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 2014  novembre 04 Martedì calendario

IL CASO CUCCHI. FACCI: «LO STATO È COLPEVOLE, MA LA RESPONSABILITÀ PERSONALE È UN’ALTRA COSA: VERITÀ FATTUALE E GIUDIZIARIA NON POSSONO COINCIDERE». AUGIAS: «SOPRATTUTTO QUANDO LE INDAGINI SONO MAL FATTE. BASTI RICORDARE CHE SUL VERBALE D’ARRESTO È SCRITTO CHE STEFANO CUCCHI ERA NATO IN ALBANIA E SI TROVAVA IN ITALIA SENZA FISSA DIMORA». INTANTO IL PROCURATORE PIGNATONE PENSA DI RIAPRIRE IL PROCESSO. UN CUCCHI-BIS [3

pezzi] –

Libero,
C’è da rimanere un po’ straniti. In teoria sul caso Cucchi non dovrebbe ripartire nessuna nuova indagine, a meno che emergano delle novità che farebbero riaprire qualsiasi processo come prevede l’istituto della revisione. E a meno che il procuratore di Roma Giuseppe Pignatone, con una procedura sicuramente non aliena alla pressione mediatica, non decida di andare a scovarsi personalmente le novità: rileggendo le carte del processo così da inventarsene un altro, un Cucchi-bis. Ma questo potrebbe avvenire solo a carico di altri soggetti, per esempio i carabinieri che nel 2009 arrestarono Cucchi e lo portarono in tribunale per l’udienza di convalida. Loro, in effetti, non furono neppure mai indagati, diversamente da alcuni agenti di polizia penitenziaria prosciolti due volte. Ora la procura potrebbe dirottarsi sui carabinieri - a grande richiesta - ma difficilmente sarà una revisione «a tutto campo», come titolava il Corriere online di ieri: non c’è più campo, infatti. Rimanere perplessi comunque è il minimo. Nella mattinata di ieri era sembrato che i giornali avessero titolato il falso nel tentativo d’intercettare un’indignazione comprensibilmente diffusa: «L’inchiesta può ripartire» (Corriere della Sera) o ancora «Riapriremo le indagini» (Il Fatto Quotidiano) anche se l’inchiesta e il processo in realtà sono chiusi: manca la Cassazione, ma dovrebbe essere solo un controllo di legittimità, ovvio. La sensazione, soprattutto a margine della spaventosa pressione mediatica che sta riguardando il caso Cucchi, è che questo Paese ancora una volta stia tentando di sfuggire a un caposaldo dello stato di diritto: cioè che la verità e la verità giudiziaria possono non coincidere. Non conosciamo ancora le motivazioni della sentenza che ha mandato assolti i medici che dovevano curare Stefano Cucchi, ma conosciamo le carte del processo d’Appello perché sono identiche a quelle del primo grado: gli imputati, del resto, sono stati assolti sulla base degli stessi elementi in base ai quali dapprima erano stati condannati. Sicché, in primo luogo, ci sarebbe da chiedersi per quale ragione un giudice avrebbe dovuto forzare delle assoluzioni così impopolari, se non ne fosse stato convinto in punto di diritto. La risposta, a guardar le carte, rischia di essere molto impopolare e dolorosa: perché di prove a carico di singoli - nella sentenza di primo grado - purtroppo non se ne vedono. Ma in questo Paese è ancora molto difficile distinguere tra ciò che sembra evidente e ciò che risulta provabile. Esiste la verità: ma non esiste necessariamente una conseguente verità giudiziaria che sia dimostrabile nel corso di un processo. La verità sostanziale del caso Cucchi la conosciamo tutti: c’è un colpevole che si chiama Stato, perché uno Stato che prende in consegna un cittadino e poi se lo ritrova morto per incuria, beh, è uno stato colpevole e da Terzo mondo. Colpevole, di conseguenza, è oggettivamente l’intera filiera che ha riguardato la vicenda di Stefano Cucchi: si parte dal carabiniere che nel verbale d’arresto non trascrive i dati di Cucchi ma, per sbaglio, trascrive quelli di un albanese senza fissa dimora, e impedisce così che il detenuto possa fruire degli arresti domiciliari; ci sono i carabinieri che secondo la perizia possono aver picchiato Stefano Cucchi nei sotterranei del tribunale, o che, sempre secondo le perizie, possono anche non averlo fatto, perché il ragazzo era già malmesso di suo ed era già stato più volte al pronto soccorso per via della vita che conduceva da spacciatore acclarato; c’è, poi, il giudice che in ogni caso non si accorse di nulla nonostante le ecchimosi e le tumefazioni che il ragazzo già presentava; c’è il medico di Regina Coeli secondo il quale il detenuto era improbabilmente «caduto dalle scale», come del resto gli aveva raccontato Stefano stesso; e c’è naturalmente tutto il personale medico che cedette con sciatteria alle riluttanze di Cucchi, il quale rifiutava le cure (faceva lo sciopero della fame e respingeva le flebo, anche se era ipoglicemico) talché i medici neppure si accorsero che quella specie di scheletro vivente, che all’arresto pesava 43 chili nonostante fosse alto 1 e 76, in punto di morte era ormai ridotto a 37 chili. Fanno parte della filiera anche i regolamenti stupidi e le burocrazie ottuse: quelle che hanno impedito all’avvocato della famiglia di arrivare per tempo - Cucchi ne ebbe uno d’ufficio - e quelle che impedirono alla famiglia di vedere Stefano sino al lunedì della sua morte. Tutto questo, e altro, compone l’imperdonabile colpa di uno Stato che forse non ha ucciso Cucchi, ma l’ha accompagnato indifferente a morire. Cambia poco, per una famiglia e, nel nostro piccolo, per la nostra rabbia. Cambia poco anche se lo Stato ha già riconosciuto la sua colpa: la struttura ospedaliera che ha lasciato morire Stefano ha già risarcito la famiglia con un milione e 340mila euro, e altre cause probabilmente seguiranno. Giustamente. Ma la responsabilità penale è un’altra cosa. Quello che è mancato, nel processo, è un singolo atto compiuto o non compiuto che abbia verosimilmente causato la morte di Stefano Cucchi. Sono mancate le responsabilità personali che permettessero a un giudice di dire «tu sei un omicida» a una guardia, a un giudice, a un medico o a un infermiere: al di là di ogni ragionevole dubbio, come si dice. Ma la rabbia e il dolore, dei dubbi, non sanno che farsene.
Filippo Facci
***
la Repubblica,
Caro Augias, quando da piccola litigavo con mio fratello, il tribunale di famiglia, nelle vesti dei genitori, ci interrogava, ci ascoltava e decideva. Quasi mai ero del tutto innocente, spesso venivo redarguita, a volte punita. Ricordo l’umiliazione della sconfitta davanti a mio fratello, la mia frustrazione. Ma quando quella sensazione svaniva e tornavamo a sorriderci, quello che restava scolpito nella mia testa era la consapevolezza che una giustizia suprema e imparziale vegliasse sulle nostre vite. Leggendo i giornali a proposito di Stefano Cucchi, mi chiedo se il senso di giustizia che ci aspettiamo di trovare al di fuori delle nostre famiglie sia ancora un bene riconosciuto da chi la giustizia dovrebbe garantirla. Mi chiedo se le regole di questo nuovo “gioco” di cui tutti facciamo parte siano ancora lì per garantire a tutti, al di là delle nostre colpe o debolezze, che il male non resti impunito; che le autorità garantiscano l’ordine tra i cittadini, che il carcere allontani dalla società persone colpevoli punite secondo la legge, che negli ospedali i medici svolgano il loro lavoro sapendo che per molti pazienti sono loro a fare la differenza tra la vita e morte.
Alessandra Sano
Le parole del procuratore di Roma Giuseppe Pignatone ridanno un minimo di credibilità alle istituzioni. Non credo che la Corte d’Assise d’Appello abbia emesso la sentenza d’assoluzione in malafede o sotto pressioni indebite. Credo al contrario che quei giudici abbiano davvero ritenuto di non avere prove sufficienti per condannare guardie carcerarie, infermieri, medici. Per questi ultimi ribaltando un giudizio di primo grado così netto che le assicurazioni avevano già risarcito i danneggiati. Se non i giudici dove cercare allora le responsabilità? Nelle varie articolazioni dello Stato, cioè nelle indagini mal fatte: sciatteria, inadeguatezza, superficialità dilettantesca. Sul verbale d’arresto è scritto che Stefano Cucchi era nato in Albania e si trovava in Italia senza fissa dimora. Talmente nota la sua “dimora” che in quel momento era già stata perquisita. L’ipotesi è che il militare abbia utilizzato un modulo già compilato per un altro caso, senza rendersi conto del suo errore. Il primo giudice nell’atto di convalida dell’arresto nega i domiciliari proprio perché l’imputato è “senza fissa dimora”. Cucchi venne duramente picchiato. Al medico del carcere dice d’essere caduto dalle scale; gli imputati lo fanno quasi sempre. Per poterlo incontrare i genitori dovevano essere autorizzati ma era un fine settimana e l’autorizzazione arrivò solo il lunedì. Troppo tardi, quel giorno stesso Cucchi moriva. Ho citato solo alcuni passaggi di queste “indagini”. La realtà che rivelano è peggiore di una sentenza scritta in malafede.
Corrado Augias
***
Corriere della Sera,
È una strada stretta e in salita quella indicata dal procuratore Pignatone che potrebbe — forse, fra tre mesi se non più tardi — portare alla riapertura delle indagini sulla morte di Stefano Cucchi. L’hanno capito gli stessi genitori della vittima e la sorella Ilaria, con i quali il magistrato è stato chiaro: non è il caso di alimentare aspettative che potrebbero andare deluse. I familiari di Stefano continuano a chiedere giustizia, ed è più che comprensibile; così come è comprensibile — oltre che giusto — che il primo rappresentante della pubblica accusa abbia aperto la porta del suo ufficio per ascoltarne le ragioni. Ora annuncia che farà il possibile, ma il possibile non potrà non tenere conto della sentenza d’appello, della precedente inchiesta e delle regole imposte dai codici. Dal momento della richiesta di rinvio a giudizio la famiglia Cucchi ha contestato i pubblici ministeri «colpevoli» di essersi legati a ipotesi di reato (lesioni per gli agenti di custodia e abbandono di persona incapace di provvedere a se stessa per medici e infermieri) che difficilmente avrebbero retto al vaglio del dibattimento. Così è stato, ma non c’è la controprova che una diversa impostazione dell’accusa avrebbe portato a diversi risultati. Genitori e sorella di Stefano vorrebbero che alla«rilettura» degli atti fossero destinati altri pm. Per adesso se ne occuperà il procuratore, che comunque ha ribadito la propria fiducia verso i colleghi che hanno condotto un’inchiesta e un processo difficili su una morte inizialmente certificata come «naturale», ordinando l’autopsia prima ancora che i familiari denunciassero il caso in tv. In seguito ci potranno essere avvicendamenti o affiancamenti, ma la ricerca di responsabilità fra chi non è stato inquisito resta un’incognita. La Corte d’assise ipotizzò il pestaggio ad opera dei carabinieri che ebbero in custodia Stefano dopo l’arresto, senza però inviare gli atti in Procura perché si riprendesse a indagare; segno di una congettura avanzata più per sostenere che non c’era certezza delle botte nei sotterranei del tribunale che per indicare altri colpevoli. In teoria si potrebbe ripartire da lì, ma dopo cinque anni e le risultanze dei vecchi verbali, sarà tutt’altro che semplice arrivare a esiti più soddisfacenti. Ma se, come ha detto il procuratore, è «inaccettabile» la morte per cause non naturali di una persona custodita dallo Stato, la resa non è prevista.
Giovanni Bianconi