Carlo Bertini, La Stampa 5/11/2014, 5 novembre 2014
SCONTRO RENZI-JUNCKER: «NON SONO IL CAPO DI UNA BANDA DI BUROCRATI. E SE LA COMMISSIONE AVESSE DATO ASCOLTO AI BUROCRATI, IL GIUDIZIO SUL BILANCIO ITALIANO SAREBBE STATO MOLTO DIVERSO». IL PREMIER NON CI STA: «IN EUROPA NON VADO A DIRE “PER FAVORE ASCOLTATECI”, NON VADO CON IL CAPPELLO IN MANO»
«A Renzi dico che non sono il capo di una banda di burocrati: sono il presidente della Commissione Ue, istituzione che merita rispetto, non meno legittimata dei governi». Se il neo presidente della commissione Ue, Jean Claude Juncker, rispetto al più ostico Barroso, dovrebbe essere l’interlocutore privilegiato del premier nella sfida a cambiare verso all’Europa, queste sue parole pronunciate a Bruxelles non danno certo l’idea di un cammino in discesa. Sarà che Juncker ha fatto la voce grossa rispondendo ad un quesito del capogruppo del Ppe al Parlamento europeo Manfred Weber sulle taglianti definizioni di Renzi a margine dell’ultimo Consiglio europeo. Ma non ci è andato leggero e questo nuovo scontro non è un buon viatico per una campagna controcorrente che si sapeva sarebbe stata tutta in salita. Al punto che Juncker fa anche pesare la prima benedizione alla nostra legge di stabilità, facendo notare aspro che «se la Commissione avesse dato ascolto ai burocrati, il giudizio sul bilancio italiano sarebbe stato molto diverso». Con una postilla al vetriolo, «i Consigli europei servono per risolvere i problemi, non per crearli. Personalmente prendo sempre appunti durante le riunioni, poi sento le dichiarazioni che vengono fatte fuori e spesso i due testi non coincidono».
Renzi nel suo stile, gli risponde a muso duro: «In Europa ce la stiamo giocando, non l’abbiamo vinta né persa, ma stiamo facendo dei gol. È cambiato il clima per l’Italia e in Europa non vado a dire “per favore ascoltateci”, non vado con il cappello in mano». Insomma, taglia corto intervistato a Ballarò, «non vado a Bruxelles a farmi spiegare cosa fare e l’ho detto a Barroso e Juncker». E per essere più chiaro, sgancia una botta via twitter: «Per l’Italia, la sua storia, il suo futuro chiedo rispetto. Anzi: pretendo il rispetto che il paese merita».
E per difendere la manovra scende in campo anche il ministro dell’Economia, che dopo un vertice con Renzi sul piano Juncker di investimenti, si presenta in Commissione alla Camera: per dire che «la riduzione del rapporto debito-pil rimane una sfida ineludibile per l’Italia, che possiamo vincere solo tornando a crescere in modo sostenuto e stabile». Un segnale lanciato all’Europa dunque, seguito da un quadro fitto di luci e ombre: «La lunga recessione non è finita, ci sarà una fase di stagnazione anche nel secondo semestre del 2014, che si chiuderà con una contrazione del pil dello 0,3 per cento».
Il premier poi convoca i 400 parlamentari del suo partito per stringere i ranghi su tutte le riforme in atto, anche su quella della giustizia che approderà lunedì in Consiglio dei ministri per la sua fase conclusiva. Ma in primis sul Jobs Act che dal primo gennaio deve entrare in vigore, «è una riforma di sinistra come non ho mai visto e a parte l’art.18 c’è un consenso generale su tutto. Facciamo vedere all’Europa che le riforme non le facciamo per finta». Assicura che si voterà nel 2018, ma «non si può aspettare il 2017 per la nuova legge elettorale» per la quale si lavora a un compromesso sul capolista bloccato e le preferenze a seguire. E chiude con l’annuncio che dopo aver realizzato il pacchetto delle riforme in Italia «la prossima riforma strutturale sarà quella dell’Europa, perché da cambiare a Bruxelles c’è molto». L’esortazione a restare compatti malgrado gli scontri, le piazze e tutto quel che scuote la sinistra è quasi accorata: «Non su tutto la pensiamo allo stesso modo, ma ci attende una sfida immane per cambiare l’Italia. Si possono avere le idee più disparate su Jobs Act, riforma costituzionale, scuola, ma ci deve tenere insieme la battaglia che stiamo facendo in Italia, che segna anche il futuro dell’Europa». Nessun intervento a riprova che sul jobs act nel Pd si tratta. Tutti a casa in attesa degli eventi.
Carlo Bertini, La Stampa 5/11/2014