Luca Sofri, Il Post 5/11/2014, 5 novembre 2014
LA CONDANNA DELL’ALTERNANZA
Ogni volta che c’è un importante risultato elettorale che ribalta un rapporto di forze esistente – come ieri col parlamento americano – i media si dedicano alla ricerca di una tendenza più estesa con cui fare i titoli e intorno a cui discutere: l’avanzata delle sinistre, il ritorno delle destre, la ventata progressista, l’ondata moderata, eccetera. Lo sforzo è abbastanza privo di senso: i nostri tempi vedono infatti da decenni la prevalenza di contesti e situazioni nazionali a influenzare i risultati elettorali, e non di sviluppi o fenomeni globali. Che ogni tanto alcune situazioni si allineino nei risultati è quasi sempre frutto del caso (basta guardare il recente tentativo di disegnare un fenomeno europeo di sinistra a partire da tre leader, dalla loro età e dalla loro camicia: quanto ai risultati, uno va forte al governo in Italia, uno è una fragile speranza all’opposizione in Spagna, e uno è una questione complicata e precaria al governo in Francia).
C’è invece, mi pare, un fattore che sta diventando sempre più comune alle occasioni elettorali dei paesi occidentali, e che costituisce quello sì una tendenza: chi è maggioranza perde consensi, quindi perde le elezioni e diventa minoranza. Niente di nuovo, direte voi, il potere logora: ma l’applicazione di questa regola sta diventando sempre più frequente e prevalente. Ed è un’evoluzione interessante, perché implica una sempre maggiore impossibilità di mantenere o ottenere il consenso nel momento in cui hai il potere di fare le cose. E questo a sua volta ha due ragioni attualissime e mai così opprimenti: uno, la sempre maggiore impossibilità di fare le cose, nei nostri sistemi democratici burocratici e partigiani; due, le aspettative e le richieste sempre più alte ed esigenti da parte degli elettori.
La sintesi estrema di tutto questo è il seguente percorso: un partito o coalizione vince le elezioni, governa, riesce a combinare molto meno di quello che ha promesso per vincere, la gente si arrabbia perché voleva addirittura molto più di quello che aveva promesso, e alle elezioni dopo vota gli altri. E così via: nei casi in cui l’opposizione sia particolarmente inetta possono volerci un paio di turni.
La variabile rispetto a questa struttura è data dall’usura – lenta, ma arriva – della pazienza della gente per il meccanismo e il rimbalzare dei tentativi, che a un certo punto genera l’illusoria soluzione della vittoria del “partito nuovo”. Che va al governo, e riparte il meccanismo (per questo il M5S ha inventato una sua originale ma saggia soluzione autoconservativa).
Poi certo, ci sono fallimenti più plateali e indiscutibili, e altri più ambigui e parzialmente perdonabili. Ma la grande questione delle democrazie “mature” oggi è che è diventato impossibile to succeed: nessun grande paese occidentale ha avuto negli ultimi decenni dei leader o delle maggioranze i cui successi siano estesamente condivisi (forse con parziale eccezione di Angela Merkel, soprattutto per le fortune economiche tedesche di cui ha meriti tutti da valutare e chissà per quanto).
E siccome di democrazie reali parliamo, riducendo questa analisi si arriva alla conclusione che non siamo in grado, come collettività e forse anche come individui, di soddisfare le nostre esigenze: abbiamo alzato l’asticella fino a un punto dove non sappiamo saltare, e tolto il materasso.
Non siamo all’altezza delle nostre aspettative.