Raffaela Carretta, IoDonna 1/11/2014, 1 novembre 2014
UN FAVOLOSO INCONTRO DI POESIE
[Mario Martone]
In casa di Mario Martone c’è una scultura di cartapesta che arriva dal set di Il giovane favoloso. Leopardi si riconosce subito, la figura storta, un’enorme gobba simile al Vesuvio e in cima un buco che lascia cadere i bussolotti del Lotto: «La gobba porta fortuna, conoscendo i napoletani, durante il suo soggiorno in città avranno anche desiderato toccarla... Nel film a un certo punto gli chiedono i numeri per giocarseli al Lotto. Lui ci pensa un po’ e detta una quaterna che si chiude con il 94: come si sa, un numero inesistente, l’estrazione si ferma al 90». Aneddoto forse illuminante tra due esseri vitalissimi e doloranti, entrambi mostruosi nel senso di fuori dall’ordinario: il poeta e la città del vulcano, la stessa del regista.
Martone, 54 anni, segno dello Scorpione, autore di film intensi e premiati (da Morte di un matematico napoletano a L’amore molesto), è anche direttore artistico dello Stabile di Torino. Abita a Roma con Ippolita di Majo, la bionda moglie solare che da Noi credevamo, il film del 2010 sul Risorgimento, firma con lui le sceneggiature.
Casa sobria e luminosa, un vecchio edificio con un ascensore piccolissimo, un quartiere dall’aria simpaticamente sgualcita, frequentato da cinesi e magrebini. «In quell’edificio abitano Paolo Sorrentino e Matteo Garrone, è la nostra Beverly Hills» dice, e il sorriso arriva lento come se l’aria intorno ordinasse una pausa prima di concedere alle labbra di distendersi. Anche nel fisico solido, nella bella faccia del Sud («ma mi sono sempre visto brutto»), Martone sembra fatto di riflessione e tenacia. Una mente meridionale che ama girare intorno ai pensieri, sempre indicando la direzione agli altri, essendo il capo. «È così da che ho memoria e non so perché. Certo ci vuole coraggio, le paure ci sono eccome. Però già quando giocavo con mio fratello al teatro dei soldatini, lui faceva il pubblico».
Il giovane favoloso, molto struggente, è partito a razzo negli incassi, e non era detto. «Ma se racconti un ragazzo geniale e minato dalla malattia, fisicamente sgraziato, sensibilissimo e perciò nevrotico, con un padre ingombrante e una madre assente, puoi toccare la contemporaneità, le corde di chiunque». E tuttavia, non c’è solo questo, il film arriva dopo le Operette Morali portate in teatro: rincontro con il poeta sembra decisivo, come se ci fosse qualche irresistibile risonanza tra chi racconta la storia e chi ne è protagonista. «Credo sia l’implacabile fame di vita: in Leopardi proprio la disillusione e il disincanto alimentano la spinta, l’energia vitale. Il contrario esatto della depressione di cui fu accusato. Anch’io sono stato un bambino malinconico. Ogni tanto mio padre m’interrogava: che hai dentro? Era un uomo di grande concretezza, proprietario di una pellicceria. Invece mamma era una sognatrice, appassionata di letteratura e cinema. L’anno cruciale è stato il ’73: in terza media non riuscivo più a studiare, davanti allo scrittoio per ore, inconcludente. Poi scoppiò il colera, scuola chiusa per un mese, mi ritrovai a fare chilometri in una Napoli meravigliosa e feroce».
Non è solo il sopra-sotto dell’adolescenza, è un timbro ricorrente, la voce in cui riconoscersi. Molto leopardiana anche negli esiti: «Sentire l’infelicità che si sta formando mi spinge a scappare, a creare sempre qualcosa di nuovo. E naturalmente, l’altra faccia della fuga è l’insofferenza. La vita ti crea continue gabbie intorno. La famiglia, affare complicato per eccellenza, ma anche il lavoro. Ho cominciato a 17 anni e non ho mai smesso di cambiare. Da Tango Glaciale e Falso Movimento, fenomeni riconosciuti ma anche quelli diventati prigione, fino alla direzione del teatro Argentina di Roma: due anni vissuti pericolosamente perché mi hanno fatto la guerra. Però intanto gli abbonamenti erano tornati».
SOLO L’AMORE PUÒ ESSERE IMMUNE dal limite, sembra anzi un posto privo d’insofferenza, dove aspirare alla totalità. «Le donne, anche nelle amicizie, sono state fondamentali, senza di loro non avrei fatto niente. In tutte ho amato l’intelligenza: è la cosa che più mi eccita e mi accende, anche eroticamente». Con Ippolita però c’è di più: «È la prima che ho sposato. Quando l’ho conosciuta avevo 32 anni, lei 20, e per tanto tempo siamo stati solo amici. È un amore nato dalla scoperta travolgente che ciò di cui viviamo, i libri, il teatro, il cinema, fa tutt’uno con la nostra storia. La vita è fatta di prove, paure, irrequietezza: con lei ho trovato me stesso, ho capito che non dovevo averne paura. Non era mai successo. Mi è capitata una fortuna».