alla fine della cerimonia la lista di richieste fu letta ad alta voce in nepalese e in inglese. La tensione cominciò a salire. Qualcuno tra la folla urlò che la stagione non doveva continuare. «Era chiaro che la maggioranza dei lavoratori voleva tornare a casa in segno di rispetto per i morti e per la propria sicurezza», scrisse Sumit Joshi, fondatore della ditta nepalese Himalayan Ascent. Sui loro blog, membri delle spedizioni occidentali ribatterono che la cerimonia era stata “strumentalizzata dai militanti e trasformata in un’adunata politica”. Al Campo Base si faceva un gran parlare di un boicottaggio e dei “maoisti” o dei non meglio precisati “militanti” che minacciavano chiunque non volesse aderire. Nel frattempo il ministro nepalese della Cultura, del Turismo e dell’Aviazione civile dichiarava che «tutte le attività alpinistiche riprenderanno di sicuro entro un paio di giorni».
Solo giovedì 24 aprile, sei giorni dopo la valanga, i primi rappresentanti del governo si fecero vedere al campo base: una delegazione di dodici persone, guidata dal ministro del Turismo Bhim Prasad Acharya, atterrò in elicottero alle 9 del mattino per cercare di convincere gli Sherpa a continuare la stagione. Russell Brice, uno degli operatori stranieri più esperti, ha scritto di aver saputo che alcuni Sherpa avevano lanciato sassi e tentato di impedire che gli elicotteri della delegazione ripartissero dopo la riunione. Secondo un’altra voce raccolta da Brice, gli Sherpa si spinsero persino a chiudere l’erogatore a un membro della delegazione che viaggiava con una bombola d’ossigeno per acclimatarsi all’alta quota. L’accusa riflette il clima di tensione che si respirava dopo la tragedia, ma Sumit Joshi smentisce: «Qualcuno tra la folla disse che bisognava togliergli l’ossigeno per fargli capire come ci si sente a lavorare a quella quota, ma era una battuta. Sono abbastanza sicuro che nessuno la prese sul serio».
Altri hanno ipotizzato che le minacce provenissero da gente che non faceva nemmeno parte della comunità degli scalatori. «Erano tutti giovani e ostili», afferma John All dell’American Climber Science Program. «Avevano giacche a vento più leggere e pulite di quelle che si vedono di solito al Campo Base, e nessuno ricordava di averli mai visti prima della valanga. Tutti ci chiedevamo: ma chi sono questi?».
Mentre i funzionari nepalesi ripartivano, il ghiacciaio della cresta ovest si spaccò di nuovo e una piccola valanga franò nello stesso punto della cascata dove erano morti i sedici Sherpa. Molti lo interpretarono come un segno della volontà degli dei: la stagione primaverile del 2014 era finita.
«Quello che ci rende diversi»
È DIFFICILE TRARRE UNA VERITÀ definitiva da tutti i rapporti ufficiali, le dicerie e le impressioni contrastanti su ciò che accadde al Campo Base dopo la valanga. Può darsi che parecchi Sherpa, addolorati e giustamente preoccupati per le condizioni della cascata, abbiano pensato che fosse più facile evitare di tornare al lavoro adducendo minacce da parte dei fantomatici “militanti”. Nessuno vuole giustificare il ricorso alla violenza, ma certo viene da chiedersi: perché mai i lavoratori della montagna non dovrebbero sfruttare il loro potere contrattuale – conquistato a caro prezzo – per far valere i loro diritti e migliorare le loro condizioni? Pochi osservatori occidentali hanno fatto notare come il cosiddetto sciopero degli Sherpa si inserisca in un contesto più ampio: in Nepal gli scioperi (bandhs) sono all’ordine del giorno, e spesso sono l’unico modo per sollecitare l’attenzione della burocrazia statale. Proprio mentre era in corso la vertenza sull’Everest, uno sciopero dell’industria della ghiaia bloccava i lavori stradali a Kathmandu.
«Vent’anni fa, meno della metà dei lavoratori dell’Everest aveva finito la scuola superiore», stimava Sumit Joshi un mese dopo la valanga. «Oggi l’80 per cento ha un diploma. Seguono i mass media occidentali. Sanno come funzionano le cose. Sono più consapevoli dei propri diritti. Sanno di poter dire quello che pensano. Sanno cosa succede nel mondo esterno, quanto guadagna il governo con i permessi e quanto poco denaro finisce nelle loro tasche. Non dovremmo etichettarli come militanti o maoisti: semplicemente, è una nuova generazione».
Il cambio generazionale ha inciso anche sulla composizione etnica delle squadre di montagna. La forza lavoro, un tempo pressoché monopolizzata dagli Sherpa, è oggi composta sempre più spesso da membri di altri gruppi, come i Rai o i Tamang, quasi sempre più poveri e ancora più bisognosi di lavorare. La squadra di John All era composta da 17 “Sherpa”, di cui solo cinque lo erano per etnia; gli altri 12 erano Rai o Tamang. «Gli Sherpa sono ancora la punta di diamante delle spedizioni: sono loro a fare gran parte del lavoro sopra i 7.500 metri», precisa All. «Rai e Tamang portano le attrezzature fino al Campo 3».
Chiedo ad Ang Dorjee Sherpa, presidente del SPCC, se sa qualcosa delle presunte minacce intercorse tra gli Sherpa, ma lui subito minimizza. A volte si ha l’impressione che gli Sherpa stessi sentano di non potersi permettere di guastare l’immagine idealizzata che gli stranieri si sono fatti di loro: abitanti di un’idilliaca regione montuosa, pacifici, altruisti, lontani dai turbamenti della modernità. «Bisogna capire la nostra cultura», mi dice Ang Dorjee. «Per noi è assolutamente normale minacciare di rompere le gambe a qualcuno senza avere alcuna intenzione di farlo. Ogni anno durante la festa del Dumchi a Namche ci sono quattro o cinque risse. Per noi è del tutto normale scambiarsi qualche pugno dopo aver bevuto un po’ di chang, ma l’indomani è tutto dimenticato, amici come prima. Al 99 per cento gli Sherpa sono grandi lavoratori, onesti e leali. La tradizione prosegue; se dovessimo perderla, allora avremmo un problema. Tutti possono diventare bravi scalatori, ma essere onesti e leali e lavorare sodo è quello che ci rende diversi».
L’eco della valanga
La valanga che aveva seppellito sedici uomini non si fermò sulla cascata Khumbu. Il suo impatto sconvolse anche i remoti villaggi alle pendici dell’Everest, e si fece sentire ancora più lontano. Da Kathmandu il direttore organizzativo di Himalayan Ascent telefonò a Chhechi, la figlia diciannovenne di Ankaji Sherpa, per comunicarle che il padre era morto, risparmiandole un macabro dettaglio: era stato ritrovato con il casco spaccato in due. Ankaji, un veterano della montagna, si era impegnato a prendersi cura del marito di sua nipote, Pem Tenji, che aveva vent’anni ed era alla prima esperienza sull’Everest. Era stato Ankaji a farlo assumere come addetto alle cucine del Campo 2, un lavoro considerato tra i più sicuri perché richiede un solo attraversamento della cascata. Ma anche Pem Tenji era morto, e il suo corpo era ancora sepolto da qualche parte sulla montagna: sua moglie Dali non aveva nemmeno una salma su cui piangere. Riprese durante i funerali a Kathmandu, le immagini di Chhechi, annientata dal dolore, e di Nimali, la madre settantaseienne di Ankaji, sopraffatta dall’angoscia di dover seppellire un figlio, fecero il giro del mondo e divennero un simbolo della tragedia.
A Khumjung, Ngima Doma seppe dell’incidente guardando la televisione in una sala da tè, ma scoprì che suo marito Lhakpa Tenjing era morto solo quando, tornata a casa, trovò i suoceri in lacrime. «Ho chiuso con le scalate», dice invece Nima Sherpa, fratello maggiore di Lhakpa Tenjing, scampato al disastro perché una settimana prima aveva lasciato il Campo Base per farsi curare un’infezione.
Anche Nima Chhiring, l’uomo a cui piangeva l’orecchio, farebbe a meno di tornare a lavorare sull’Everest, ma non vede altra scelta. Non possiede un titolo di studio, ha una moglie e due figli, non ha una casa propria né denaro sufficiente per mandare i figli a scuola. Quando lo incontro, sta per lasciare il suo villaggio per occuparsi dei cinque yak che ha comprato nel 2009, ma dubita che la sua situazione possa migliorare. «Ho bisogno di aiuto», dice. Chiede se siano previsti risarcimenti per gli Sherpa sopravvissuti alla valanga, e quando viene a sapere che non ce ne sono, sembra che per un attimo maledica il destino che l’ha condannato a restare in vita.
Per non parlare del povero Chhewang Sherpa. Dopo la valanga il ragazzo camminò per quattro giorni, dal Campo Base fino a casa sua, a Nunthala. Arrivò la mattina del primo maggio, sotto una tempesta di pioggia, grandine, lampi e tuoni. Si era tolto le scarpe bagnate e stava per riabbracciare i genitori quando un fulmine lo scagliò a terra. Subito dopo ne arrivò un altro che lo uccise.
A Thamo, Pemba Tenjing, figlio di Ang Tshiri, telefonò alla madre per dirle che cosa era successo. Sull’insegna del loro ristorante campeggiava un’immagine dell’Everst, la montagna che lo aveva ucciso. La salma del cuoco fu riportata a casa da un corteo di parenti e amici accompagnato da un monaco. Anche Mingma Nuru fu riportato a Phurte, dove la madre pianse il secondo dei suoi figli morto sull’Everest.
Un ragazzo fu spedito a Tarngga, a tre ore di cammino attraverso la valle del Bhote Kosi, per informare Ang Nemi che suo marito Dorje – fratellastro di Ang Tshiri – era morto sull’Everest. Dorje e Ang Nemi erano sposati da 14 anni. Avevano quattro figli, due femmine e due maschi, tutti nati nella stalla degli yak. Vivevano tutto l’anno a quota 3.960 metri; quasi tutti gli altri abitanti del villaggio (una decina di famiglie) salivano solo d’estate per far pascolare le bestie. I Nemi non avevano quasi nulla: un campo di patate, qualche yak che serviva a trasportare carichi fino all’Everest, e una casa a una sola camera, buia come una grotta, costruita dal padre di Dorje. Una casa con il tetto e i muri rigorosamente di pietra, visto che nel territorio non esiste altro materiale. I bambini dormivano su giacigli che Ang Nemi srotolava ogni sera sulle panche. Da cinque anni Dorje faceva il cuoco al Campo 4 sul Colle Sud per la AAI. Stava risparmiando per costruire una casa più vicina a Thame, in modo che per i bambini fosse più facile andare a scuola.
Il 18 aprile, dopo aver avuto notizia della tragedia e senza sapere dove fosse il corpo del marito, Ang Nemi camminò per due ore fino a Thame per trovare un telefono. Seppe che I’AA! avrebbe trasportato la salma a Tarngga, così tornò a casa ad aspettare. Ma il corpo non arrivò e la mattina dopo la donna ridiscese a Thame per capire il motivo del ritardo. Intorno alle 9.30 vide passare un elicottero.
Il velivolo atterrò in un campo di patate vicino alla casa. Todd Burleson, proprietario dell’AAl, Lakpa Rita e Pemba Tenjing trasportarono la salma dentro l’abitazione. Vedendo il padre nella luce gialla della lampada avvolto in un telo blu, con indosso ancora i vestiti e gli scarponi da montagna, i bambini cominciarono a piangere.
Il piccolo Da Jangbu, sei anni, non capiva cosa stesse accadendo, ma sua sorella Mingma Doma, dodicenne, intuì la verità. «Che cosa è successo a mio padre?», chiese.
«Mi dispiace molto», le rispose Burleson. «Non lo so che cosa è successo».
Tutti e quattro i bambini piangevano a dirotto, aggrappati agli uomini che avevano riportato la salma. Anche loro piangevano, ma avevano altre famiglie affrante da consolare e dopo un quarto d’ora ripartirono in elicottero.
Adesso c’è chi dice che dal giorno più buio nella storia dell’Everest è nato qualche barlume di luce. Lo Sherpa Education Fund, istituito da Alpine Ascents nel 1999, provvede ai figli di Dorje e Ang Nemi. I bambini ora frequentano una scuola a Namche Bazar e vivono in un convitto spazioso e pieno di luce con altri 57 coetanei. Ali’improvviso, un mese dopo la valanga, hanno potuto lasciare la loro casa ai margini del mondo abitabile e si sono ritrovati con tanti nuovi amici, cibo a sufficienza, parka azzurri, uniformi scolastiche, spazzolini da denti, letti veri su cui dormire e prospettive che difficilmente avrebbero potuto immaginare prima.
Il prezzo da pagare è stato la vita del padre.