Libero 5/11/2014, 5 novembre 2014
FILIPPO FACCI, LIBERO 5/11/2014
Faccio sempre più fatica a vincere facile, cioè a schierarmi con la semplice logica umana in opposizione a quella dogmatica della Chiesa Cattolica o dei suoi simpatizzanti. Confesso che, ogni volta, vado a sbirciare le astruse motivazioni del «nemico» solo per vedere che cosa s’inventerà stavolta: ma rimango deluso quasi sempre, perché ormai su certi temi non c’è partita. Non so neppure, mentre scrivo, chi avranno deciso di oppormi secondo la formula del «pro e contro», o bibì e bibò, come si dice in redazione; comprendo la funzione del dibattito e la necessità di porre le questioni «in generale», perché generali sono i problemi e generali sono le soluzioni: ma nel momento in cui si parla di eutanasia o di fine-vita (la mia e quella dei miei cari) la verità è che il dibattito è già finito, l’opinione di chicchessia conta zero, figurarsi quella di un prelato o di un qualsiasi giornalista. Conta solo l’opinione di chi decide della propria vita: perché nessuno, in un regime di libertà, può disporre di una vita che non sia la propria. Fine della discussione. La 29enne Brittany Maynard è morta sabato sera: lo scorso Capodanno le era stato diagnosticato un cancro al cervello e aveva deciso di procedere al suicidio assistito. È morta come voleva, nella sua camera, tra le braccia delle persone che amava. Si era trasferita in Oregon che appunto permette il suicidio assistito. In aprile le avevano dato sei mesi di vita, le autorità sanitarie hanno valutato e accettato il suo caso. Nessuna cura l’avrebbe salvata, le terapie palliative avrebbero compromesso la sua capacità di parlare, ricordare o controllare il suo corpo, in sostanza avrebbero distrutto il tempo che le era rimasto. Le persone a lei care hanno capito, anche sua madre e suo marito. IL MESSAGGIO A un certo punto ha soltanto posticipato il suicidio di pochi giorni perché si sentiva ancora sufficientemente bene - diceva - da poter sorridere con la famiglia e gli amici, poi ha deciso che c’era stato un punto di non ritorno: quando cioè non era stata più in grado di pronunciare il nome del marito. Ha lasciato un messaggio finale pieno di serenità e positività in cui ha ringraziato i cari e gli amici e i medici. Poi ecco, ecco: ti arriva il presidente della Pontificia accademia per la vita (uno spagnolo che sembra il colonnello Bernacca) e ti spiega che la scelta di Brittany Maynard è «un’assurdità» perché «la dignità è un’altra cosa che mettere fine alla propria vita». Decide lui - un uomo con una papalina in testa, cittadino di uno staterello monarchico in cui le donne non sono parificate agli uomini - che cosa è dignitoso per una cittadina dell’Oregon. Lo decide per lei, lo decide per me e per te. E aggiunge: «Suicidarsi è una cosa cattiva perché è dire no alla propria vita e a tutto ciò che significa rispetto alla nostra missione nel mondo». IL VESCOVO La nostra missione nel mondo, la mia e la tua, oltre a quella di Brittany Maynard: il nostro vescovo ha idee chiare anche su questo. E ora voi potete complicare le cose, se volete: tanto poi, ridotte all’osso, le tesi restano sempre due. La prima vuole che la nostra vita ci appartenga, la seconda vuole che appartenga a un dio o a uno Stato. I laici rispondono di se stessi a se stessi, gli altri invece rompono le palle a tutti e pensano di occuparsi del bene del mondo. I laici sono tolleranti e pensano che ciascuno possa fare ciò che vuole anche della propria vita, gli altri invece pensano che i primi debbano fare quello che dicono loro. Ora io, per vincere facilissimo, potrei chiudere con la citazione di un’idiozia letta su Avvenire, una sorta di elogio della sofferenza: ma sono laico, e lascio che gli altri decidano della propria dignità. Li lascio vivere. Nel caso, li lascio anche morire.
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MARIO GIORDANO, LIBERO 5/11/2014
Quando una vita vale la pena di essere vissuta? E chi lo decide? In fondo la questione è tutta qui. Ciò che spacca il mondo in due, di fronte alla tragedia di Brittany, è la risposta che diamo a queste domande. Perché, è ovvio, tutti ci commuoviamo per la storia della 29enne che si toglie la vita il giorno dopo il compleanno del marito, tutti piangiamo quella faccia giovane travolta dal cancro al cervello, nessuno può pensare di condannare lei, la sua persona, il dolore infinito che deve aver provato nel salutare i suoi cari ed arrivare alla scelta definitiva. Ma la scelta definitiva sì, quella si può e si deve condannare. Perché vìola dei principi che ci sono sacri. Ci devono essere sacri. Più sacri persino della libertà di morire. Quali principi? Il primo è fissato proprio dalla risposta alla prima domanda. E cioè: la vita vale sempre la pena di essere vissuta. Sempre. Fino in fondo, fino all’ultimo istante, fino all’ultima lacrima, anche nella sofferenza più cupa. E siamo noi che dobbiamo essere in grado di aiutare a vivere la sofferenza, il dolore, il nostro e quello degli altri, perché il dolore e la sofferenza da sempre fanno parte della vita. Certo: eliminare la persona perché c’è la sofferenza è più comodo. Ma è una scorciatoia disumana. Anzi, è la scorciatoia che porta l’umanità verso l’aberrazione.
L’ACCETTAZIONE
Anche perché, e qui scatta il secondo principio, la risposta alla seconda domanda, nessuno ha il diritto di decidere sulla vita. Né la propria né quella altrui. La vita non è una proprietà privata, non è un’automobile che si può rottamare perché ha il motore rotto o la frizione che raschia troppo. La vita non abbiamo deciso noi di darcela, non possiamo decidere noi di buttarla in discarica. E il modo degno di morire non è togliersi la vita, ma accettare la morte. I suoi tempi. I suoi modi. La sua sofferenza. Perché solo accettando la morte si accetta davvero, fino in fondo, la vita. Guardate: vale anche per chi non crede. Forse: soprattutto per chi non crede. La fede, quando è autentica, non difende principi astratti: difende i valori dell’esistenza. In effetti se noi accettiamo l’idea di ridurre la vita a una merce che si può usare fin che produce utili, o piacere, o soddisfazione, e poi va eliminata, non facciamo forse un passo fondamentale (come quello che stiamo facendo) verso l’orrore?
ANZIANI E DISABILI
Pensateci: la vita di un anziano è ancora utile? Dà ancora soddisfazioni? Fino a che punto? E quella di un malato grave? E di un disabile non autosufficiente? E non riusciremo forse a fare in modo che l’anziano o il disabile si sentano di peso e chiedano di andarsene? Non cominceremo, passo dopo passo, a dire che in fondo è più dignitoso se costoro accettano di sparire piuttosto che continuare a soffrire? Non cercheremo di coprire con parole altisonanti la nostra incapacità di guardare in faccia il dolore? I nostri vecchi non avevano paura della sofferenza, non avevano paura di affrontarla, di sfidarla, di prendersene cura. Noi, invece, sì. Abbiamo paura perché la sofferenza intralcia, dà fastidio, non è trendy, rende inutili e improduttivi. Bisogna sbarazzarsene in fretta, mica c’è tempo per aspettare il corso della vita. E allora ben venga Brittany, la campagna su Brittany, le trasmissioni su Brittany. Brittany ha una bella faccia, un sorriso solare, una storia commovente. È il testimonial perfetto per far passare un concetto aberrante, il frutto più avvelenato della nostra società: l’idea cioè che siano le cose a dare un senso alla vita. E invece è il contrario. Invece è la vita a dare un senso alle cose. Anche le cose più piccole. Anche le cose più insignificanti. Anche le cose più dolorose. Hanno tutte un senso se c’è la vita. Almeno fino all’ultimo respiro che ci sarà donato.