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 2014  novembre 01 Sabato calendario

LA LUNGA MARCIA DI HUAWEI PRIMO BRAND CINESE GLOBALE


La posizione di 94 su 100 non è forse quella di un attico con vista, ma è la prima volta che un marchio cinese entra nella classifica dei più importanti marchi a livello globale stilata dalla società Interbrand. Per Huawei, gigante delle infrastrutture per le comunicazioni e terzo produttore di smartphone dopo Samsung e Apple, salire al 94esimo posto è stato come prendere il migliore degli ascensori aziendali possibili. Con l’obiettivo di scalare il cielo e nel frattempo prendersi le coccole da orgoglio nazionalista del nuovo corso della Cina di Xi Jinping. Pur essendo compagnia privata e non partecipata dallo stato.
Il marchio Huawei dice ancora poco a noi sofisticati consumatori europei, gli Ascend sono cellulari intelligenti che certo non vanno male ma che difficilmente per adesso prenderanno il posto di oggetti più alla moda o comunque considerati identitari. Nel terzo trimestre del 2014, la crescita del marchio cinese è stata complessivamente del 322% in Medio oriente e Africa, del 98% in Asia e regione del Pacifico, del 51% in America Latina. In Europa, Huawei ci sta lavorando, sponsorizzando quanto di più pop ci sia: il calcio, attraverso l’Atletico di Madrid e allargandosi al Galatasaray di Istanbul. Ma la partita resta piuttosto complicato, vista dalla panchina cui finora i marchi cinesi sono stati lasciati a guardare: riuscirà Huawei a essere il primo brand dell’ex Impero di Mezzo a saper declinare l’innovazione tecnologica in prodotti desiderabili dal consumo globale?
Ren Zhangfei, 70 anni compiuti lo scorso 25 ottobre e presidente fondatore, non parla di cellulari morsicati né di Silicon Valley da trapiantare nel suo paese. Ren è un personaggio schivo, nonostante la rivista Time lo abbia messo nel 2013 fra le 100 personalità più influenti del mondo con una ricchezza personale (stimata) intorno al miliardo di dollari. Ren ha una storia ufficiale che in fondo è una non storia: famiglia numerosa, carriera militare da esperto di telecomunicazioni e a poi a capo del genio, finché nel 1983 il suo corpo viene sciolto dal Partito comunista. Da civile insoddisfatto, crea nel 1987 il gruppo privato Huawei, bussando alle banche, chiedendo soldi a cinque investitori e facendo arridi a cinque investitori e tacendo arrivare da Honk Kong la materia prima.
Ma in occidente nessuno intende sorvolare sul suo passato governativo, per cui se Huawei è tlc, Huawei è in odore di servizi segreti e dunque è bene limitare il suo shopping all’estero. Gli americani lo stoppano quando vuole comprare la società di tlc 3Com. Un destino comune a molti cinesi del settore, seppur decenni di sudditanza tecnologica ai software stranieri abbiamo esposto il Paese ad attacchi informatici dall’estero (e oggi ampiamente ricambiati).
«Prendete Steve Jobs – ha detto nello scorso maggio Ren in un raro incontro con un gruppo di media occidentali tenuto in un elegante appartamento londinese – se fosse nato in Cina, sarebbe stato durissimo per lui sopravvivere. Perché forse aveva troppe caratteristiche inusuali, che difficilmente lo avrebbero reso bene accetto ai cinesi». Insomma, in un mondo globalizzato in cui tutti citano o evocano Jobs per dire “ehi, guarda che io sono un po’ come lui e farò altrettanto”, Ren sostiene di non avere modelli e che semmai si occupa soltanto di strategie, non di persone. Se negli ultimi otto anni pare abbia combattuto e vinto una sua personale battaglia contro il cancro, oggi preferisce appellarsi allo spirito di tolleranza dell’America affinché rinfoderi certe accuse di spionaggio. Per la successione si è comunque attrezzato.
Due anni fa, Ren sdoppia la catena di comando: lui resta presidente con alcune deleghe, l’amministratore delegato diventa una carica a rotazione di sei mesi fra tre suoi brighi minds, tre menti brillanti destinate a farsi le scarpe se vogliono restare al comando o un giorno salire ancora più su. L’ordine è di creare qualcosa di cui ha bisogno il mercato, non di un prodotto che sia nuovo e basta: “Make it possible” è il claim. Marketing, certo. Però nel quartier generale di Huawei a Shenzen – con i suoi campi di basket e tavoli di ping pong, qualche osservatore occidentale dirà che sembra di stare in uno della Silicon Valley – metà dei 150mila dipendenti lavorano su ricerca e sviluppo. Voce che si mangia il 10% del fatturato, come nelle più avanzate società dell’hi-tech occidentali. Huawei, in particolare, detiene 49mila brevetti (un quarto sono di design), un numero enorme che pone la società fra le prime cinque al mondo nel settore. Secondo la Bbc, che ha avuto modo di mettere un po’ il naso nel campus e intervistare qualche ingegnere, Huawei lavora su quello su cui tutti stanno un po’ lavorando: un software che funga da traduttore universale per fare parlare le persone tra loro nella propria lingua e capirsi lo stesso; intelligenza artificiale; la disponibilità (rara) di una speciale camera dove eliminare l’eco che disturba nelle telefonate. Niente di particolarmente avveniristico, se non fosse che anche qui vale la regola numero uno di ogni azienda cinese con cui la competizione globale deve fare i conti: Huawei sperimenta e produce per un mercato interno fatto da più di un miliardo di persone che gli dà il vantaggio iniziale di una economia di scala.
Il marchio numero 94 del mondo vale 4,3 miliardi di dollari secondo Interbrand, anni luce distante dagli oltre 118 di Apple e gli oltre 45 di Samsung, ma già più dei 4 miliardi e rotti del pluridecorato Nokia al 98esimo posto. Il valore si accresce non soltanto creando (quando ci si riesce) prodotti che servono (come suggerisce il marketing), ma anche privilegiando rapporti diretti fuori dalla Cina. Guo Ping, uno dei tre ceo in carica in questo semestre, nel giugno scorso ha incontrato il primo ministro irlandese Erma Kenny, poi il presidente della Turchia Abdullah Gul. In classifica, sono cose che a fine campionato potrebbero valere più di un pareggio.