Mara Accettura, D, la Repubblica 1/11/2014, 1 novembre 2014
JHUMPA HA UN AMANTE
Una volta si veniva in Italia all’inseguimento del latin lover. Anche Jhumpa Lahiri impazzisce per l’italiano, ma nel senso della lingua, ed è per questo che due anni fa la scrittrice si è trasferita a Roma, trasportando marito e figli dalla sua casa di Fort Greene, Brooklyn, in una a Trastevere. Di questo amore per la lingua, che ormai parla benissimo (con un lieve accento romano) e scrive con altrettanta abilità, Jhumpa parla come dell’amore per un uomo. «Con l’italiano è stato un colpo di fulmine. Non so esattamente spiegare il perché. Non è la sonorità: ci sono altrettante lingue belle da ascoltare. Posso solo dire che la prima volta che l’ho sentito ho avuto un bisogno folle di averci una relazione. Sembrava una lingua che conoscevo già. Avevo la sensazione di essere tornata a casa». Casa è una faccenda molto complicata, per lei. Nata nel ’67 a Londra da genitori di Calcutta, poi trasferita a Rhode Island vicino a Boston, all’età di due anni, Jhumpa ha vissuto sempre a cavallo tra due culture. Due mondi che non riuscivano a dialogare con facilità. Su questa tensione ha costruito anche la sua fortuna letteraria. Nel ’99 ha vinto il Pulitzer con la sua opera prima, L’interprete dei malanni (pubblicato in Italia da Marcos y Marcos e poi da Guanda, che è ancora il suo editore). Dal secondo libro, L’omonimo, è stato tratto il film di Mira Nair. Il terzo, Una nuova terra, è stato al numero uno nelle classifiche Usa. L’ultimo anno l’ha passato a promuovere il suo ultimo romanzo, La moglie, in giro per il mondo. Il 22 gennaio uscirà In altre parole, una selezione di articoli che ha scritto in italiano per Internazionale, in cui parla del suo rapporto con la lingua, il nuovo entusiamante amante in confronto al quale l’inglese sbiadisce. In un racconto delizioso, Lo scambio, un piccolo cardigan nero per caso viene scambiato in un atelier con un altro. La scrittrice non lo riconosce, rivuole a tutti i costi indietro il suo. Ma alla fine decide di tenerlo, e anzi lo preferisce: perché, esattamente come l’italiano, la nuova cultura le fa vivere un’altra parte di sé.
Questo non è sorprendente per una persona che non ha mai sentito di appartenere a un luogo quanto alle parole, di abitare nella lingua. «Sì, certo, ma quale lingua? Non lo so», dice. «I miei in casa parlavano in bengalese, e questo era molto rilevante nella nostra vita: a differenza del cibo, che non era mai esattamente come a Calcutta, o dei vestiti, che all’estero sembravano costumi, la lingua era viva, autentica, veniva dall’interno». Più tardi, dice, è arrivato l’americano, la lingua imposta, parlata alla perfezione, «che ha scatenato una guerra civile in casa, perché portava una cultura che i miei rifiutavano. Io ero al centro di questo conflitto e sentivo la frustrazione di non sapere chi fossi».
La ricerca di un’identità è per lei, da sempre, «un lavoro in corso». La madre, «che vive a Rhode Island da 50 anni come se fosse ancora a Calcutta», insisteva per pettinarla, ingioiellarla e vestirla all’indiana. «Aveva il terrore di ritrovarsi una figlia americana, di non riconoscermi più». Abiti modesti e gonne lunghe durante la settimana, persino sari alle feste. «Le mie amiche bengalesi potevano indossare vestiti stretti, scarpe da ginnastica e jeans. Io no. Ero diversa, mi sentivo diversa. Non autentica. Ero furibonda, ma obbedivo perché volevo farla felice. Non uscivo di casa se non per il cinema con altre ragazze. Ero molto molto timida, diligente, responsabile. Studiavo e basta».
A differenza dei coetanei Jhumpa non ha vissuto le ribellioni e le trasformazioni dell’adolescenza. «Sapevo che avrebbe aperto una crisi enorme e quindi l’ho saltata. Un lapsus. Sono diventata subito adulta, anche se una parte di me è rimasta bambina». La mamma provava persino a combinarle dei matrimoni, che lei rifiutava. I primi amori sono nati tardi, dopo l’università, a 22 anni, e quando Jhumpa porta a casa il primo fidanzato americano «l’incontro fu un incubo. Un disastro totale». Quando finalmente arriva l’attuale marito, Alberto Vourvoulias-Bush, il giornalista di origine guatemalteca da cui ha avuto due figli, Octavio e Noor, i genitori si sono rassegnati. Jhumpa non sarà mai la perfetta ragazza indiana che hanno sempre sognato.
Nel frattempo arrivano i successi letterari. Lahiri è ormai nell’empireo dei grandi scrittori americani, nominata da Obama nel President’s Committee on the Arts and Humanities. Eppure in America le è sempre mancato qualcosa. Due anni fa si è improvvisamente trasformata nell’adolescente che non è mai stata: ha fatto le valigie, se n’è andata. Ha deciso di trasferirsi in Italia, «di smontare e ricostruire tutto piano piano, con la mia famiglia. In un certo senso ho ripercorso la vita dei miei genitori e in questo modo ho potuto capirli meglio. L’italiano, imparato per estro, ha risolto il conflitto tra le due culture creando un triangolo: una figura geometricamente più stabile, no?».
L’Italia non è certo un paese perfetto, anzi. Qui la vita ha risvolti buffi, e inquietanti. Sebbene Lahiri parli senza alcuna incertezza, «ogni volta che entro in un negozio e chiedo “questo quanto costa?”, le commesse insistono per rispondermi in inglese. È il mio aspetto che mi fa sembrare diversa. Crea un muro. Poi entra mio marito che parla molto peggio di me ma può spacciarsi per italiano e si rivolgono a lui in italiano. Credono che sia stato lui a insegnarmelo! Non vale spiegare che è americano, appena sentono il nome “Alberto”, insistono: “Ma è un nome italiano!”». Questo la fa un po’ arrabbiare. Un po’ come quel fabbro che una sera di agosto le ha aperto la serratura della porta di casa in due minuti e ha incassato più di 200 euro senza rilasciare la fattura. Il vero battesimo del fuoco però è avvenuto quella volta che, mentre andava a scuola a prendere i bambini, una macchina l’ha accostata a un incrocio «e il tizio alla guida mi ha urlato: “Vatti a lavare!”. Proprio così». Fa una pausa. «Ci ho messo un po’ per assorbire le parole. A scuola ho chiesto a una mia amica che cosa volessero dire esattamente. Ed è stato interessante perché lei mi ha risposto: “Fregatene, è un pazzo”. Un’altra invece: “È una cosa grave, è razzismo, perché hai la pelle scura”». È un episodio orribile ma Jhumpa ne parla in tono neutro e senza indignazione. «Nonostante il razzismo, amo l’Italia ancora di più, perché mi sembra più reale. In tutti i veri amori ci sono lati sgradevoli da accettare, no?». Fino a un certo punto. «Ho 47 anni e sono quello che sono, e ho lottato tutta la vita con il mio aspetto fisico. Sono così e non posso farci nulla. Però non voglio che una cosa del genere capiti a mia figlia». La giustificazione contiene una rivelazione incongrua perché Lahiri è una donna bellissima. Eppure non si è mai sentita tale. «È la verità. I miei non me l’hanno mai detto, non è nella loro cultura. In America da ragazza gli standard erano altri e anche per i miei parenti indiani avevo la pelle troppo scura. La mia inadeguatezza nasce dall’impossibilità di soddisfare entrambe le dimensioni».
A Roma è felice. «Mi sento libera in ogni senso. Sono più anonima e posso sperimentare con la scrittura. Da casa ascolto le cicale cantare e guardo tutta la città». Va bene così perché in questo periodo è stanca. «Sfinita». Il tour per La moglie, finalista al Booker Prize, è stato lunghissimo e non l’ha entusiasmata. «Un libro appena uscito per me è come morto. Non è un neonato. Una volta fuori non sento più il bisogno di averci un legame. Non voglio più vederlo. È come andare a cena con un cadavere». Strano... «Sano, invece», ribatte. «Bisogna sempre andare avanti, avere nuovi progetti». La scorsa estate ha passato le vacanze a Capalbio, poi è andata in barca a vela con gli amici, un lungo giro per le Eolie. «Un’esperienza favolosa», racconta. «Io amo il mare proprio perché è un altro mondo rispetto a quello terrestre. In mare ti senti piccolo, vulnerabile. Ti senti umile rispetto alla sua potenza. In mare nessuno mi avrebbe detto “Vatti a lavare!” perché siamo tutti insicuri, traballanti». Dopo, è passata dalla sua casa a Brooklyn, per una settimana. «Ma non sento nostalgia. Zero. Anzi, mi angoscia». Eppure che c’è gente che farebbe qualunque cosa per vivere a New York. «Certo è una società più dinamica ma sei sempre in concorso, come alla Mostra del Cinema di Venezia (dove quest’anno era in giuria, ndr). Ogni giorno e per ogni persona la vita è una competizione. Questo ti rende ambizioso ma anche eternamente insoddisfatto. Fa male», dice.
Dell’America non le piace neanche come vengono cresciuti i bambini: «Sono al centro del mondo. “Cosa vuoi mangiare? Dove vuoi andare in vacanza?”. Decidono tutto loro. È un po’ eccessivo». L’anno prossimo però in America dovrà tornarci per forza. Insegnerà Scrittura creativa e Traduzione a Princeton. «Ma tornerò qui per le vacanze, almeno quattro mesi». Sta anche scrivendo un libro, racconti in italiano di natura più astratta, «ispirati a Calvino e Manganelli, slegati dalla geografia», dato che rappresentano una svolta - e un rischio - rispetto al passato. «Scrivere in italiano è come andare in barca. Un’andatura pericolosa rispetto alla terraferma dell’inglese, ma emozionante». Jhumpa qual è il suo sogno? Il viso si spalanca in un sorriso. «Rimanere in Italia, perché mi ha regalato una cosa impagabile. Una nuova identità. I miei genitori mi hanno dato una vita e questo Paese un’altra. Sento una grande energia e ho preso una nuova direzione con il lavoro. Sono diversa, più leggera. Anche i figli e mio marito mi vedono più felice. È una sfida ma anche una commozione che si rinnova ogni giorno. Qui sono me stessa».