Maria Elena Vincenzi, la Repubblica 4/11/2014, 4 novembre 2014
E I PM SI SFOGANO COL LORO CAPO “NON SIAMO NOI GLI IMPUTATI BASTA SCONFESSARE IL NOSTRO LAVORO”
ROMA.
«Ora basta, sul banco degli imputati non possiamo finire noi. Su questo processo abbiamo lavorato giorno e notte, anche di domenica. Abbiamo la coscienza a posto, non potevamo fare di più». Bersagliati da giorni dalle accuse di Ilaria Cucchi. Presi di mira dall’opinione pubblica. Inchiodati «dall’insufficienza di prove». Alla fine sotto accusa ci si sono sentiti loro, i due pm che hanno fatto le indagini sul caso Cucchi. Che, per giunta, ieri mattina sulla prima pagina di tutti i giornali hanno trovato l’apertura del loro procuratore capo Giuseppe Pignatone alla possibilità di riaprire le indagini. Parole che suonavano come un atto di sfiducia nei loro confronti. Così ieri pomeriggio, subito dopo l’incontro con Ilaria Cucchi, i due pm sono andati a parlare col capo. Vincenzo Barba e Francesca Loy si sono lamentati dei titoloni sui quotidiani e hanno difeso il loro lavoro dalle accuse della famiglia Cucchi e da quelle, più velate, di alcuni giudici. Non da ultimo il presidente della Corte d’Appello, Luciano Panzani, che, sabato, aveva parlato di «assoluzione per insufficienza di prove». E anche in quel caso, la lettura era stata solo una: bocciatura dell’inchiesta che non è riuscita a scoprire chi ha ammazzato il geometra romano.
Il solo pensiero di riprendere in mano quel fascicolo pesa come un macigno sui due magistrati: è stato un processo difficile per tutti. Loy e Barba non ci stanno a essere sconfessati. Ed è proprio per questo che, dopo il confronto, hanno chiesto al loro capo di guardare le carte. «Sarai tu a dirci se abbiamo sbagliato qualcosa, trascurato qualche elemento».
Loro pensano di avere fatto tutto il possibile ed escludono che possano emergere elementi nuovi. Hanno schivato per giorni i cronisti. Lo hanno fatto anche ieri. Ma si sono sfogati con gli amici che li hanno cercati per esprimere solidarietà. Hanno passato la giornata a riguardare gli atti del processo, a snocciolare i dettagli di un’indagine che conoscono a memoria. «Ci accusano di essere stati sciatti — spiegano ai colleghi — Abbiamo sentito oltre cento persone, disposto due consulenze in contraddittorio, una il 22 ottobre con l’autopsia, l’altra il 16 novembre, durante la riesumazione. Basti pensare che il gip ha rigettato la richiesta di perizia perché ha ritenuto che la nostra fosse sufficiente. Poi c’è stata quella della Corte d’Assise: sei medici che hanno sostanzialmente confermato la tesi dei nostri esperti ». Cucchi era morto per malnutrizione.
Le loro stanze sono un via vai continuo. E loro, provati, ripetono ai colleghi che in questo processo sono state fatte 40 udienze in Corte d’Assise e che certo non si può dire che non ci hanno creduto. «Siamo stati noi a fare appello contro la sentenza di primo grado che aveva condannato solo i medici».
La premessa è sempre la stessa. Stefano non doveva morire, ma gli attriti con la parte civile di sicuro non hanno aiutato. Anzi. «La famiglia avrebbe voluto che noi contestassimo l’omicidio preterintenzionale, ma non c’erano elementi per farlo».
Un’inchiesta che è stata sempre complicata. Che ha sfruttato, ma anche pagato, l’interesse mediatico. E in cui gli interessi in gioco erano molti. Rivendicano di avere fatto personalmente tutti gli accertamenti, non delegando alcuna indagine per non perdere nemmeno un dettaglio. «Anche la famiglia Cucchi sa che il 23 dicembre alle 10 di sera eravamo ancoro qui a interrogare persone».
Sanno, i due pm, che la ricostruzione vacillava in alcuni punti. Sono consapevoli di non aver saputo dare un nome a chi ha picchiato Stefano. Ma precisano che «gli agenti della polizia penitenziaria hanno parlato solo la prima volta che sono stati sentiti come testimoni, negando di avere visto alcunché. E poi, dopo l’iscrizione nel registro degli indagati, si sono sempre avvalsi della facoltà di non rispondere. Anche a processo». Eppure erano gli unici tre in servizio quella mattina.
Poi c’è il processo. Che non sempre va come ci si augura. Vale ad esempio per il testimone di punta della Procura, Samura Yaya, detenuto quella mattina del 19 ottobre insieme a Stefano Cucchi: secondo i pm «affidabilissimo». Ma della sua testimonianza, resa in incidente probatorio, la Corte d’Assise non ha tenuto conto. E probabilmente nemmeno quella d’appello. «Errori? No. Solo la dialettica, fisiologica, del processo». E una sentenza d’assoluzione che, certo, non fa piacere nemmeno a loro.
Maria Elena Vincenzi, la Repubblica 4/11/2014