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 2014  novembre 02 Domenica calendario

ORBAN, IL CHAVEZ EUROPEO CHE SPAVENTA BRUXELLES

Fascista, populista, anti-europeo o illiberale. E ancora trasformista e anti-semita. Del premier ungherese Viktor Orbán è stato scritto molto dai giornali occidentali negli ultimi anni. E piuttosto spesso, per non dire sempre, il suo nome viene accostato a uno di questi aggettivi. È successo ancora pochi giorni fa, dopo l’annuncio di una proposta di legge governativa sull’utilizzo di Internet. Il premier prevedeva di prelevare 150 fiorini, (50 centesimi di euro) per giga-byte di traffico dati e colmare in questo modo – ha detto lui – il buco di bilancio per il prossimo anno.
«È un’idea molto cattiva», ha tuonato l’Unione Europea da Bruxelles, considerandola solo l’ultima in ordine di tempo di una «serie di misure che limitano la libertà» (così il portavoce della commissaria Ue per l’Agenda Digitale Neelie Kroes). Pochi giorni dopo – e dopo la protesta di 100.000 ungheresi – il premier ha ritirato la proposta, rimandando tutto a gennaio 2015. Ma la frittata era fatta. In breve, sopra il vigoroso premier ungherese è tornato ad aleggiare lo spettro di un’“Ungheria fascista”.
Eppure, in giro per l’Europa, non è difficile trovare sempre più voci a favore di Orbán. Non solo quella di Tibor Fisher, noto scrittore britannico di origini ungheresi che se l’è presa con il Guardian e i giornalisti occidentali, che hanno “inscatolato” Orbán nella parola «populista di destra» perché «capaci di pensare solo con le strette categorie di Destra e Sinistra». Diversi altri analisti riducono di molto la minaccia liberticida che in tanti nella vecchia Europa scorgono nell’altero premier ungherese, in un Orbán che ad aprile 2014, prima della rielezione con la maggioranza assoluta dei voti, intestava a sé 380 leggi, e in due mandati aveva riformato quasi ogni aspetto del funzionamento delle istituzioni pubbliche.
All’indice ci sono in particolare la Riforma costituzionale ungherese del marzo 2013. Con essa la Corte costituzionale può esaminare cambiamenti della Costituzione solo da un punto di vista formale, non sui contenuti. La stessa riforma ha introdotto un’Authority ungherese per i media e la comunicazione (Nmhh), di nomina governativa, incaricata di sanzionare i media che diffondono notizie lesive dell’ “interesse nazionale”. Ha obbligato gli studenti a restare, dopo la laurea, in Ungheria per un periodo almeno lungo come il corso di laurea, pena il pagamento delle spese degli studi superiori. E imposto il divieto di dibattiti elettorali su radio e tv private.
Ma Orbán ha introdotto anche il pensionamento anticipato per i giudici della Corte suprema. Ha riformato la Banca Centrale Ungherese, prevedendo che la nomina del governatore spetti al governo e ha cambiato nel 2012 la legge elettorale. «È il Chavez europeo», diceva nel gennaio 2012 il capogruppo dei Verdi al Parlamento Ue nel gennaio 2012.
«È facile etichettare Orbán come populista, dittatore in potenza, me ne rendo conto. Ma non è Marine le Pen», spiega Paolo Guido Spinelli, ex ambasciatore italiano in Ungheria. «e nemmeno il leader dell’Ukip Nigel Farage». In una galassia di euroscettici, il premier ungherese è molto meno pericoloso per la tenuta del progetto europeo. «Vi assicuro – spiega Spinelli – che il processo democratico in Ungheria funziona senza problemi, le elezioni sono sempre state libere».
«Da un punto di vista dei contenuti politici è certamente un conservatore. L’Ungheria di Orbán è più nazionalista della Russia di Putin. L’idea alla base è quella della conservazione e difesa della tradizione condivisa dalla maggior parte degli ungheresi. Ma tutto questo va capito nella realtà ungherese, popolo da sempre minoritario in un mare slavo e tedesco». Etichettarlo come fascista, insomma, è troppo semplicistico. «Fidesz, il partito di Orban, è decisamente lontano dalle posizioni di Jobbik, il vero partito fascista ungherese, razzista e anti-semita ungherese», spiega Spinelli. «Più a destra di Marine Le Pen e da cui Orban prende spesso le distanze».
E infatti, mentre in Europa l’indignazione verso Orbán cresce, in Ungheria il consenso per il premier aumenta. Tanto che durante l’ultima tornata elettorale, alle amministrative di metà ottobre, il suo partito Fidesz ha raggiunto la maggioranza assoluta in tutte le contee del Paese. Effetto delle misure “restrittive” del premier o frutto della sua abilità politica? La questione è sottile.
Perché il premier, in tutti questi anni al governo, ha ribaltato non solo le istituzioni ma anche l’andamento economico del Paese che dal 2013 a oggi, ha ridotto la disoccupazione, dall’11% all’8%. Il rapporto deficit/Pil è rientrato sotto la soglia del 3%, ed è sceso il tasso d’inflazione. In piena crisi economica europea, il Pil ungherese è tornato a crescere, e l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo (Oecd) ritiene che la ripresa continuerà anche nel 2014.
La Banca centrale ungherese ha appena annunciato che varerà prestiti speciali per la crescita, che riducano sotto l’attuale 10% il tasso di interesse per i piccoli imprenditori. Ma Orbán ha agevolato la ripresa tassando soprattutto i profitti di banche e istituti finanziari stranieri, introducendo misure a favore delle imprese nazionali. E portato un rinnovato clima di fiducia che ha attratto diversi capitali stranieri. Misure etichettate come nazionalistiche, in un Paese dove la presenza di aziende straniere e soprattutto gruppi bancari internazionali è sempre stata forte.
Viktor Orbán è un leader anche secondo l’immaginario collettivo ungherese. «Non è molto alto, ma è ben piazzato. Rappresenta fisicamente il capo che deve trascinare – spiega Spinelli – Ferenc Gyurcsaly, invece, l’ultimo primo ministro socialista, era un biondino a modo».
La questione è più vicina a noi di quanto si creda. Forse il premier ungherese chiede solo di essere osservato senza le lenti deformanti di un pensiero unico e assoluto. O senza le vecchie categorie oggi anacronistiche. Come di fatto chiedono, in altro modo e per altre questioni, Paesi come Francia e Italia quando a Bruxelles vanno a chiedere indulgenza sulle analisi dei conti pubblici. E ottengono invece un voto asettico e una lista lunga e glaciale di compiti da fare.